N. 197 SENTENZA 19 - 27 aprile 1993

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Impiego  pubblico - Passaggio in giudicato della sentenza di condanna
 per taluni reati - Destituzione ex lege  del  dipendente  -  Richiamo
 alle  sentenze  della  Corte nn. 270/1986 e 971/1988 - Reintroduzione
 dell'istituto della destituzione di diritto del  pubblico  dipendente
 da  parte del legislatore - Svolgimento del procedimento disciplinare
 - Mancata previsione - Riconferma dell'orientamento della Corte (cfr.
 sentenze nn. 40 e 158 del 1990, 16/1991 e 407/1992) - Violazione  del
 principio  di  eguaglianza  e  dell'adeguatezza  e  gradualita' della
 sanzione al caso concreto - Illegittimita' costituzionale.
 
 (Legge 19 marzo 1990, n. 55, art. 15,  comma  4-  octies,  introdotto
 dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16)
 
 (Cost., artt. 3, 4, 24, 35 e 97).
(GU n.19 del 5-5-1993 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici: dott. Francesco GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo
    SPAGNOLI,  prof.  Antonio  BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO,
    avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI,  prof.  Enzo  CHELI,  dott.
    Renato  GRANATA,  prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI,
    prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nei giudizi di legittimita'  costituzionale  dell'art.  15,  commi  4
 septies   e   octies,  della  legge  19  marzo  1990,  n.  55  (Nuove
 disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo  mafioso  e
 di  altre  gravi  forme  di manifestazione di pericolosita' sociale),
 introdotti dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16  (Norme  in
 materia  di  elezioni  e nomine presso le regioni e gli enti locali),
 promossi con le seguenti ordinanze:
      1) ordinanza emessa il 9 luglio  1992  dal  T.A.R.  del  Friuli-
 Venezia  Giulia  sul  ricorso  proposto  da Rampino Antonio contro il
 Provveditorato agli Studi di Udine ed altro, iscritta al n.  684  del
 registro  ordinanze  1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
 Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell'anno 1992;
     2) ordinanza emessa il 15 luglio 1992 dal T.A.R. del Piemonte sul
 ricorso proposto da Calabrese Giuseppe contro la U.S.S.L.  Torino  1,
 iscritta  al  n.  694  del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella
 Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  46,  prima  serie  speciale,
 dell'anno 1992;
    Visti  l'atto di costituzione di Rampino Antonio, nonche' gli atti
 di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
    Udito nella camera di consiglio del 24 febbraio  1993  il  Giudice
 relatore Mauro Ferri;
                           Ritenuto in fatto
   1.1.  -  Con  ordinanza  del  9  luglio 1992, il T.A.R. del Friuli-
 Venezia Giulia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35 e
 97  della  Costituzione,  questione  di  legittimita'  costituzionale
 "dell'art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, cosi' come modificato
 dall'art. 1, comma quarto octies, della legge 18 gennaio 1992, n. 16,
 nella parte in cui, nel caso di condanna passata in giudicato per uno
 di  questi  reati  di  cui  al  precedente  primo  comma,  prevede la
 decadenza dal servizio dei pubblici dipendenti di cui  al  precedente
 comma quarto septies.
    Premesso  che  nei confronti del ricorrente, ausiliario presso una
 scuola media statale di Udine, e' stata disposta,  con  provvedimento
 del  Provveditore  agli  studi  di Udine, la decadenza di diritto dal
 servizio  ai  sensi  della  norma  sopra  citata  per  essere   stato
 condannato  - con sentenza ex art. 444 del codice di procedura penale
 divenuta irrevocabile - per il reato di cui all'art. 73, commi  primo
 e  quinto,  del  d.P.R.  n.  309/90,  il  giudice  remittente dubita,
 innanzitutto, della legittimita' costituzionale della norma censurata
 in riferimento all'art. 3 della Costituzione.
    Osserva al riguardo che, con la disposizione menzionata, e'  stata
 sostanzialmente  reintrodotta,  sia pure con la diversa denominazione
 di decadenza, una fattispecie di destituzione di diritto del pubblico
 dipendente  per  condanna  penale  e  cioe'  una  sanzione  espulsiva
 automatica  che,  al  verificarsi  del  presupposto,  costituito  dal
 passaggio in giudicato della relativa sentenza (o dalla definitivita'
 del provvedimento di applicazione della misura  di  prevenzione),  fa
 venir  meno,  attraverso  l'attivita'  -  vincolata  in  tal  senso -
 dell'autorita' competente, il rapporto di pubblico  impiego  in  atto
 sussistente.
    Una  volta pertanto che, per uno dei reati indicati al primo comma
 dell'art. 1 della legge n. 16 del 1992, sia intervenuta  sentenza  di
 condanna   passata  in  giudicato,  all'autorita'  amministrativa  e'
 preclusa  qualsiasi  valutazione,  anche  nella  sua  sede  naturale,
 costituita  dal  procedimento  disciplinare,  e qualsiasi gradualita'
 sanzionatoria,  ma  le  e'  imposto  dalla  disposizione,  della  cui
 costituzionalita'  si  fa  questione,  di pronunciare in ogni caso la
 decadenza del pubblico dipendente condannato.
    In   tal   modo,   considerato   l'automatismo   normativo   cosi'
 predisposto,  si  sottopongono  indiscriminatamente  alla  piu' grave
 misura  sanzionatoria  comportamenti  di  assai   diversa   gravita'.
 Appaiono  pertanto  violati  i  criteri  di coerenza e ragionevolezza
 desumibili dall'art. 3 della  Costituzione,  cosi'  come  evidenziati
 dalla sentenza n. 971 del 1988 di questa Corte.
    Ulteriore  violazione  dell'art. 3 della Costituzione, prosegue il
 giudice a quo, deriva dal fatto di aver parificato, nelle  condizioni
 che  determinano  la  decadenza,  i  pubblici dipendenti a coloro che
 ricoprono cariche pubbliche. Ne e' derivata  la  duplice  irrazionale
 conseguenza  che  a  questi  ultimi, nei confronti dei quali e' forse
 giustificato (per la natura fiduciaria  del  rapporto  con  il  corpo
 elettorale  o  con  quello  politico  da  cui  derivano  le  funzioni
 ricoperte)  un  particolare  rigore  in  presenza  di   comportamenti
 delittuosi,  sono  assimilati  soggetti  per  i  quali,  in  analoghe
 ipotesi, la normativa previgente, emanata su impulso delle menzionate
 pronunzie  del  giudice  delle  leggi,  ha  ritenuto  sufficiente  la
 valutazione in sede disciplinare delle conseguenze amministrative dei
 reati  commessi;  che inoltre, nel mentre i primi decadono solo dalla
 carica ricoperta, i secondi,  subendo  ben  piu'  grave  conseguenza,
 decadono dal servizio.
    Tale  automatica  risoluzione  del  rapporto  d'impiego, anche per
 reati di non rilevantissima entita', come nel  caso  de  quo,  appare
 inoltre  incompatibile sia con la tutela del lavoro, assicurato dagli
 artt. 4 e 35 della Costituzione, sia con i criteri di imparzialita' e
 buon andamento, cui, ai sensi del successivo  art.  97,  deve  essere
 ispirata   l'attivita'   delle   pubbliche  amministrazioni,  per  la
 sproporzione che puo' determinarsi  tra  fatto  commesso  ed  estrema
 gravita'  della  sanzione,  concretantesi  nella perdita dei mezzi di
 sussistenza.
    In tal modo,  conclude  il  remittente,  viene  inoltre  tolto  al
 pubblico  dipendente colpito dalla decadenza il diritto di esporre le
 sue ragioni e difese  all'amministrazione  in  sede  di  procedimento
 disciplinare   prima   che   gli  venga  irrogata  la  sanzione,  con
 conseguente   violazione   dell'art.   24,   secondo   comma,   della
 Costituzione.
    1.2.  -  Si  e'  costituito nel giudizio dinanzi a questa Corte il
 ricorrente nel giudizio a quo Rampino Antonio, ma fuori termine.
    1.3. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
 Ministri, il quale ha concluso per l'infondatezza delle questioni.
    Osserva, innanzitutto, l'Avvocatura dello Stato,  in  ordine  alla
 pretesa violazione degli artt. 4, 24, 35 e 97 della Costituzione, che
 al  riguardo e' sufficiente rilevare che il diritto al lavoro sancito
 dall'art. 4 - norma di valenza esclusivamente programmatica - non  e'
 certamente identificabile con un diritto al mantenimento del posto di
 lavoro;  che  il  principio  generale  di  tutela  del  lavoro  e dei
 lavoratori  contenuto   nell'art.   35   rappresenta   una   semplice
 applicazione   dell'art.   4  ed  e'  il  criterio  ispiratore  delle
 disposizioni contenute nel titolo III  della  Costituzione,  rispetto
 alle quali ha una funzione puramente introduttiva; che la lesione del
 diritto  di  difesa  non  e' configurabile, essendo questo pienamente
 esercitato nel giudizio penale di condanna e non  essendo  instaurato
 alcun  procedimento  in  sede disciplinare; che, infine, la decadenza
 non risulta in contrasto con il principio di imparzialita' e di  buon
 andamento   della   pubblica   amministrazione,   essendo  legata  la
 cessazione del rapporto di  lavoro  alla  esistenza  di  un  illecito
 correttamente    accertato   ed   essendo   quindi   sufficientemente
 giustificata   la   disciplina,   sotto   questo   riflesso,    dalla
 particolarita' della situazione e dell'obiettivo specifico perseguito
 dal legislatore.
    Piu'  delicato,  invece, prosegue l'Avvocatura, appare l'ulteriore
 profilo di contrasto individuato,  vale  a  dire  quello  concernente
 l'asserita  violazione  dell'art. 3, per l'impossibilita' di adeguare
 la reazione ordinamentale al caso concreto e di operare una effettiva
 graduazione fra le varie fattispecie oggetto di  esame  in  relazione
 alla loro obiettiva gravita'.
    Tuttavia, se la situazione in esame e' certamente analoga a quella
 gia'  esaminata  dalla  Corte  nella sentenza n. 971 del 1988, le due
 fattispecie non sono affatto coincidenti, trattandosi nella prima  di
 ipotesi   destitutoria,  che  rappresenta  la  sanzione  disciplinare
 massima - il che giustifica l'esigenza di  una  valutazione  modulare
 del  fatto  e  del  potere  di  graduazione  della  sanzione da parte
 dell'organo giudicante - e di  ipotesi  decadenziale  nella  seconda,
 basata sulla necessita' di assicurare alla pubblica amministrazione i
 presupposti  indispensabili  per  una adeguata credibilita' nel corpo
 sociale.
    Sotto questo riflesso, dunque, la ratio della norma non  e'  tanto
 la  gravita' della pena, bensi' l'essere i reati in esame espressione
 sintomatica di una personalita'  che  esclude  nel  reo,  secondo  la
 valutazione  tipica effettuata dal legislatore, l'ulteriore idoneita'
 all'esercizio del  pubblico  ufficio,  sicche'  la  scelta  normativa
 operata  non  appare  priva  di  logica  e  razionalita'  e  non  e',
 conseguentemente, in contrasto con il dettato costituzionale.
    2.1.  -  Con  ordinanza del 15 luglio 1992, il T.A.R. del Piemonte
 ha, a sua volta, sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, 35  e  97
 della   Costituzione,   questione   di   legittimita'  costituzionale
 dell'art. 15, commi 4 septies ed octies , della legge 19 marzo  1990,
 n. 55, introdotti dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16.
    Premesso che nei confronti del ricorrente, operatore professionale
 coordinatore-tecnico  di  laboratorio  in  servizio  presso  l'u.s.l.
 Torino I, e' stata disposta,  con  provvedimento  dell'amministratore
 straordinario  della  u.s.l.,  la destituzione dall'impiego a seguito
 della definitiva condanna - con sentenza del 16 dicembre  1989  della
 Corte  di  cassazione  - per il reato di cui agli artt. 71 e 74 della
 legge n. 685 del 1975, il giudice remittente  (ritenuto  altresi'  di
 escludere  che  le norme in esame siano applicabili esclusivamente in
 caso di reati  verificatisi  successivamente  alla  loro  entrata  in
 vigore,  o  per  i  quali sia intervenuta la condanna definitiva dopo
 tale data) osserva, innanzitutto, che nella  legge  n.  16  del  1992
 l'equiparazione  dei  dipendenti  degli  enti  pubblici  ai  pubblici
 amministratori appare quasi frutto di una scelta estemporanea, di cui
 e'  indizio  assai  significativo  la  circostanza  che  la   tecnica
 legislativa  utilizzata  e' quella del semplice rinvio, senza che sia
 stata minimamente valutata la diversa natura dei rapporti di servizio
 presi in considerazione, e dopo che, meno  di  due  anni  prima,  con
 l'art.  9  delle  legge  7  febbraio 1990, n. 19, si era affermato il
 principio che il pubblico  dipendente  non  puo'  essere  rimosso  di
 diritto a seguito di condanna penale.
    Ora,  gli  amministratori sono ordinariamente soggetti legati agli
 enti da un rapporto di servizio  onorario,  che  ha  per  sua  natura
 carattere  temporaneo  e comporta un compenso di tipo indennitario, e
 sono, inoltre, responsabili delle fondamentali scelte politiche e  di
 alta  amministrazione  dell'ente,  per  cui la loro decadenza ex lege
 appare piu' che giustificata. Al contrario, i dipendenti sono  legati
 all'Amministrazione  da  un rapporto di tipo professionale, che viene
 assunto come abituale e normalmente principale  attivita'  lucrativa;
 inoltre,   essi   possono   avere  nell'ente  una  posizione  affatto
 marginale.
    L'eguale trattamento di categorie cosi' differenziate di  soggetti
 appare,  pertanto,  ad  avviso  del remittente, costituire di per se'
 violazione  del  principio  costituzionale  di  uguaglianza,  di  cui
 all'art. 3, primo comma, della Costituzione, che si esprime, come ben
 noto, anche nella necessita' di differenziare la disciplina normativa
 di situazioni tra loro non assimilabili.
    Inoltre,  pare non appropriato parlare, per i pubblici dipendenti,
 nelle fattispecie de quibus, di "decadenza" dal  rapporto  d'impiego.
 Infatti,  le  pur  eterogenee  ipotesi  qualificate  come  tali,  cui
 l'ordinamento ricollega l'estinzione del rapporto d'impiego,  trovano
 un'elencazione  e  generale  disciplina  nell'art.  127 del d.P.R. 10
 gennaio 1957, n. 3 (t.u. imp. civili dello Stato).
    Orbene, nessuna di queste puo' essere assimilata alle  ipotesi  di
 decadenza  previste  dalla legge 16/92: i fatti di reato ivi elencati
 corrispondono  piuttosto,  in  gran  parte,  a  quelli  per  cui   il
 previgente  art.  85  del predetto d.P.R. prevedeva la sanzione della
 destituzione di diritto, e possono, comunque, essere tutti ricondotti
 alle infrazioni disciplinari  per  le  quali  l'art.  84  del  d.P.R.
 medesimo commina la sanzione della destituzione.
    Sembra,  pertanto, di poter concludere - prosegue il giudice a quo
 - che la decadenza de qua altro non sia che una destituzione ex  lege
 irrogata al dipendente autore di determinati tipi di reato.
    Ma non si puo' allora mancare di ricordare che l'art. 85 precitato
 fu  dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza 14 ottobre
 1988, n. 971,  nella  parte  in  cui  non  prevedeva,  in  luogo  del
 provvedimento di destituzione di diritto, l'apertura del procedimento
 disciplinare.
    Cosi',  appare  in  contrasto  con gli artt. 3, primo comma, e 97,
 primo  comma,  della  Costituzione  l'automatica  cessazione  di   un
 rapporto  di  pubblico  impiego  senza  che  sia  possibile valutare,
 adeguando la sanzione  al  caso  specifico,  la  gravita'  del  reato
 commesso,  la  rilevanza di questo in rapporto con l'attivita' svolta
 dal dipendente, il vantaggio che l'Amministrazione puo' ricavare  dal
 suo mantenimento in servizio.
    Inoltre,  la destituzione automatica appare altresi' incompatibile
 con l'esigenza di tutela del diritto  al  lavoro,  costituzionalmente
 riconosciuto  dagli  artt.  4  e  35  della Costituzione e che appare
 troppo gravemente vulnerato dall'esclusione di ogni forma  di  difesa
 in  sede  amministrativa,  in  cui  possono e debbono essere presi in
 esame  elementi  ed  interessi  diversi  ed   ulteriori   da   quelli
 considerati  dal  giudice penale, innanzi al quale, indubbiamente, il
 dipendente ha avuto  possibilita'  di  svolgere  la  propria  difesa,
 adeguata, tuttavia, all'esigenza di quel processo.
    2.2.  - E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
 ministri, il quale ha concluso  per  l'infondatezza  delle  questioni
 sollevate, svolgendo argomentazioni identiche a quelle sopra riferite
 al punto 1.3.
                        Considerato in diritto
    1.  -  Con  due  ordinanze di contenuto in larga parte coincidente
 (per cui va disposta la riunione dei relativi giudizi), il T.A.R. del
 Friuli-Venezia Giulia e il T.A.R. del Piemonte sollevano questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 15,  comma  4  octies  ,  della
 legge  19  marzo  1990, n. 55 - introdotto dall'art. 1 della legge 18
 gennaio 1992, n. 16 -, nella parte in cui, mediante  il  richiamo  al
 comma  4-quinquies,  prevede  la  decadenza  di diritto del personale
 dipendente  delle  amministrazioni  pubbliche  (compresi   gli   enti
 indicati  al  comma  1)  a  seguito  del passaggio in giudicato della
 sentenza di condanna per  taluno  dei  reati  elencati  nel  comma  1
 (ovvero  della  definitivita'  del  provvedimento  applicativo di una
 misura di  prevenzione  per  appartenenza  ad  associazione  di  tipo
 mafioso).
    I  giudici  remittenti  concordano nel ritenere che, al di la' del
 nomen iuris adoperato,  la  norma  censurata  altro  non  prevede  in
 realta' che una forma di destituzione ex lege del pubblico dipendente
 a  seguito  di  condanna  penale  per  determinati  reati,  cioe' una
 sanzione espulsiva automatica, preclusiva  di  qualsiasi  valutazione
 dell'autorita'  amministrativa  nella  sede naturale del procedimento
 disciplinare.
    Ne deriverebbe,  innanzitutto,  la  violazione  del  principio  di
 ragionevolezza  e  di  coerenza di cui all'art. 3 della Costituzione,
 per gli stessi motivi che condussero questa Corte a  dichiarare,  con
 la   sentenza   n.  971  del  1988,  l'illegittimita'  costituzionale
 dell'art. 85 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, nella parte in cui non
 prevedeva,  in  luogo  del  provvedimento di destituzione di diritto,
 l'apertura e lo svolgimento del procedimento disciplinare.
    Il  medesimo  art.  3  della  Costituzione  sarebbe  ulteriormente
 violato,  ad  avviso  dei  remittenti,  in  quanto la norma impugnata
 parifica  irrazionalmente,   sotto   il   profilo   del   trattamento
 sanzionatorio,   i  pubblici  impiegati  da  un  lato  e  i  pubblici
 amministratori (titolari di cariche elettive o di altri  assimilabili
 incarichi)  dall'altro,  prevedendo  per  entrambe dette categorie di
 soggetti - che rivestono invece  posizioni  ben  differenziate  -  la
 conseguenza,  al  verificarsi dei presupposti sopra menzionati, della
 decadenza dall'impiego o dalla carica.
    Infine, la norma censurata si porrebbe in contrasto anche  con  il
 diritto  al  lavoro (artt. 4 e 35 della Costituzione), con il diritto
 di difesa del pubblico impiegato in sede di procedimento disciplinare
 (art. 24 della Costituzione), e con il principio di buon andamento  e
 di  imparzialita'  della  pubblica  amministrazione  (art.  97  della
 Costituzione).
    2. - Il nucleo centrale delle censure prospettate  dai  giudici  a
 quibus e' costituito, come detto, dal rilievo che il legislatore, nel
 dettare   la   norma   impugnata,   ha  sostanzialmente  reintrodotto
 l'istituto della destituzione di diritto del  pubblico  dipendente  a
 seguito   di   condanna   penale,  cosi'  incorrendo  nella  medesima
 violazione dell'art. 3 della Costituzione che indusse questa Corte ad
 espungere  tale  istituto  dall'ordinamento  con  la  sentenza  sopra
 citata,  cui fece seguito l'intervento del legislatore, il quale, con
 la legge 7 febbraio 1990, n. 19 (artt. 9 e 10), adeguandosi  a  detta
 sentenza,  ha  dettato  una  generale  ed uniforme disciplina - anche
 transitoria - della materia.
    Sotto tale profilo la questione e' fondata.
    Gia' nella sentenza n. 270 del 1986, questa Corte - pur pervenendo
 allora ad una pronuncia di inammissibilita' della  questione  per  la
 ritenuta  spettanza al legislatore delle scelte relative ai possibili
 rimedi - ebbe modo di affermare che anche nel  campo  della  potesta'
 disciplinare,  come  nell'area  punitiva  penale, sussiste l'esigenza
 della esclusione di sanzioni rigide, cioe' della "adozione di criteri
 normativi  idonei  alla  commisurazione  delle  misure  sanzionatorie
 conseguenti   alla  irrevocabile  condanna  penale",  e  cio'  "quale
 esigenza - ex art. 3 della Costituzione - di adeguatezza tra illecito
 e irroganda sanzione".
    Con la successiva menzionata sentenza n. 971  del  1988  la  Corte
 addivenne   alla   dichiarazione   di  illegittimita'  costituzionale
 dell'art. 85, lett. a), del d.P.R. 10 gennaio  1957,  n.  3  -  nella
 parte   in   cui   non  prevedeva,  in  luogo  del  provvedimento  di
 destituzione di diritto, l'apertura e lo svolgimento del procedimento
 disciplinare -, nonche' di altre disposizioni di analogo contenuto ex
 art. 27 della legge n. 87 del 1953, osservando che  "l'indispensabile
 gradualita'   sanzionatoria,   ivi   compresa   la   misura   massima
 destitutoria,  importa  ..  che   le   valutazioni   relative   siano
 ricondotte,   ognora,   alla   naturale   sede   di  valutazione:  il
 procedimento disciplinare, in difetto  di  che  ogni  relativa  norma
 risulta  incoerente,  per  il  suo  automatismo,  e  conseguentemente
 irrazionale ex art. 3 della Costituzione".
    A  tale  decisione  hanno  fatto  seguito ulteriori pronunce dello
 stesso segno in ordine ad analoghe  fattispecie  di  destituzione  de
 iure  relative  ad  altre  categorie di impiegati o di professionisti
 (sentt. nn. 40 e 158 del 1990,  16  del  1991),  nelle  quali  si  e'
 costantemente  ribadito  che  il  profilo essenziale di contrasto con
 l'art. 3 della Costituzione consisteva nell'automatismo della massima
 sanzione disciplinare, prevista, senza alcuna  distinzione,  per  una
 molteplicita'  di possibili comportamenti, con conseguente offesa del
 "principio di proporzione" che e' alla base  della  razionalita'  che
 domina   il   principio   di   eguaglianza,   e  che  postula  sempre
 l'adeguatezza della sanzione al caso concreto.
    3. - Il surriferito costante orientamento di questa Corte non puo'
 non condurre ad identica conclusione anche in ordine  alla  normativa
 ora in esame.
    Essa,  invero,  - come esattamente rilevano i giudici remittenti -
 in deroga alla disciplina dettata non molto tempo prima con la  sopra
 citata  legge  n.  19  del 1990 (la quale in linea generale afferma -
 all'art. 9, primo comma - che "il pubblico dipendente non puo' essere
 destituito di diritto a seguito di condanna penale. E' abrogata  ogni
 contraria   disposizione   di  legge"),  prevede,  per  il  personale
 dipendente indicato nel comma 4 septies , l'automatica sanzione della
 destituzione  dall'impiego  -  escluso,  pertanto,  il   procedimento
 disciplinare - a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di
 condanna per uno dei reati indicati nelle lettere a), b), c) e d) del
 comma  1  (o della definitivita' del provvedimento applicativo di una
 misura di prevenzione di cui alla lettera f) del medesimo comma 1).
    Al riguardo basta osservare che tali disposizioni contemplano  una
 numerosa  e  variegata  serie  di  fattispecie delittuose, di diversa
 natura e gravita', e con  possibilita',  quindi,  di  irrogazione  in
 concreto  di  pene  notevolmente  differenziate,  alcune  delle quali
 certamente non elevate. In taluni casi, inoltre,  i  reati  non  sono
 individuati  specificamente  (cfr.  lett.  d),  ed in altri risultano
 analoghi a quelli gia' previsti nell'art. 85  del  d.P.R.  n.  3  del
 1957, poi dichiarato illegittimo da questa Corte (cfr. lett. b).
    E' ben vero - come questa Corte ha affermato nella sentenza n. 407
 del 1992 e intende qui ribadire - che la legge n. 16 del 1992 nel suo
 complesso,  iscrivendosi  nel  filone  della  cosiddetta legislazione
 antimafia, persegue le finalita'  della  salvaguardia  dell'ordine  e
 della  sicurezza  pubblica,  della tutela della libera determinazione
 degli organi elettivi, del buon andamento e della  trasparenza  delle
 amministrazioni  pubbliche, allo scopo di fronteggiare una situazione
 di grave emergenza nazionale. Ma, a  prescindere  dal  fatto  che  la
 legge    in   esame   dispone   comunque   l'"immediata   sospensione
 dell'interessato dalla funzione o dall'ufficio ricoperti" (v.  citato
 comma  4-septies)  a  seguito di condanna anche non definitiva (o, in
 alcuni casi, di semplice rinvio a giudizio), le anzidette  finalita',
 di  indubbio  rilievo costituzionale, non valgono tuttavia a superare
 lo specifico rilevato profilo di incostituzionalita' della  norma  in
 esame,  sulla base, ripetesi, dell'enunciato costante orientamento di
 questa  Corte  in  materia.  Tale  norma  concerne  una   particolare
 categoria  di  soggetti,  in  ordine  alla quale deve, in definitiva,
 ribadirsi l'esigenza che  la  valutazione  della  compatibilita'  del
 comportamento  del  pubblico dipendente con le specifiche funzioni da
 lui svolte nell'ambito del rapporto di impiego  va  ricondotta  -  al
 fine   di   garantire   la   necessaria   adeguatezza  e  gradualita'
 sanzionatoria in rapporto al  caso  concreto  e  quindi  il  rispetto
 dell'art.  3 della Costituzione - alla naturale sede del procedimento
 disciplinare, il quale,  del  resto,  ben  puo'  concludersi  con  la
 irrogazione della sanzione destitutoria.
    Assorbita  ogni altra questione, deve, pertanto, essere dichiarata
 l'illegittimita' costituzionale dell'art. 15, comma  4-octies,  della
 legge  19  marzo  1990,  n. 55, introdotto dall'art. 1 della legge 18
 gennaio 1992, n. 16, nella parte in cui, mediante il rinvio al  comma
 4-quinquies  ,  prevede,  nei  casi  ivi indicati, la destituzione di
 diritto, anziche' lo svolgimento del  procedimento  disciplinare,  ai
 sensi dell'art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n.  19.
    4.  -  E'  appena  il  caso  di  rilevare, infine, che la presente
 decisione (cosi' come le precedenti  sopra  ricordate)  non  riguarda
 minimamente,   com'e'  ovvio,  l'ambito  applicativo  e  gli  effetti
 dell'istituto della pena accessoria della interdizione  dai  pubblici
 uffici, disciplinato dalle vigenti norme del codice penale.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Riuniti   i   giudizi,   dichiara  l'illegittimita'  costituzionale
 dell'art. 15, comma 4 octies, della  legge  19  marzo  1990,  n.  55,
 introdotto  dall'art.  1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in
 materia di elezioni e nomine presso le regioni e  gli  enti  locali),
 nella  parte in cui, mediante rinvio al comma 4-quinquies, prevede la
 destituzione di diritto, anziche'  lo  svolgimento  del  procedimento
 disciplinare ai sensi dell'art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 19 aprile 1993.
                        Il Presidente: CASAVOLA
                          Il redattore: FERRI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 27 aprile 1993.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
 93C0451