N. 101 SENTENZA 10 - 19 marzo 1993

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Processo  penale  - Imputato contumace - Restituzione nel termine per
 poter formulare la richiesta di  applicazione  di  una  pena  di  cui
 all'art.   444   -   Mancata   previsione   -   Assenza  di  ostacoli
 interpretativi alla piena applicazione dell'art. 175 del  c.p.p.    -
 Non fondatezza nei sensi in cui in motivazione.
 
 (C.P.P., artt. 487, quinto comma, e 446, primo comma).
 
 (Cost., artt. 3 e 24).
(GU n.13 del 24-3-1993 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici: dott. Francesco GRECO, prof. Gabriele  PESCATORE,  avv.  Ugo
 SPAGNOLI,  prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv.
 Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo  CHELI,  dott.    Renato
 GRANATA,  prof.  Giuliano  VASSALLI,  prof.  Francesco  GUIZZI, prof.
 Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt.  487,  quinto
 comma,  e  446, primo comma, del codice di procedura penale, promosso
 con ordinanza emessa il 27 maggio 1992 dal Tribunale di  Bolzano  nel
 procedimento  penale  a carico di Mair Gregor, iscritta al n. 473 del
 registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
 Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 1992;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio del 27  gennaio  1993  il  Giudice
 relatore Mauro Ferri;
                           Ritenuto in fatto
    1. - Il Tribunale di Bolzano, con ordinanza del 27 maggio 1992, ha
 sollevato  questione  di  legittimita' costituzionale, in riferimento
 agli artt. 3 e 24 della Costituzione, degli artt. 487, quinto  comma,
 e  446,  primo comma, del codice di procedura penale, "nella parte in
 cui non  consentono  all'imputato  dichiarato  contumace,  che  abbia
 successivamente,  prima  della  decisione,  fornito  la prova del suo
 legittimo impedimento, di chiedere il patteggiamento".
    Il remittente osserva che l'art. 487, quinto comma, del codice  di
 procedura  penale,  nell'ultima  parte,  prevede  che  se  l'imputato
 dimostra che la prova del  legittimo  impedimento  e'  pervenuta  con
 ritardo  senza  sua  colpa,  e'  disposta  la rinnovazione degli atti
 rilevanti ai fini della decisione; non prevede pero'  che  l'imputato
 sia  riammesso  nei termini e nelle condizioni di poter esercitare in
 pieno i suoi diritti di difesa.
    L'art. 446, primo comma, del codice di  procedura  penale,  a  sua
 volta,  pone  come  limite  per  la  richiesta  del patteggiamento le
 formalita'  di  apertura  del  dibattimento   e   non   tiene   conto
 dell'eventualita'   che   a   queste   formalita'   di  apertura  del
 dibattimento  non  sia  presente   l'imputato   che,   legittimamente
 impedito,  non  abbia  potuto,  non per sua colpa, fornire tempestiva
 prova di tale impedimento.
    Le norme, ad avviso del remittente, contrastano con gli artt. 3  e
 24 della Costituzione.
    Vi   e'   infatti   disparita'   di   trattamento  tra  l'imputato
 legittimamente impedito che abbia potuto fornire  la  prova  del  suo
 impedimento  e  l'imputato  che  nelle stesse condizioni di legittimo
 impedimento non abbia potuto, non per sua colpa,  fornire  la  stessa
 prova.  La  discriminazione consiste nel fatto che nel primo caso non
 sono compiute le formalita' di apertura del dibattimento e l'imputato
 e' nei termini e nelle condizioni di  richiedere  il  patteggiamento;
 tale possibilita' e' invece preclusa nel secondo caso.
    E'   indubbio,   infine,   che   la  richiesta  di  patteggiamento
 costituisce una forma di difesa, come dimostrano i  vantaggi  che  il
 codice fa discendere dalla scelta di questo procedimento speciale.
    2.  -  E'  intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
 ministri, concludendo per l'infondatezza della questione.
    Osserva l'Avvocatura dello Stato che  nel  sistema  tracciato  dal
 nuovo  codice  di  procedura  penale  la  contumacia  rappresenta una
 situazione del tutto residuale: a norma del primo comma dell'art. 487
 persino la mera probabilita'  di  una  mancata  conoscenza  o  di  un
 impedimento   a   presenziare   e'   sufficiente   ad   impedirne  la
 dichiarazione.
    Una volta pero' che non ricorrano le condizioni previste dal primo
 comma dell'art. 487, e debba  quindi  legittimamente  presumersi  che
 l'imputato,  esercitando  la  facolta'  riconosciutagli  dalla legge,
 abbia scelto di non presentarsi, non si puo' correre il  rischio  che
 l'attivita'   processuale  compiuta  possa  essere  in  ogni  momento
 vanificata dalla prova tardiva dell'impossibilita' a comparire. Ed e'
 proprio cio' -  questa  esigenza,  cioe',  di  garantire  il  normale
 svolgimento   del   processo  -  che  giustifica  la  "diversita'  di
 trattamento" fra l'imputato che fornisce la prova dell'impossibilita'
 a comparire prima della pronuncia dell'ordinanza  dichiarativa  della
 contumacia  e  l'imputato  che fornisce la stessa prova in un momento
 successivo.
                        Considerato in diritto
    1.  -  Il  Tribunale  di  Bolzano  ha   sollevato   questione   di
 legittimita'  costituzionale  degli  artt.  487, quinto comma, e 446,
 primo comma, del codice di procedura penale, nella parte in  cui  non
 consentono  che l'imputato contumace, il quale, prima della decisione
 -  essendo  pervenuta  la  prova  che l'assenza alla prima udienza fu
 dovuta alle cause indicate nell'art. 487, quarto comma - dimostri che
 la prova medesima e' pervenuta  con  ritardo  senza  sua  colpa,  sia
 restituito   nel   termine   per  poter  formulare  la  richiesta  di
 applicazione di una pena di cui  all'art.  444  del  codice,  termine
 fissato  "alla  dichiarazione  di  apertura del dibattimento di primo
 grado".
    Tale mancata previsione violerebbe, ad avviso del  remittente,  da
 un  lato,  il diritto di difesa dell'imputato, in quanto la richiesta
 di patteggiamento costituisce una forma di difesa, e, dall'altro,  il
 principio  di  eguaglianza, per irrazionale disparita' di trattamento
 tra l'imputato che abbia potuto tempestivamente fornire la prova  del
 suo  legittimo  impedimento  a  comparire e l'imputato che tale prova
 abbia fornito con ritardo ma  incolpevolmente,  in  quanto  solo  nel
 primo  caso  e'  previsto  il  rinvio del dibattimento (e, quindi, in
 particolare, della  dichiarazione  di  apertura  del  medesimo),  con
 conseguente perdurante facolta' di formulare la richiesta in esame.
    2. - La questione non e' fondata nei sensi di cui in motivazione.
    Va  premesso  che questa Corte ha gia' avuto modo di affermare che
 la richiesta di applicazione  di  una  pena  da  parte  dell'imputato
 esprime  una  modalita' di esercizio del diritto di difesa, in quanto
 "costituisce efficiente strumento di  tale  diritto  la  possibilita'
 offerta  all'imputato  di avvalersi, con libera scelta, dell'istituto
 in esame e di acquisire cosi' una pena minima sottraendosi al rischio
 di piu' gravi sanzioni" (sent. n. 313  del  1990,  ord.  n.  116  del
 1992).
    D'altro  canto,  e' stato piu' volte ritenuto, con riferimento sia
 al rito speciale ora  in  esame,  sia  al  giudizio  abbreviato,  che
 l'interesse  dell'imputato ad accedere a detti riti trova tutela solo
 in quanto la  sua  condotta  consenta  l'effettiva  adozione  di  una
 sequenza   procedimentale   che,   evitando   il   dibattimento  (con
 l'assunzione del relativo rischio da parte  dell'imputato  stesso)  e
 contraendo  le  possibilita'  di  appello,  permetta  di  raggiungere
 quell'obiettivo di rapida definizione dei processi che il legislatore
 ha inteso perseguire; per cui, una volta che tale scopo non puo' piu'
 essere pienamente  raggiunto,  in  quanto  il  dibattimento  e'  gia'
 iniziato,  non  troverebbe  piu' razionale giustificazione consentire
 ugualmente l'accesso ai riti medesimi e la concessione  dei  connessi
 benefici  (cfr.  sentt.  n.  277  e n. 593 del 1990, n. 316 del 1992;
 ordd. n. 320, n. 355 e n. 420 del 1990, n. 5 e n. 3 del 1992).  Sulla
 base  di  tali  premesse  sono  state  ritenute  legittime  -  sia in
 riferimento all'art. 3 che all'art. 24 della Costituzione - le  norme
 transitorie  che  limitano  l'ammissibilita'  dei  riti  speciali  in
 discussione ai soli procedimenti pendenti alla  data  di  entrata  in
 vigore  del  nuovo codice per i quali non siano state ancora compiute
 le formalita' di apertura del dibattimento, nonche'  quelle  che  non
 consentono  l'accesso  a  tali riti in caso di nuove contestazioni ai
 sensi degli artt. 516 e 517 del codice di procedura penale.
    Ma le anzidette considerazioni non  possono  ritenersi  valide  in
 ordine  alla  questione  ora  sottoposta all'esame della Corte, nella
 quale - rispetto alle precedenti - non  vengono  in  rilievo  ne'  la
 discrezionalita'  di  cui in generale il legislatore gode nel dettare
 disposizioni di carattere transitorio, ne' alcun profilo  di  inerzia
 dell'imputato   e  quindi  di  "addebitabilita'"  al  medesimo  delle
 conseguenze della mancata instaurazione del rito differenziato.
    Invero, almeno nei casi in cui risulti  che  la  inosservanza  del
 termine  per  formulare  -  anche  ovviamente  a mezzo di procuratore
 speciale - la  richiesta  di  applicazione  di  una  pena  sia  stata
 determinata  da  un  evento  non  evitabile dall'interessato, sarebbe
 molto difficile negare che la impossibilita' di ottenere  i  relativi
 benefici  concreti  una  ingiustificata  compressione  del diritto di
 difesa.
    3. - Tuttavia,  va  a  questo  punto  rilevato  che  l'ordinamento
 appresta  in tali ipotesi un adeguato strumento di tutela, costituito
 dall'istituto della "restituzione nel termine" di  cui  all'art.  175
 del  codice  di  procedura  penale,  il  quale,  in  linea  generale,
 stabilisce (al primo comma) che "il pubblico ministero, le parti pri-
 vate e i difensori sono restituiti nel termine stabilito  a  pena  di
 decadenza,  se  provano  di  non  averlo  potuto  osservare  per caso
 fortuito o per forza maggiore".
    Premesso che l'istituto nel suo complesso ha subito un ampliamento
 rispetto alla previgente disciplina di  cui  all'art.  183-  bis  del
 codice  abrogato,  non  sembra che alla sua applicabilita' al termine
 per  la  richiesta  di  "patteggiamento"  si   frappongano   ostacoli
 interpretativi.  Tale non puo' essere considerato, in particolare, il
 principio di tassativita' dei termini perentori che il legislatore ha
 ritenuto di introdurre nel nuovo  codice  (art.  173,  primo  comma),
 ispirandosi - come e' detto nella Relazione al progetto preliminare -
 alla  analoga  disposizione del codice di procedura civile (art. 152,
 secondo comma). Secondo la giurisprudenza della Corte  di  cassazione
 formatasi  in  ordine  a quest'ultima norma, infatti, detto principio
 non impedisce di ritenere che un termine, per lo scopo che persegue e
 per la funzione che e' destinato ad assolvere, debba, pur in  assenza
 di   un'espressa   previsione  in  tal  senso,  essere  rigorosamente
 osservato e quindi considerato di  carattere  perentorio:  e  nessuno
 dubita (ivi compreso ovviamente il giudice a quo) che quello in esame
 abbia tale natura, essendo coessenziale alla funzione di deflazione e
 di  rapida  definizione  del  processo  tipica  dell'istituto  cui si
 riferisce.
    D'altro canto, va osservato che l'istituto dell'applicazione della
 pena su richiesta delle parti, considerata anche la sua  fondamentale
 natura  di  "patteggiamento  sulla  pena  o  sul  merito" piu' che di
 "patteggiamento sul  rito",  non  appare  di  per  se'  assolutamente
 incompatibile  con  la  fase  dibattimentale  in  cui eccezionalmente
 verrebbe ad inserirsi,  conservando  anche,  in  tal  caso,  sia  pur
 parzialmente,  la  propria efficacia deflattiva. Esso, tuttavia, deve
 subire un inevitabile adattamento, ricavabile  dal  sistema.  Invero,
 tale  evenienza  certamente  non  puo'  comportare  alcuna  sorta  di
 annullamento dell'attivita' legittimamente compiuta: cio' in ossequio
 ad un generale principio di economia processuale che si  rinviene  in
 varie  disposizioni  del  codice, come, ad esempio, nell'art. 176, in
 tema proprio di effetti della restituzione nel termine,  e  nell'art.
 487,  in materia di contumacia, i quali appunto prevedono soltanto la
 possibilita' di "rinnovazione" di alcuni atti, il che certamente  non
 implica invalidamento di quelli gia' compiuti.
    Deve,  pertanto,  ritenersi, da un lato che nulla impedisce che il
 rito speciale in esame, nella ipotesi di restituzione nel termine  ai
 sensi   dell'art.   175   del   codice  di  procedura  penale,  trovi
 collocazione nel corso del dibattimento e,  dall'altro,  che  in  tal
 caso   esso   non  possa  non  operare  alla  luce  della  istruzione
 dibattimentale svoltasi sino a quel momento, con la  conseguenza  che
 sia  il  consenso  delle  parti,  sia il controllo del giudice (sulla
 qualificazione  giuridica   del   fatto,   sull'applicazione   e   la
 comparazione   delle   circostanze  prospettate  dalle  parti,  sulla
 congruita' della pena) dovranno avvenire  sulla  base  del  complesso
 degli atti fino allora compiuti.
    4.  -  In  conclusione,  accertato  che  l'ordinamento processuale
 vigente offre, a determinate rigorose condizioni, un adeguato rimedio
 a situazioni nelle quali altrimenti il diritto di difesa subirebbe un
 ingiustificato sacrificio, la questione sollevata dal giudice  a  quo
 deve dichiararsi non fondata.
    Spetta,   ovviamente,  al  giudice  medesimo  accertare  se  nella
 fattispecie sottoposta al suo  giudizio  ricorrano  gli  estremi  per
 l'applicabilita'  del  richiamato  istituto  di  cui all'art. 175 del
 codice di procedura penale.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione
 di legittimita' costituzionale degli artt. 487, quinto comma, e  446,
 primo   comma,   del   codice  di  procedura  penale,  sollevata,  in
 riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione,  dal  Tribunale  di
 Bolzano con l'ordinanza in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 10 marzo 1993.
                        Il presidente: CASAVOLA
                          Il redattore: FERRI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 19 marzo 1993.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
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