N. 350 ORDINANZA (Atto di promovimento) 1 aprile 1993

                                N. 350
 Ordinanza  emessa  il  1 aprile 1993 dal pretore di Firenze, sezione
 distaccata di  Pontassieve,  nel  procedimento  penale  a  carico  di
 Jaiunese Armando
 Processo penale - Istruzione dibattimentale - Testimonianze rilevanti
    ai  fini  del  giudizio  -  Testi  indiziati  del  reato  di falsa
    testimonianza - Obbligo di immediata trasmissione  degli  atti  al
    p.m.   -   Lamentata  omessa  previsione  della  facolta'  per  il
    giudicante di sospendere il procedimento in attesa dell'esito  del
    giudizio  di  falsita'  -  Denunciata  impossibilita'  di corretto
    esercizio della funzione giurisdizionale.
 (C.CP. 1988, art. 207, secondo comma).
 (Cost., art. 101).
(GU n.27 del 30-6-1993 )
                              IL PRETORE
    Ritenuto   necessario    sollevare    d'ufficio    questione    di
 costituzionalita'  con riferimento all'art. 101, secondo comma, della
 Costituzione, dell'art. 207, secondo comma, del c.p.p. nella parte in
 cui non prevede la  facolta'  per  il  giudicante  di  sospendere  il
 dibattimento  nell'ipotesi  in  cui  la  decisione  debba fondarsi su
 dichiarazioni testimoniali in  ordine  alle  quali  si  prospetti  la
 configurabilita'  del  reato  di cui all'art. 372 del c.p., apparendo
 necessario un previo accertamento di tale ultimo reato in funzione di
 una corretta definizione del procedimento in corso;
                             O S S E R V A
    Nel procedimento penale nei confronti di Iaiunese Armando,  costui
 e'  stato  tratto  a  giudizio  per  rispondere  del reato di lesioni
 volontarie, commesso in Reggello, nella notte del 15  febbraio  1990,
 ai  danni di Bigazzi Giancarlo, sulle cui dichiarazioni rese, qualche
 giorno dopo i fatti alla p.g., nel corso delle indagini  preliminari,
 si  basa  l'ipotesi  accusatoria,  avendo  in  quella sede la persona
 offesa affermato di essere stato aggredito  e  colpito  con  pugni  e
 calci da Iaiunese Armando.
    Sennonche',  nel corso dell'istruttoria dibattimentale, la persona
 offesa, esaminata come teste, ha mutato  tale  versione,  dichiarando
 che  aveva  erroneamente  indicato  nella  persona  dell'imputato  il
 proprio aggressore, giacche', a seguito di un  proprio  ripensamento,
 aveva  individuato  il  proprio aggressore nella persona del fratello
 dell'imputato (Iaiunese Franco).
    I  testi  Chapius  e  Sorelli,   esaminati   anch'essi   in   sede
 dibattimentale,  hanno affermato che la sera del fatto vi fu una lite
 tra Bigazzi Giancarlo e Iaiunese Franco;  in  particolare,  il  teste
 Sorelli,  ha  dichiarato  "Quando io dissi ai carabinieri che la lite
 nella  discoteca  era  avvenuta  tra  Iaiunese  Armando   e   Bigazzi
 Giancarlo,  commisi  un  errore nel senso che volevo dire che la lite
 era avvenuta tra Iaiunese Franco e Bigazzi Giancarlo, proprio perche'
 non conoscevo il nome di Iaiunese  Franco;  mi  spiego:  pensavo  che
 Iaiunese Franco, l'autore della lite, si chiamasse Iaiunese Armando".
    In ordine alle dichiarazioni rese dai suindicati testi, il p.m. ha
 potuto  procedere  a  rituali  contestazioni,  solo con riferimento a
 quelle rese dal teste persona offesa, Bigazzi Giancarlo, non  essendo
 in  possesso, con riferimento agli altri testi, di dichiarazioni rese
 dagli stessi nel corso delle indagini preliminari ed idonee ad essere
 utilizzate per le contestazioni ai sensi dell'art. 500 del c.p.p.
    Il p.m. d'udienza ha quindi richiesto la trasmissione  degli  atti
 al  suo  ufficio,  onde  valutare  le  posizioni  Bigazzi,  Chapius e
 Sorelli, con riferimento al reato di cui all'art. 372 del c.p.
    In ordine a tale richiesta, il secondo  comma  dell'art.  207  del
 c.p.p., mentre prevede l'obbligo del giudice, il quale ravvisi indizi
 del  reato  di cui all'art. 372 del c.p., di trasmettergli i relativi
 atti, non prevede, peraltro, la facolta' per il giudice di sospendere
 il procedimento  in  attesa  dell'accertamento  sul  reato  di  falsa
 testimonianza;  per  tal  modo  il  giudice  e' "costretto" a porre a
 fondamento della propria decisione,  dichiarazioni  testimoniali  non
 veritiere.
    Nel  caso  in  questione,  l'accertamento in ordine alla effettiva
 sussistenza in ordine al reato di cui all'art. 372 del  c.p.,  appare
 assolutamente  necessario  ai  fini  della  definizione  corretta del
 presente procedimento.
    Le dichiarazioni rese infatti  dal  Bigazzi  ai  carabinieri,  nel
 corso  delle  indagini preliminari ed utilizzate per la contestazione
 e, quindi, acquisite  al  fascicolo  del  dibattimento,  non  possono
 essere valutate come prova dei fatti in esse affermate, perche':
      1)  non  sussistono  altri  elementi  di prova che ne confermino
 l'attendibilita': gli altri testi escussi,  in  ordine  ai  quali  si
 prospetta  un'ipotesi  di "falsa testimonianza" hanno affermato che a
 colpire il Bigazzi sia stato proprio Iaiunese Franco e  non  Iaiunese
 Armando, come invece sostenuto dalla stessa persona offesa, nel corso
 delle  indagini  preliminari,  cosicche' a questo giudicante non pare
 possa trovare applicazione il quarto comma dell'art. 500 del c.p.p.;
      2) non sono emersi sicuri elementi per poter  affermare  che  il
 testimone  Bigazzi sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta
 o promessa di denaro o di  altra  utilita',  affinche'  deponesse  il
 falso,  ne'  risultano  altre  situazioni  che,  in  qualche modo, ne
 abbiano potuto compromettere la genuinita' dell'esame  (deve  infatti
 escludersi  che  le dichiarazioni del teste siano state dettate da un
 qualche motivo di paura di ritorsioni per il semplice fatto che,  pur
 vanificando l'originaria accusa verso l'odierno imputato, il teste ha
 rivolto  analoga  accusa al fratello di questo, appartenente a quello
 stesso  ambiente  dal  quale  potrebbe  sortire  un  qualche   motivo
 deterrente  ad  affermare  il vero); ne consegue che non puo' trovare
 applicazione neppure il quinto comma dell'art. 500 del c.p.p.
    In ordine  alle  dichiarazioni  rese  in  dibattimento  dai  testi
 Chapius  e Sorelli, il p.m. non ha proceduto a formali contestazioni,
 non possedendo nel suo fascicolo precedenti dichiarazioni a tal  fine
 utilizzabili;  sennonche'  le  dichiarazioni  di  costoro,  apparendo
 quanto  meno  confuse   e   in   parte,   contraddittorie,   appaiono
 suscettibili  di  approfondimento  nel  senso prospettato dal p.m. al
 fine di procedere all'accertamento sulla loro falsita'.
    Appare infatti evidente che qualora si dovesse accertare che  tali
 dichiarazioni  siano  false, ben diverso sarebbe l'esito del presente
 procedimento,  che,  invece,  allo   stato   degli   atti   dovendosi
 immediatamente   definire,   a  prescindere  dall'accertamento  sulla
 falsita'  dei  suindicati  testi,   inevitabilmente   finirebbe   con
 l'assoluzione dell'imputato.
    In  definitiva  la  questione  di costituzionalita' dell'art. 207,
 secondo comma, del c.p.p. in relazione all'art. 101,  secondo  comma,
 della Costituzione, appare per certo rilevante nel caso concreto.
    La   questione   di  costituzionalita'  prospettata  risulta  gia'
 rilevata dal tribunale di Savona (presidente Caterina  Fiumano')  con
 analoga ordinanza di rimessione alla Corte in data 7 febbraio 1990.
    Su  tale  ordinanza la Corte costituzionale non si e' pronunciata,
 rimandando al giudice a quo di precisarne la  rilevanza  in  concreto
 alla  luce  delle  modifiche  apportate, nelle more di quel giudizio,
 all'art. 500 del c.p.p. sia con la sentenza Corte  costituzionale  n.
 24/1992  sia  con  il  d.l.  8  giugno  1992, n. 306, convertito con
 modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356.
    Sennonche', nel  caso  esaminato  da  questo  giudicante,  per  le
 ragioni  esposte  nella  narrazione del fatto, l'art. 500 del c.p.p.,
 cosi'  come  novellato  con  i  suindicati  interventi  della   Corte
 costituzionale e legislativi, mantiene ferma la rilevanza in concreto
 della questione di costituzionalita' che si intende sollevare.
    Questa,   per  i  motivi  correttamente  illustrati  nella  citata
 ordinanza  del  tribunale  di  Savona,  appare  "non   manifestamente
 infondata".
    Nel codice di procedura penale del 1930 il problema dell'incidenza
 del  reato  di  falsa testimonianza sul giudizio in corso era risolto
 nel  secondo  e  terzo   comma   dell'art.   458,   prevedendosi   la
 possibilita', per il giudicante, di scegliere tra la prosecuzione del
 dibattimento,  nonostante  la  pendenza  del  giudizio sulla falsita'
 (secondo comma) e il rinvio  del  dibattimento  nell'ipotesi  in  cui
 apparisse   assolutamente  necessario  attendere  il  giudizio  sulla
 falsita' (terzo comma).
    E' pur vero  che  la  Corte  di  cassazione,  con  interpretazione
 consolidatasi  in  diverse  pronunce  (v.,  per tutte, Cass., sezione
 quinta, 24 marzo 1972; Cass. sezione quarta, 14 gennaio  1972),  ebbe
 modo  di  chiarire  che  fra  procedimento  per  il  reato  di  falsa
 testimonianza e quello in cui essa e' stata commessa  non  intercorre
 un  rapporto di pregiudizialita', ma solo un rapporto di "influenza",
 cioe' un rapporto  che  attiene  alla  valutazione  della  prova  nel
 procedimento dal quale quello di falsa testimonianza e' scaturito: in
 tal  caso  il rinvio del procedimento e' rimesso al prudente criterio
 discrezionale   del   giudice,   qualora   lo  ravvisi  assolutamente
 necessario e che, d'altra parte, la decisione per il procedimento per
 falsa testimonianza non  costituisce  un  "presupposto"  rispetto  al
 procedimento   in  occasione  del  quale  la  falsita'  fu  commessa,
 facendone discendere il  corollario  che  il  giudicato  relativo  al
 procedimento  sulla  falsita'  non  vincola  il  giudizio relativo al
 procedimento principale.
    Non puo',  tuttavia,  trascurarsi  di  sottolineare  quanto  fosse
 consona quella scelta normativa al principio del libero convincimento
 del   giudice   allorche'   le   sue   libere  valutazioni  dovessero
 necessariamente richiedere, proprio sotto il profilo, per cosi'  dire
 psicologico,  di  formazione  di  un  corretto  giudizio,  un  previo
 accertamento sulle false dichiarazioni del  teste;  cosicche',  molto
 opportunamente,  era stata creata per il giudicante una "facolta'" di
 soprassedere alla decisione  in  attesa  di  chiarire  quale  dovesse
 essere  la  versione testimoniale rispondente al vero e sulla base di
 essa decidere.
    Nel vigente codice di procedura penale,  tale  facolta'  e'  stata
 eliminata, imponendosi, comunque, al giudice di definire il giudizio,
 pur  nella  sussistenza di seri dubbi in ordine alla genuinita' delle
 dichiarazioni testimoniali raccolte.
    Nessuno spazio, infatti, al riguardo  consente  il  secondo  comma
 dell'art.  207  del  c.p.p.,  secondo  il quale "con la decisione che
 definisce la fase processuale in cui il testimone ha prestato il  suo
 ufficio,  il  giudice, se ravvisa indizi del reato previsto dall'art.
 372  del  codice   penale,   ne   informa   il   pubblico   ministero
 trasmettendogli i relativi atti".
    Per  tal  modo  viene,  di  fatto,  impedito al giudice di porre a
 fondamento della propria decisione una serena ricostruzione dei fatti
 alla luce di prove effettivamente attendibili,  rimanendo  seriamente
 condizionato  il proprio convincimento da dichiarazioni testimoniali,
 passibili di essere considerate come  false;  ne  consegue  un  esito
 processuale,  che,  per  certo,  non  puo'  considerarsi frutto di un
 "libero convincimento" del giudicante, per il quale di fronte  a  due
 soluzioni  entrambe  possibili, a seconda che il teste abbia detto il
 falso   od   il   vero,   deve   adottare   quella   che    prescinda
 dall'accertamento della falsita'; cosicche', le uniche prove raccolte
 potranno  al  piu',  in  assenza  di  altri  elementi, valutarsi come
 "inattendibili", discendendone le relative conseguenze sull'esito del
 processo, laddove un contrario  risultato  potrebbe  ottenersi  sulla
 base di un accertata falsita' dei testi.
    Tale  situazione  porta,  in  definitiva,  il  giudice  a rimanere
 necessariamente assoggettato a quelle ricostruzioni del fatto fornite
 dal  teste,  apparso  "falso"  senza  avere  alcuna  possibilita'  di
 incidere  su di esse, pur nella sussistenza di un grave impasse nella
 formazione logica del proprio ragionamento.
    Non e' dubbio che una soluzione normativa, come  quella  racchiusa
 nel  secondo  comma  dell'art. 207 del c.p.p., dalla quale scaturisca
 tale situazione di stallo nell'iter di formazione della prova  e  del
 conseguente  giudizio sulla responsabilita' penale, attenui in misura
 grave il principio della soggezione del giudice alla sola legge,  che
 finisce  per  essere  travolto  dall'obbligo  per  il  giudicante  di
 definire il giudizio sulla base non di una  prova,  ma  di  un  fatto
 penalmente  illecito  (falsa  testimonianza), producendo, nel caso in
 esame,   l'ulteriore  conseguenza  di  emettere  necessariamente  una
 sentenza di assoluzione,  che  si  configura  in  termini  del  tutto
 diversi dalla sentenza di assoluzione a seguito di giudizio nel quale
 manchi  ovvero  sia  contraddittoria  la  prova sulla responsabilita'
 dell'imputato.
    E' fuor di dubbio, infatti, che la soggezione, peraltro  doverosa,
 del  giudice  alla  legge si esprime, in materia probatoria, pure nel
 porre a fondamento delle proprie decisioni prove  formatesi  in  modo
 corretto,  cioe'  conformi  alle  prescrizioni legali; vi e' certo un
 ambito di "libero" convincimento, ma questo deve pur sempre  formarsi
 entro la legalita'.
    Nella   situazione   prospettata,   in  cui  il  giudice  abbia  a
 disposizione solo dichiarazioni sulle  quali  nutra  un  sospetto  di
 falsita',  non  vi  e'  una  prova  legalmente  formatasi, ma solo un
 elemento  di  significato  equivoco,  potendo  qualificarsi  il   suo
 contenuto  sia  come falso sia come vero e, nel dover prescindere dal
 relativo accertamento, tale equivoco elemento necessariamente finisce
 con  l'identificarsi  in  un'ipotesi  di  "mancanza  di  prova";   si
 perviene,  per  tal  modo, al risultato paradossale di decidere sulla
 base di elementi di  dubbia  liceita'  con  la  conseguente  profonda
 alterazione  del  rapporto  tra il giudice e la legge, dalla quale il
 primo si allontana in ragione del suo obbligo di definire,  comunque,
 il giudizio.
                                P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara  rilevante e non manifestamente infondata la questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 207, secondo comma, del c.p.p.,
 nella parte in  cui  non  prevede  la  possibilita'  di  trasmissione
 immediata  del  verbale  di  udienza  al  p.m.  e  di sospensione del
 dibattimento  in  attesa  del  giudizio  sulla  falsa  testimonianza,
 qualora cio' sia necessario per la definizione del giudizio in corso,
 in riferimento all'art. 101, secondo comma, della Costituzione;
    Sospende il giudizio in corso;
    Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
    Dispone che la presente ordinanza sia notificata al Presidente del
 Consiglio  dei  Ministri  e comunicata al Presidente della Camera dei
 deputati ed al Presidente del Senato.
      Pontassieve, addi' 1› aprile 1993
                         Il pretore: MAZZOTTA

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