N. 286 SENTENZA 10 - 16 giugno 1993

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Processo  penale  -  Cumulo  delle  pene   -   Riconoscimento   della
 continuazione   -   Esecuzione   della   sentenza   -  Esecuzione  di
 provvedimento pronunciato da giudice "diverso da quello  naturale"  -
 Erronea  prospettazione della questione - Questione insuscettibile di
 apprezzamento  da  parte  della  Corte  -  Richiesta  di   intervento
 manipolativo   della   norma   -   Discrezionalita'   legislativa   -
 Inammissibilita'.
 
 (C.P.P., art. 669, primo comma).
 
 (Cost., artt. 3, 25, primo comma, e 101, secondo comma).
(GU n.26 del 23-6-1993 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici: prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof.
    Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio  BALDASSARRE,
    avv.  Mauro  FERRI,  prof.  Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott.
    Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof.  Francesco  GUIZZI,
    prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 669, primo
 comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza  emessa
 il  29  ottobre 1992 dalla Corte di assise di appello di Cagliari nel
 procedimento di esecuzione promosso da Isa Giuliano, iscritta  al  n.
 33  del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
 della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell'anno 1993;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 Ministri;
    Udito nella camera di consiglio del  26  maggio  1993  il  Giudice
 relatore Giuliano Vassalli;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Con  ordinanza  del  24  maggio 1990, la Corte di assise di
 appello di Cagliari, in esito al procedimento di esecuzione  promosso
 da  Isa Giuliano, gia' condannato dalla detta Corte alle pene di anni
 5, mesi 6 di reclusione e  lire  1.000.000  di  multa,  rigettava  la
 richiesta  volta  ad  ottenere,  ai sensi dell'art. 671 del codice di
 procedura penale, il riconoscimento della continuazione  rispetto  ad
 ulteriori  fatti  per  cui l'Isa ebbe a subire altre undici condanne,
 dieci delle quali comprese nel provvedimento  di  cumulo  emesso  dal
 Procuratore  Generale  presso  la  Corte  di  appello di Milano il 25
 maggio 1987, e l'ultima pronunciata dalla Corte di assise di  appello
 di Cagliari il 14 febbraio 1989.
    Il  ricorso  proposto  avverso la detta ordinanza veniva rigettato
 dalla Corte di cassazione con sentenza del 5 febbraio 1991.
    In pendenza di tale ricorso, l'Isa proponeva una  nuova  richiesta
 di  applicazione  della continuazione, limitandola ai reati di cui al
 provvedimento di cumulo del Procuratore Generale di Milano,  "tacendo
 non  solo che nel frattempo era divenuta esecutiva una nuova condanna
 di altro giudice" (quella 14 febbraio 1989 della Corte di  assise  di
 appello  di  Cagliari), ma anche che analoga richiesta era gia' stata
 respinta dalla Corte cagliaritana.
    Con ordinanza del 23 novembre 1990, la Corte di assise di  appello
 di  Milano  accoglieva  la  nuova  richiesta,  determinando  la  pena
 complessiva per il reato continuato in anni nove di reclusione.
    L'interessato  domandava,  quindi,  al  Procuratore  Generale   di
 Cagliari  un nuovo provvedimento di unificazione della pena affinche'
 la carcerazione sofferta  in  eccedenza  fosse  detratta  dalla  pena
 irrogata dalla Corte di assise di appello di Cagliari.
    Quest'ultima   Corte,  investita  quale  giudice  dell'esecuzione,
 dichiarava non applicabile l'ordinanza della Corte milanese.
    La Corte di cassazione, nuovamente adi'ta dall'Isa,  con  sentenza
 26   marzo  1992,  annullava  l'ordinanza  impugnata  in  quanto  "la
 manifesta e oggettiva illegalita' del provvedimento  e'  coperta  dal
 formale passaggio in giudicato di esso".
    All'udienza,  fissata  per  la  trattazione  del  procedimento  di
 esecuzione  in  sede  di  rinvio  dalla  Corte  di   cassazione,   il
 Procuratore  Generale  eccepiva l'illegittimita', in riferimento agli
 artt. 3, 25 e 101, secondo comma, della Costituzione, dell'art.  669,
 primo  comma,  del codice di procedura penale, nella parte in cui non
 prevede che, nel  caso  di  contrasto  fra  giudicati,  debba  essere
 eseguito  quello  derivante  dalla  decisione  del "giudice naturale,
 anche se meno favorevole al reo".
    Con ordinanza del 29 ottobre 1992 la Corte di assise di appello di
 Cagliari accoglieva la proposta eccezione e, sospeso il  giudizio  in
 corso, rimetteva gli atti a questa Corte.
    2.  -  In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva che, avendo
 la Corte di cassazione rinviato  la  procedura  esecutiva  per  nuovo
 esame,  ha  gia'  stabilito  che nel caso di specie dovrebbe ricevere
 applicazione la norma denunciata.
    3.  -  In  punto di non manifesta infondatezza, con riferimento al
 dedotto  contrasto  con  l'art.  25  della  Costituzione  il  giudice
 rimettente  osserva  che  la  ratio  del  parametro  invocato  e'  da
 individuare  nell'esigenza,   piu'   volte   ribadita   dalla   Corte
 costituzionale,  di  garantire  la  certezza  del  giudice che dovra'
 giudicare un  dato  processo,  senza  che  cio'  possa  dipendere  da
 valutazioni  non suscettibili di sindacato (v. sentenze n. 122/1963 e
 n. 130/1963); un principio applicabile anche al  processo  esecutivo,
 trattandosi di una fase assistita dalle garanzie giurisdizionali, con
 enucleazione  di  precisi principi concernenti la precostituzione del
 giudice.  La  formazione  del  giudicato  non   impedisce,   infatti,
 l'emersione   del   precetto   dell'art.   25,   primo  comma,  della
 Costituzione, profilandosi una situazione di  contrasto  attuale  tra
 pronunce  entrambe definitive. Il fatto che la legge preveda - per il
 mancato funzionamento del rimedio previsto dall'art. 649 - che  debba
 essere  eseguito il provvedimento piu' favorevole al condannato, pre-
 via revoca  di  quello  meno  favorevole,  ha  sacrificato  il  detto
 principio ad una regola non costituzionalizzata come quella del favor
 rei;  per  di  piu',  anche  quando uno dei due giudicati provenga da
 giudice non competente. Cosi' da pervenire ad una soluzione aberrante
 consentendosi al condannato "di trarre  vantaggio  da  un  espediente
 contra  legem,  quale quello di adire, dopo una pronuncia sfavorevole
 del giudice competente, altri  giudici,  prospettando  a  questi  una
 situazione   diversa   dalla   realta'  ed  idonea  astrattamente  ad
 incardinare la loro competenza".
    Donde il contrasto anche con i princi'pi di ragionevolezza, insito
 nell'art. 3  della  Costituzione,  e  della  soggezione  del  giudice
 soltanto  alla  legge  di  cui  all'art.  101,  secondo  comma, della
 Costituzione stessa, imponendosi al  giudice  di  conformare  il  suo
 convincimento  alla  pronuncia  di  un  giudice  incompetente  pur in
 presenza di altra pronuncia proveniente da altro  giudice  legalmente
 investito della questione.
    4.  -  L'ordinanza,  ritualmente notificata e comunicata, e' stata
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 7, prima serie  speciale,  del
 10 febbraio 1993.
    5.  -  Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  Generale  dello
 Stato,   chiedendo   "dichiararsi   la   questione   inammissibile  o
 infondata".
    Non pertinente sarebbe il richiamo ai principi di ragionevolezza e
 della sottoposizione del giudice alla legge: il criterio dettato  del
 legislatore  -  anche  se  ipoteticamente  discutibile  sul piano del
 merito -  non  e'  privo  di  razionalita',  per  l'applicazione  del
 principio  del  favor  rei  alla  base  di  esso,  mentre il giudice,
 nell'applicare la norma denunciata, resta  comunque  sottoposto  alla
 legge.
    Altrettanto  fuori  di  luogo  sarebbe  evocare  il  principio del
 giudice naturale, risultando individuato - come  tale  -  il  giudice
 dell'esecuzione in base a criteri obiettivi e predeterminati. Che poi
 si  debba  dare  esecuzione  a una pronuncia di un giudice diverso da
 quello  che  sarebbe  stato  competente  in  sede  di  cognizione  e'
 circostanza  del tutto irrilevante, occorrendo, nella fase esecutiva,
 soltanto individuare un criterio idoneo ad eliminare il contrasto fra
 due decisioni dotate di pari efficacia ed ugualmente incensurabili.
                        Considerato in diritto
    1.  -  Il  giudice  a quo dubita, in riferimento agli artt. 3, 25,
 primo  comma,  e  101,  secondo  comma,  della  Costituzione,   della
 legittimita'  dell'art.  669,  primo  comma,  del codice di procedura
 penale, "nella parte in cui, stabilendo  che  "se  piu'  sentenze  di
 condanna  sono  state  pronunciate  contro  la  stessa persona per il
 medesimo fatto, il giudice ordina la esecuzione  della  sentenza  con
 cui  si  pronuncio'  la condanna meno grave, revocando le altre", non
 prevede che se  tra  i  provvedimenti  in  contrasto  uno  sia  stato
 accertato  essere stato emesso da giudice diverso da quello naturale,
 esso non debba essere eseguito anche se piu' favorevole".
   Il rimettente era stato chiamato ad ottemperare  al  decisum  della
 Corte  di  cassazione  che  aveva  annullato  l'ordinanza pronunciata
 all'esito della procedura esecutiva dalla stessa Corte di  assise  di
 appello  di  Cagliari,  richiesta dall'interessato di dare esecuzione
 all'ordinanza della Corte di assise di appello di Milano con la quale
 era  stata  applicata  la  continuazione   relativamente   ai   reati
 risultanti  da sette sentenze di condanna. Ma, poiche' tale ordinanza
 era stata adottata "da Giudice sfornito di ogni potere decisorio", in
 quanto, tra l'altro, la stessa  richiesta  era  stata  gia'  delibata
 negativamente,  con  decisione irrevocabile, dalla Corte di assise di
 appello di Cagliari, la quale, ai sensi dell'art. 671 del  codice  di
 procedura  penale,  era  da ritenere - in quanto giudice che aveva, a
 sua volta, pronunciato la sentenza divenuta irrevocabile per ultima -
 l'unico giudice competente a decidere sulla richiesta  stessa,  aveva
 dichiarato   "improduttiva  di  effetti"  la  pronuncia  della  Corte
 milanese. Ormai vincolato dalla sentenza della Corte  di  cassazione,
 il  rimettente ha sollevato la predetta questione cosi' da impedire -
 di qui la rilevanza della  questione  stessa  -  l'esecuzione  di  un
 provvedimento pronunciato da giudice "diverso da quello naturale".
    2. - La questione e' inammissibile.
    Le censure prospettate si ricollegano alle statuizioni della Corte
 di  cassazione  che,  nell'annullare con rinvio l'ordinanza reiettiva
 della richiesta di unificazione della pena, ha ritenuto nella  specie
 susssistente una pluralita' di provvedimenti formalmente irrevocabili
 sul  medesimo  oggetto  e  resi  nei  confronti  della stessa persona
 pronunciati dal giudice dell'esecuzione; quindi, di un "caso analogo"
 a  quello  corrispondente  al  contrasto  di  giudicati,   risolubile
 attraverso  l'applicazione  dell'art. 669, primo comma, del codice di
 procedura  penale.  Con  la  conseguenza  che,  di   fronte   a   due
 contrapposte  decisioni  emesse  in  executivis - pur con coincidenza
 solo parziale dei rispettivi contenuti - dovrebbe incondizionatamente
 operare il principio della "esecuzione  della  sentenza  con  cui  si
 pronuncia la condanna meno grave", secondo quanto dispone la norma di
 cui ora viene contestata la legittimita'.
    Ma  e' gia' il presupposto da cui muove l'ordinanza di rimessione,
 e che condiziona  il  succedersi  delle  doglianze,  con  inevitabili
 riverberi sulla stessa pertinenza dei parametri invocati, a rivelarsi
 non  sufficientemente  valutato.  Esso postula, infatti, una assoluta
 identificazione, quanto all'operativita'  del  principio  ne  bis  in
 idem,  pure  nell'area del procedimento esecutivo, fra pronunce posi-
 tive  (di  accoglimento)  e  pronunce  negative  (di  rigetto).  Tale
 identificazione  e'  da  ritenere  pero'  non del tutto correttamente
 prospettata  perche'  il  secondo  tipo di pronuncia e' comunque resa
 sempre  rebus  sic  stantibus,  finche'  non  vengano  prospettati  o
 elementi  nuovi  o elementi di cui comunque non abbia tenuto conto la
 statuizione di rigetto, mentre solo la  prima  risulta  in  grado  di
 divenire  irrevocabile nei confronti del condannato. Un regime che e'
 ora esplicitato dall'art. 666, secondo comma, del codice di procedura
 penale,  che,  relativamente  "all'interessato",   prescrive   talune
 rigorose    preclusioni   all'ammissibilita'   della   richiesta   in
 executivis, ma che gia' preesisteva nel regime  del  codice  abrogato
 (cfr.  art.  579  del  codice  di  procedura  penale  del  1930). Con
 riguardo, poi, all'applicazione della continuazione nel  procedimento
 esecutivo  -  a  cui  la Corte deve limitare il suo esame per ragioni
 connesse alla rilevanza - e che costituisce un novum  del  codice  di
 procedura  penale del 1988, il detto principio opera per definizione.
 Infatti pur restando il giudice - nella specifica materia - vincolato
 alle statuizioni della sentenza pronunciata  in  sede  di  cognizione
 nell'ipotesi  in  cui  questa  abbia  escluso  la  sussistenza  delle
 condizioni indicate nell'art. 81, secondo comma,  del  codice  penale
 (ed in particolare l'identita' del disegno criminoso), rappresentando
 il  reato  continuato  diretta  conseguenza  del  favor  rei, solo la
 statuizione  positiva  non  e'  assoggettata  all'applicazione  della
 regola  della  decisione resa rebus sic stantibus. Con la conseguenza
 che, in tanto puo' profilarsi, nel coesistere di  due  pronunce,  una
 situazione  corrispondente a quella prospettata dal giudice a quo, in
 quanto ci si trovi di fronte  a  statuizioni  di  accoglimento  della
 richiesta  avanzata  a  norma  dell'art.  671 del codice di procedura
 penale.
    3. - Da tutto cio' consegue che manca  la  stessa  condizione  per
 ravvisare  la  dedotta  compromissione  dei  parametri costituzionali
 invocati, tra l'altro, con riferimento  a  quello  su  cui  risultano
 incentrate  le  piu' articolate argomentazioni, scaturente da una non
 convincente giustapposizione, nel quadro dell'art. 25,  primo  comma,
 della  Costituzione,  tra la nozione di giudice naturale e la nozione
 di giudice competente.
    Al contrario, proprio il presupposto da cui muove  l'ordinanza  di
 rimessione conduce ad escludere che con essa sia stata effettivamente
 proposta una questione di legittimita' costituzionale.
    Le  cadenze  dei vari provvedimenti di cumulo comprovano, infatti,
 come delle regole disciplinanti la competenza in sede  esecutiva  sia
 stato  fatto  un  cattivo uso da parte del giudice che ha pronunciato
 l'ordinanza di applicazione della disciplina del reato  continuato  e
 la  cui  statuizione  ha  provocato  l'annullamento del provvedimento
 reiettivo della richiesta di unificazione della pena.
    L'omesso accertamento da parte di tale giudice della competenza  a
 decidere  sulla richiesta di applicazione dell'art. 671 del codice di
 procedura   penale,   derivante    dall'essersi    attestato    sulle
 prospettazioni   del   richiedente,   prescindendo  dalla  precedente
 pronuncia di rigetto - oltre tutto di contenuto piu' ampio - e  senza
 verificare,  anche  attraverso  l'esame  di un aggiornato certificato
 penale, quale condanna fosse per  ultima  divenuta  irrevocabile,  ha
 determinato   l'adozione  di  un  provvedimento  fondato  su  erronei
 presupposti  di  fatto  ma  pur  tuttavia  in   grado   di   divenire
 irrevocabile  nonostante  la  coesistenza di una statuizione di segno
 contrario. In tal modo si e'  realizzata  una  di  quelle  situazioni
 patologiche   estranee   al  sistema  e,  dunque,  insuscettibili  di
 apprezzamento in questa sede.
    4. - Pure a prescindere dai sopra esposti rilievi,  che  attengono
 all'interpretazione  della  norma denunciata, il petitum divisato dal
 rimettente non potrebbe comunque trovare ingresso  davanti  a  questa
 Corte.   Esso   non   coinvolge,  infatti,  esclusivamente  la  norma
 denunciata, comportando, invece, un intervento manipolativo in  grado
 di  precludere  l'avverarsi degli inconvenienti lamentati, sub specie
 di  questione  di  legittimita'  costituzionale,   relativamente   al
 processo   a  quo.  Non  si  puo'  omettere  di  considerare  che  la
 manipolazione richiesta implicherebbe non tanto la soppressione della
 regola che prescrive, in caso di plurime sentenze di condanna per  il
 medesimo  fatto,  l'esecuzione  della  sentenza  piu' favorevole (una
 regola  riferibile  -  nei  limiti  sopra   indicati   -   anche   ai
 provvedimenti   emessi   da  piu'  giudici  dell'esecuzione),  ma  la
 creazione di un  diverso  principio  che  circoscriva  l'operativita'
 incondizionata  del  precetto  del  favor  rei ove tale principio sia
 stato erroneamente applicato per avere l'interessato adito un giudice
 diverso da quello competente, da identificarsi con il giudice che  ha
 pronunciato  il  provvedimento  divenuto  irrevocabile per ultimo. Un
 petitum, dunque, implicante scelte, intrinsecamente connesse  con  la
 problematica  della  coesistenza  di pronunce riguardanti il medesimo
 fatto e adottate nei confronti della stessa persona,  scelte  nessuna
 delle  quali  risulta  costituzionalmente  obbligata; da qui, in ogni
 caso,  la  preclusione  di  qualsiasi  intervento  di  questa   Corte
 trattandosi di materia riservata al legislatore.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  inammissibile la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art.  669,  primo  comma,  del  codice  di   procedura   penale,
 sollevata,  in  riferimento  agli  artt.  3,  25, primo comma, e 101,
 secondo comma, della Costituzione, dalla Corte di assise  di  appello
 di Cagliari con l'ordinanza in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 10 giugno 1993.
                        Il Presidente: CASAVOLA
                        Il redattore: VASSALLI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 16 giugno 1993.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
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