N. 189 ORDINANZA (Atto di promovimento) 18 dicembre 1992- 6 aprile 1993
N. 189 Ordinanza emessa il 18 dicembre 1992 (pervenuta alla Corte costituzionale il 6 aprile 1993) dal tribunale di sorveglianza di Brescia nel procedimento di sorveglianza per l'affidamento in prova al servizio sociale, sull'istanza di Braga Francesco Ordinamento penitenziario - Affidamento in prova al servizio sociale - Concessione - Criteri - Determinazione del limite di tre anni di pena "inflitta" - Riferimento, per la giurisprudenza della Corte di cassazione sulla base della sentenza n. 386/1989 della Corte costituzionale, alla pena residua da espiare in concreto - Conseguente ammissibilita' del beneficio anche nell'ipotesi, non esaminata dalla Corte costituzionale nelle precedenti pronunce, di pena superiore al limite dei tre anni irrogata per un unico reato, il cui residuo da espiare sia inferiore al suddetto limite - Irragionevole equiparazione, ai fini della concessione del beneficio, di diverse situazioni (soggetti condannati per piu' reati il cui cumulo superi il limite e soggetti condannati per un solo reato per cui e' stata inflitta una pena superiore ai tre anni) - Prospettata incidenza sui principi di imparzialita' e buon andamento della pubblica amministrazione - Riproposizione della questione, ritenuta tuttora rilevante, in seguito a ordinanza della Corte costituzionale di restituzione atti per ius superveniens. (Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 47, primo comma; legge 7 agosto 1992, n. 356, art. 14-bis). (Cost., artt. 3 e 97).(GU n.18 del 28-4-1993 )
IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento relativo a Braga Francesco nato a San Colombano al Lambro il 28 gennaio 1945 residente a Prato, via Montagnola n. E6, detenuto nella casa circondariale di Bergamo avente per oggetto: istanza di affidamento in relazione alla sentenza 29 novembre 1984 della Corte di appello di Torino, anni quindici di reclusione per concorso in sequestro di persona (n. 320/86 R.E. procura generale Repubblica Torino). ------ FATTO E DIRITTO Questo tribunale, con ordinanza 17 marzo 1992, dichiarava non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' dell'art. 47, primo comma, dell'ordinanza penit. nella parte in cui richiede, ai fini della ammissibilita' della domanda di affidamento in prova, una pena "inflitta" non superiore a tre anni, con riferimento alla giurisprudenza ormai costante della Corte di cassazione (contrastata da moltissimi tribunali di sorveglianza), secondo la quale per pena "inflitta" deve intendersi la pena "residua". Il caso si riferisce in concreto a Braga Francesco, detenuto a Bergamo, condannato per sequestro di persona, con l'attenuante di cui all'art. 62, n. 6, del c.p., alla pena della reclusione per anni 15, con residuo da espiare ormai inferiore largamente a tre anni. La Corte costituzionale, con ord. n. 422 del 22 ottobre 1992, depositata il 9 novembre 1992, ha ordinato la restituzione del fascicolo a questo tribunale, a causa dello ius superveniens, con richiesta di rivedere la questione. All'ordierna udienza il collegio ha riesaminato il caso concludendo, per la non influenza dello ius superveniens: la questione rimane cosi' aperta e aperto il conflitto tra la giurisprudenza di legittimita' e quella di merito. Infatti, e' sopravvenuto l'art. 15, primo comma, del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modifiche, nella legge 7 agosto 1992, n. 356. In forza di tale norma, avendo il Braga, pur condannato per il reato di cui all'art. 630 del c.p., ottenuto l'attenuante di cui all'art. 62- bis ed essendo stati acquisiti elementi tali da "escludere in maniera certa l'attualita' dei collegamenti con la criminalita' organizzata", la domanda di misura alternativa e' perfettamente ammissibile. Il Braga ha fruito e continua a fruire di permessi premio. La pena "inflitta" resta pero' superiore a tre anni; quella residua, inferiore a tale limite. La Corte costituzionale, esattamente, fa rilevare che la Cassazione a sezioni unite penali, con sentenza n. 12, (Camera di consiglio del 1½ luglio 1992) ha finalmente recepito la giurisprudenza dei tribunali ed ha stabilito che la pena "inflitta" e' quella originaria fissata nella sentenza di condanna ed e' cosi' "irrilevante la parte di pena gia' espiata". La motivazione della suddetta decisione, diffusa, perspicua e convincente e' stata depositata - si noti - soltanto il 10 settembre 1992. Tale circostanza temporale e' rilevante: infatti la motivazione non poteva essere conosciuta dal legislatore che ha introdotto nell'ordinanza penit. l'art. 14- bis, con la legge 7 agosto 1992, n. 356, in sede di convenzione, con modifiche, del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, adottato per "contrastare la criminalita' organizzata". Con l'art. 14- bis e' stata varata, senza adeguata riflessione e discussione, oltre che con inusitata rapidita', una norma interpretativa dell'art. 47, primo comma, dell'ordinanza pen., che sara' in seguito esaminata e che - in effetti - non interpreta nulla, segnalandosi per la sua atecnicita' ed equivocita'. Importa segnalare che: la norma de qua non era inserita nel testo del d.l. varato dal Consiglio dei Ministri; la norma non poteva trovare peggiore sistemazione: infatti se interpretata secondo il favor rei, come "liberale", non si vede come giustificarla in un testo - quale il d.l. n. 306/1992 - che si segnala per la sua durezza e illiberalita', tanto da essere gia' stato, per altri aspetti, reiteramente denunciato alla Corte costituzionale. Non vi e' dubbio che l'ord. penit. deve essere visto ed aggiornato, ma il modo ed i tempi scelti, sono stati i peggiori possibili. Il d.l. n. 306/1992 e' stato adottato e discusso in Parlamento sotto la spinta emotiva determinata nel Paese dalle stragi di Capaci prima e di Palermo poi. La discussione e' stata concitata, rapida, senza discussione approfondita, finita con l'approvazione di un testo su cui il Governo ha chiesto ed ottenuto la fiducia sia al Senato che alla Camera. Tale fiducia fu ottenuta, come risulta dagli atti parlamentari, a seguito di perentoria richiesta del Governo ed in particolare dal Ministro di grazia e giustizia, autore di due interventi durissimi in aula, con i quali caldeggio' un "giro di vite" innegabile a livello sia del codice di rito che dell'ordinamento penitenziario. D'altra parte, con il d.l. n. 306/1992 e la legge di conversione, si doveva dare al Paese un "segnale forte", uno strumento per difendere la stessa autorita' dello Stato di fronte a fatti gravissimi che hanno minacciato la Repubblica nelle sue fondamenta. Si dovevano adottare provvedimenti di contrasto alla criminalita' organizzata e non certo di "allargamento delle maglie", giudicate troppo larghe e permessive dallo stesso Ministro, che si e' battuto per un ritorno alla espiazione della pena secondo i canoni classici. Nel resoconto sommario (XX e XXI Atti Senato), seduta del 23 luglio 1992, pag. 26, sono riassunte le parole del Ministro guardasigilli che ha usato, tra le altre, le seguenti espressioni "rafforzare e razionalizzare l'azione statale di repressione .." "quadro legislativo che risulta caratterizzato da un sovraccarico di pastoie e garanzie e da una disciplina penitenziaria eccessivamente ed ingiustamente generosa". Il Ministro ha precisato che l'attuale quadro legislativo non sa distinguere fra forme delittuose individuali e quelle che sono espressioni di "organizzazione stabili e permanenti". Il Ministro non ha parlato dell'art. 14- bis, che egli neppure aveva proposto, e cio' conferma l'inidoneita' della sede scelta dal proponente del sub-emandamento e la tatale estraneita' della materia rispetto all'area della criminalita' ordinaria cui senza dubbio appartiene l'art. 47 dell'ordinamento penitenziario. Se e' lecito pretendere un minimo di razionalita' e di coerenza anche dal legislatore, e' allora evidente che l'art. 14- bis non puo' certo essere interpretato nel senso indicato dalla Cassazione che con recenti, numerose sentenze, sulla base del detto art. 14- bis, si e' affrettata a superare la decisione delle sezioni unite del 1½ luglio 1992, (la cui motivazione, si ripete, il legislatore ignorava). E' vero che il legislatore puo comportarsi come crede, cioe' in assoluta liberta', ma vi sono dei limiti: in particolare la coerenza, la chiarezza e la ragionevolezza sono preleggi che anche il legislatore deve osservare. Il punto e' che, mentre la motivazione delle sezioni unite e' appagante e meditata, il testo dell'art. 14- bis e' stato introdotto senza spiegarne il perche' e le finalita', agendo in una sede impropria ed in ed in una materia che non richiedeva un intervento cosi' urgente. Manca una relazione scritta al proposito. Dal resoconto dei lavori del Senato, risulta che il testo dell'art. 14- bis e' stato introdotto, quale sub-emendamento (nella seduta del 22 luglio 1992), portante il n. 1.1/1. Il testo e' rimasto sostanzialmente immutato fino all'approvazione, avvenuta in Senato, commissione giustizia, il 23 luglio 1992, con il parere favorevole del relatore (sen. Pinto) e del rappresentante del Governo, (sottosegretario De Cinque). Dal resoconto non risulta se vi fu sul punto discussione, ne' quanti furono i voti favorevoli e contrari. Come e' noto non sono disponibili i testi stenografici integrali relativi ai lavori delle commissioni del Senato, laddove (come nel caso) operino in sede referente. Le decisioni gia' note, anche se non ancora pubblicate, dalla prima sezione penale della Cassazione, con cui si da all'art. 14- bis una interpretazione contraria a quella delle sezioni unite del 1½ luglio 1992, risultano al collegio le seguenti: n. 3386 del 17 settembre 1992, depositata il 22 ottobre 1992 (Cirulli); n. 3387 del 17 settembre 1992, depositata il 22 ottobre 1992 (Fiorino); n. 3460 del 21 settembre 1992, depositata il 15 ottobre 1992 (Vallebona); n. 3467 del 22 settembre 1992, depositata il 22 ottobre 1992 (Stillitano); n. 3944 del 9 ottobre 1992, depositata il 10 novembre 1992 (Vietri). Non risultano decisioni contrarie. La Corte afferma che l'art. 14- bis ha superato la decisione delle sezioni unite (che il legislatore non conoscevaÝ), fornendo una diversa ed atuentica interpretazione. La Corte non mostra dubbi di sorta e fonda il proprio convincimento sulla frase "tenuto anche conto dell'applicazione di eventuali cause estintive" e su quella "pena da espiare in concreto", che costituiscono il nocciolo dell'art. 14- bis. Il collegio non puo' seguire tale interpretazione. Infatti, la "pena da espiare in concreto", per usare le parole del legislatore, e' espressione equivoca. Detta pena puo' essere riferita sia a quella "gia' espiata" che ha quella "da espiare". Infatti manca l'avverbio "ancora" che, se fosse stato usato, avrebbe indubbiamente chiarito il pensiero del legislatore. La lingua italiana ha dei canoni precisi, che anche il legislatore deve conoscere ed usare. D'altra parte, il recente d.l. del 12 novembre 1992, n. 431, agli artt. 7 e 8 (che modificano gli artt. 90 e 94 del t.u. 9 ottobre 1990, n. 309), ha usato una terminologia chiara: per i tossicodipendenti la sospensione della pena puo' essere concessa se la pena stessa "comminata" "o ancora da scontare" non supera i quattro anni; per l'affidamento particolare se la "pena detentiva" "inflitta" .. "o ancora da scontare" sia nel limite di quattro anni. L'argomento suddetto sembra al collegio difficilmente superabile, se come sembra, si deve applicare il principio "ubi lex voluit ..". Ne' e' possibile porre sullo stesso piano l'affidamento "particolare" e quello "ordinario": se cosi' fosse, si dovrebbe per assurdo sostenere che con il d.l. n. 431/1992 si e' modificato anche l'art. 47 dell'ord. pen., il che e' escluso dalla stessa rubrica del d.l. stesso "modifiche al t.u. delle leggi in materia di stupefacenti ..". I due criteri sono e restano diversi, perche' sono diverse la materia e le finalita', non potendosi porre sullo stesso piano il trattamento penale del condannato tossicodipendente e di quello comune. Inoltre, se si deve tener conto "anche di eventuali cause estintive", e' evidente che la Corte di cassazione ha trascurato di considerare l'aggettivo "eventuali". Cio' significa che l'interpretazione fornita da questo tribunale con ordinanza di remissione degli atti alla Corte costituzionale del 7 marzo 1992 (e recepita nella sentenza delle sezioni unite del 1½ luglio 1992), e' esatta. Questo collegio ha infatti sostenuto, e sostiene, che la pena "espiata" e' cosi' poco "estinta", che e' stata addirittura subita ed applicata. La distinzione tra cause estintive della pena "fisiologiche" e "patologiche" ha un preciso fondamento. E' vero che non e' stata prospettata dal legislatore, che giustamente si e' preoccupato nel codice penale di elencare tassativamente soltanto le cause estintive della pena "diverse dalla espiazione". Cio' per la semplice ragione che la pena estinta per cause diverse dalla espiazione non puo' ne' deve essere espiata "in concreto" (es. quella condonata), e mentre la pena "inflitta" e' talmente "non estinta", che deve essere espiata con il passare del tempo. Non bisogna confondere la consumazione della pena espiata con la "estinzione" della pena inflitta e qundi da "non espiare". Pertanto il testo dell'art. 14- bis e' tautologico, nel senso che all'evidenza la pena da espiare in concreto deve essere depurata dalla parte di pena estinta per una delle cause - eventuali - indi- cate nel libro primo, capo secondo, (artt. 171 e segg.) del codice penale. Determinante si rileva cosi' l'aggettivo "eventuali": tali cause sono soltanto quelle "patologiche" indicate dal codice penale e non certo la espiazione. Questa ultima non e' "eventuale", ma "certa". La pena "residua", e' tale soltanto se sia stata preceduta dalla espiazione che e' circostanza "certa" e non "eventuale". Concludendo, l'art. 14- bis non interpreta alcunche', anzi complica le cose e vengono conformate da questo tribunale tutte le argomentazioni contenute nell'ordinanza 17 marzo 1992 che qui viene data per trascritta. Da cio' consegue che non vi e' ius superveniens nel senso tecnico; che la situazione e' rimasta immutata e tale rimarra' fin tanto che o la Corte costituzionale interpretera' autenticamente la propria decisione n. 386/1989 (che ha dato origine alla disputa) o interverra' il legislatore con una norma finalmente precisa, tecnicamente valida, dopo aver chiarito le motivazioni di una scelta che appare oggi totalmente in contrasto con la lettera e lo spirito del legislatore del 1975 e del 1986. Il presidente del tribunale: ZAPPA
P. Q. M. Dichiara pregiudiziale e non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' dell'art. 47, primo comma, dell'ordinanza penit., cosi' come interpretato dall'art. 14- bis della legge 7 agosto 1992, n. 356, e dalla costante giurisprudenza della Corte di cassazione, nella parte in cui ritiene che per la "pena inflitta", in relazione ad unico reato, si debba intendere quella residua da espiare in concreto, per contrasto con gli artt. 3, 97 della costituzione, con il principio di ragionevolezza e con la sentenza della Corte costituzionale n. 386/1989; Sospende il giudizio; Ordina la trasmissione del fascicolo alla Corte costituzionale; Ordina la notifica al Presidente del Consiglio dei Ministri e la comunicazione ai Presidenti della Camera e del Senato. Cosi' deciso in Brescia, camera di consiglio del 18 dicembre 1992 a seguito della udienza 15 dicembre 1992. Il presidente: ZAPPA Il magistrato di sorveglianza: MASSETTI I giudici - esperti: CUSIMANO - MARTELLI Depositata in cancelleria il 19 dicembre 1992. L'assistente giudiziario: TORLANI 93C0416