N. 399 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 giugno 1993

                                N. 399
  Ordinanza emessa il 17 giugno 1993 dal tribunale di S. Maria Capua
 Vetere sull'appello proposto dal p.m. presso il Tribunale di S. Maria Capua V
 Vetere avverso la richiesta di sequestro preventivo nei confronti di
 Iovinella Salvatore (Reg. ord. n. 399/1993)
 Processo penale - Sequestro preventivo nei confronti di persone
    indagate per il reato di possesso ingiustificato di beni di valore
    sproporzionato  rispetto  al reddito ed alla attivita' economica -
    Riesame -  Procedimento  -  Impossibilita'  per  il  tribunale  di
    valutare  la  sussistenza degli indizi di colpevolezza, nonche' la
    gravita' degli stessi -  Prospettata  violazione  del  diritto  di
    difesa,  del  principio  di  buon  andamento  dell'amministrazione
    giudiziaria, utilizzata per una semplice operazione  di  ratifica,
    con   incidenza  sull'obbligo  di  motivazione  dei  provvedimenti
    giudiziari e sul diritto di proprieta'.
 Mafia - Provvedimenti di contrasto alla criminalita' mafiosa -
    Possesso  ingiustificato  di  beni  di  valore sproporzionato alla
    attivita' svolta o ai redditi dichiarati - Configurazione di  tale
    condotta  come  reato proprio richiedendosi per il soggetto attivo
    la qualifica di indagato per determinati reati o di  soggetto  nei
    cui  confronti  si  proceda  per  l'applicazione  di una misura di
    prevenzione  -  Irragionevolezza  in  considerazione   della   non
    definitivita'  delle  suddette qualifiche - Violazione del diritto
    di difesa, per non potere l'indagato di tale reato avvalersi della
    facolta'  di  non  rispondere   (essendo   obbligato   a   fornire
    giustificazione   del  possesso  dei  beni)  e  del  principio  di
    presunzione di innocenza.
 (C.P.P. 1988, artt. 321, combinato disposto, e 324; legge 7 agosto
    1992, n. 356, art. 12-quinquies,  come  modificato  dal  d.l.  20
    maggio 1993, n. 153, art. 5, lett. a)).
 (Cost., artt. 3, 24, 27, 42, 97 e 111, secondo comma).
(GU n.29 del 14-7-1993 )
                             IL TRIBUNALE
    Riunito   in  camera  di  consiglio  ha  pronunziato  la  seguente
 ordinanza sull'appello  proposto  dal  procuratore  della  Repubblica
 presso  il  tribunale  di  S.  Maria  Capua  Vetere (Caserta) avverso
 l'ordinanza n. 787/1993 datata  12  maggio  1993,  con  la  quale  il
 giudice  per  le indagini preliminari del tribunale di S. Maria Capua
 Vetere ha rigettato la richiesta di  sequestro  preventivo  formulata
 dal  pubblico ministero nei confronti di Iovinella Salvatore, nato ad
 Atella  di  Napoli  l'11  dicembre  1942  e  residente  a  S.  Arpino
 (Caserta),  via  Martiri  Stellani, seconda traversa, n. 23, indagato
 per il reato di cui all'art. 12-quinques legge 7 agosto 1992, n.  356
 e successive modifiche;
    Letti   gli   atti   ed  i  motivi  dell'appello,  presentato  dal
 procuratore della Repubblica presso il tribunale di  S.  Maria  Capua
 Vetere, a norma dell'art. 322-bis del c.p.p.;
    Sentiti  all'udienza  camerale  dell'8  giugno 1993, alla quale il
 pubblico ministero non e' comparso, l'indagato Iovinella Salvatore ed
 il difensore, avvocato Alessandro Tinto, il quale concludeva  per  il
 rigetto dell'appello del pubblico ministero;
    A scioglimento della riserva formulata all'udienza camerale dell'8
 giugno 1993.
                               F A T T O
    In  data  6 maggio 1993, il procuratore della Repubblica presso il
 tribunale di S. Maria Capua Vetere  (Caserta)  richiedeva  al  g.i.p.
 l'emissione di decreto di sequestro preventivo di un immobile e di un
 appezzamento   di   terreno  di  proprieta'  dell'indagato  Iovinella
 Salvatore, registrati alla Conservatoria dei registri immobiliari  di
 Napoli II in data 6 gennaio 1974, al n. 2388.
    A  sostegno  della richiesta il pubblico ministero evidenziava che
 nei confronti dell'indagato pendeva procedimento penale per il  reato
 di  contrabbando  di  tabacco lavorato estero in grossi quantitativi,
 nonche' la "sproporzione" tra gli immobili  posseduti  ed  i  redditi
 dichiarati.
    Con  ordinanza  n.  787/1993 del 12 maggio 1993, il giudice per le
 indagini preliminari presso il tribunale di  S.  Maria  Capua  Vetere
 (Caserta)  rigettava  la  richiesta del pubblico ministero, ritenendo
 che non sussistevano i presupposti di cui all'art. 12 quinques e suc-
 cessive modificazioni, in quanto il valore dei  beni  de  quibus  non
 risultava  "sproporzionato"  rispetto al reddito dell'indagato, avuto
 riguardo   a  quanto  evidenziato  nell'informativa  inoltrata  dalla
 guardia di finanza.
    Avverso la  citata  ordinanza  di  rigetto  il  procuratore  della
 Repubblica  presso  questo tribunale ha proposto tempestivo e rituale
 appello,   contestando,   nel   merito,   l'asserita   mancanza    di
 "sproporzione"   tra   il  reddito  dell'indagato  ed  il  costo  per
 l'acquisto della sua abitazione e, in diritto,  l'irrilevanza  di  un
 immediato  collegamento  cronologico  tra  i  proventi dell'attivita'
 criminosa  (accertati  in  data  27   agosto   1992)   e   l'acquisto
 dell'abitazione dell'indagato, risalente al 1973.
    Il  pubblico  ministero  ha  altresi'  dedotto  che,  con la norma
 incriminatrice di cui all'art.  12-quinquies  della  legge  7  agosto
 1992, n. 356, cosi' come modificato dall'art. 5, lettera a), d.l. 20
 maggio 1993, n. 153, "il legislatore ha inteso sanzionare con la pena
 della  reclusione  e  la  misura  di sicurezza della confisca la mera
 disponibilita' di qualsiasi bene patrimoniale sporporzionato rispetto
 al reddito ed all'attivita' economica, ritenendo che tale status sia,
 di per se' antigiuridico".
    All'udienza camerale dell'8 giugno 1993, alla  quale  il  pubblico
 ministero  non  e' comparso, il difensore, avvocato Alessandro Tinto,
 ha concluso per il rigetto dell'appello del pubblico ministero ed  il
 tribunale si e' riservato la decisione.
                             D I R I T T O
    Pregiudiziale  all'esame  del  dedotto gravame risulta - ad avviso
 del collegio  -  l'indagine  sulla  costituzionalita'  del  combinato
 disposto  degli  artt.  321 e 324 del codice di procedura penale e la
 verifica se esso contrasti con gli artt. 24, 42,  97  e  111  secondo
 comma  della  Costituzione,  nella parte in cui, cosi' come affermato
 dal diritto vivente attualmente formatosi, prevede che  il  tribunale
 del riesame, allorquando decide, a norma dell'art. 324 del c.p.p., in
 ordine  all'impugnazione di misure coercitive reali, debba "limitarsi
 a valutare l'astratta possibilita' di sussumere il  fatto  attribuito
 ad  un  soggetto  in una determinata ipotesi di reato" e che "ai fini
 della doverosa verifica della legittimita' del provvedimento  con  il
 quale   sia  stato  ordinato  il  sequestro  preventivo  di  un  bene
 pertinente ad uno o piu' reati, e' preclusa al tribunale del  riesame
 ogni  valutazione  sulla  sussistenza  degli indizi di colpevolezza e
 sulla gravita' degli stessi" (cosi' testualmente Cass. pen.,  ss.uu.,
 n. 4, 23 aprile 1993, cc. 25 marzo 1993, imp. Gifuni).
   Il  combinato disposto degli artt. 321 e 324 del c.p.p., cosi' come
 autorevolmente interpretato dal diritto vivente,  inibisce  a  questo
 tribunale  -  nel caso di specie - ogni possibilita' di apprezzamento
 in ordine alla concreta (e non gia' "astratta") sussistenza o meno  a
 carico  dello  Iovinella di gravi indizi di colpevolezza del reato di
 cui all'art. 12-quinquies della legge 7 agosto 1992,  n.  356,  cosi'
 come modificato dall'art. 5, lettera a), del d.l. 20 maggio 1993, n.
 153;    donde    la    rilevanza    della    dedotta   questione   di
 incostituzionalita'.
    Nella fattispecie, a norma dell'art. 335 del c.p.p.,  il  pubblico
 ministero ha iscritto nei confronti dell'indagato Iovinella Salvatore
 notizia  di  reato  per  contrabbando  di  tabacco lavorato estero, a
 seguito di informativa di reato  del  comando  compagnia  guardia  di
 finanza di Teverola (Caserta).
    Cio'  non  solo ha provocato, per l'automatismo normativo previsto
 dall'art. 12-quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356, cosi'  come
 modificato dall'art. 5, lettera a), del d.l. 20 maggio 1993, n. 153,
 l'iscrizione  nel  registro  previsto  dall'art.  335 c.p.p. anche di
 quest'ultima notizia di reato, ma ha  legittimato  la  richiesta  del
 pubblico   ministero   di   sequestro   dell'immobile  di  proprieta'
 dell'indagato, ipotizzando la "disponibilita', da parte dell'indagato
 di  un  bene  patrimoniale  sproporzionato  rispetto  al  reddito  ed
 all'attivita'a' economica".
    Con ordinanza del 12 maggio 1993, il g.i.p. di questo tribunale ha
 rigettato la richiesta di sequestro del pubblico ministero, ritenendo
 che  "non  sussiste il presupposto di cui all'art. 12-quinquies della
 legge 7 agosto 1992, n.  356,  cosi'  come  modificato  dall'art.  5,
 lettera a), del d.l. 20 maggio 1993, n. 153, in quanto il valore dei
 beni  de  quibus  non  risulta  sproporzionato  rispetto  al  reddito
 dell'indagato, avuto riguardo a quanto evidenziato nelle  informative
 inoltrate dalla guardia di finanza".
    Il  pubblico  ministero presso questo tribunale, a norma dell'art.
 322-bis del c.p.p., in data 18 maggio  1993  ha  proposto  appello  a
 questo  tribunale,  sezione  riesame,  insistendo  per l'applicazione
 della misura coercitiva reale nei confronti dell'indagato  Iovinella,
 contrastando  l'asserita  mancanza  di  "sproporzione" tra il reddito
 dell'indagato ed il valore dell'immobile di sua  proprieta',  nonche'
 l'irrilevanza  della  verifica  del  collegamento  temporale  fra  il
 momento di acquisizione del bene immobile e l'epoca in cui si sarebbe
 verificato il reato  di  contrabbando  contestato  all'indagato,  sol
 perche'   lo   stesso   risulta   ricompreso   nel  novero  dell'art.
 12-quinquies, secondo comma della legge 7 agosto 1992, n. 356,  cosi'
 come  modificato  dall'art.  5,  lettera a), d.l. 20 maggio 1993, n.
 153.
    E' evidente che la contrapposizione  delle  tesi  sostenute  dalle
 parti   in   ordine   alla   sussistenza   o   meno   della  predetta
 "sproporzione", richiederebbe  preliminarmente  ed  indefettibilmente
 che  questo  tribunale  del  riesame,  al  fine  di  applicare o meno
 l'invocata misura coercitiva  reale,  non  si  limitasse  a  valutare
 meramente  l'astratta  possibilita'  di  assumere il fatto attribuito
 all'indagato in una determinata ipotesi di  reato,  ma  compisse  una
 doverosa  ed  analitica  verifica  della  fondatezza dell'appello del
 pubblico ministero, con il quale  e'  stato  richiesto  il  sequestro
 preventivo dell'appartamento dello Iovinella.
    Tutto cio' e' espressamente inibito a questo tribunale del riesame
 dall'art.  321  del c.p.p., cosi' come espressamente interpretato dal
 diritto vivente, in base al quale,  in  sede  di  riesame  di  misure
 cautelari  reali  "e'  preclusa  al  tribunale ogni valutazione sulla
 sussistenza degli indizi  di  colpevolezza  e  sulla  gravita'  degli
 stessi" (cosi' testualmente cass. pen., ss.uu., n. 4, 23 aprile 1993,
 cc. 25 marzo 1993, imp. Gifuni).
    Gia'  sulla base delle suesposte motivazioni, il tribunale ravvisa
 la rilevanza e la non manifesta infondatezza di una  prima  questione
 di  legittimita' costituzionale, per contrasto del combinato disposto
 degli artt. 321 e 324 del c.p.p. con:
       a) l'articolo 24 della Costituzione, per il sacrificio imposto,
 senza  alcun  ragionevole  bilanciamento,  al   diritto   di   difesa
 dell'indagato  (che, a norma dell'art. 61 del c.p.p., deve godere dei
 medesimi diritti  e  garanzie  poste  a  favore  dell'imputato),  per
 l'irrilevanza  di  qualsiasi sua concreta difesa nel merito (sia pure
 ad onere di prova invertito), dovendosi il tribunale del riesame,  de
 iure  condito,  limitare  ad  una  mera "astratta" verifica cartolare
 della correlazione fra la rubrica del reato  presupposto,  l'avvenuta
 iscrizione della notizia di reato nel registro previsto dall'art. 335
 del  c.p.p.  ed  -  infine  -  della  sua sussumibilita' in una delle
 ipotesi di reato previste dall'art. 12-quinquies della legge 7 agosto
 1992, n. 356, cosi' come modificato  dall'art.  5,  lettera  a),  del
 d.l.  20  maggio 1993, n. 153, astenendosi da ogni valutazione sulla
 concreta  sussistenza  di  indizi  di  colpevolezza,  nonche'   sulla
 gravita'  degli  stessi;  ed invero, le garanzie difensive apprestate
 dall'ordinamento non possono scendere al  di  sotto  di  quei  minimi
 livelli  previsti  anche  nei procedimenti incidentali, se non con la
 inevitabile conseguenza di essere negate;
       b) gli artt. 97 e 111, primo comma della Costituzione,  perche'
 e'  contrario  ai  principi  di  buon  andamento dell'amministrazione
 giudiziaria impiegare  un  organo  giurisdizionale  in  un'operazione
 burocratica  di  mera  ratifica,  che  si  colloca  al di fuori delle
 garanzie del contraddittorio  e  dell'obbligo  di  motivazione  sulle
 deduzioni,  in  punto  di  diritto  e di fatto, prodotte dalle parti,
 nonche' dell'obbligo di verifica della sussistenza  degli  indizi  di
 colpevolezza  del  reato ascritto all'indagato e della gravita' degli
 stessi; elementi di giudizio, questi che,  alla  luce  dei  parametri
 costituzionali suindicati, non possono e non debbono mancare, nemmeno
 in un procedimento incidentale giurisdizionale di natura penale.
    In  particolare, nella fattispecie, a norma dell'articolo 2727 del
 c.c., e' consentito a  questo  tribunale  "presumere",  cioe'  trarre
 delle conseguenze da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato.
    Nel  caso  in  esame, pero', l'art. 321 del c.p.p., per cosi' come
 interpretato dal diritto vivente, impedisce a  questo  tribunale  del
 riesame proprio di "presumere"; cioe' accade che, in un "procedimento
 di sospetto", qual e' quello di cui all'art. 12-quinquies della legge
 7 agosto 1992, n. 356, cosi' come modificato dall'art. 5, lettera a),
 del  d.l.  20  maggio  1993,  n. 153, che puo' sfociare in attivita'
 giurisdizionale suscettibile di incidere  negativamente  nella  sfera
 patrimoniale del cittadino indagato, un provvedimento giurisdizionale
 non  deve essere motivato ne' in ordine alla sussistenza degli indizi
 di colpevolezza, ne' in ordine alla gravita' degli stessi.
    Viceversa, ad avviso di questo giudice remittente, non puo' e  non
 deve essere vulnerato il principio costituzionale che vuole che tutti
 i provvedimenti giurisdizionali debbano essere motivati.
    Infatti,  a  norma dell'art. 111 della Costituzione, devono sempre
 essere esternate (anche nelle ordinanze del tribunale del riesame) le
 ragioni per le quali si fa luogo  o  meno  alla  compressione  di  un
 diritto  soggettivo,  costituzionalmente tutelato, qual e' il diritto
 di proprieta'.
    Il giudice remittente chiede, in altri termini, l'affermazione del
 principio che anche nel procedimento incidentale di riesame di misure
 coercitive reali, non  soltanto  deve  essere  data  all'indagato  la
 concreta  possibilita'  di difendersi, deducendo fatti e circostanze,
 ma che il tribunale  del  riesame  deve  avere  il  potere-dovere  di
 accogliere,  ovvero  di  disattendere  le prospettazioni delle parti,
 qualora  ritenute  non  significative  o  fuorvianti,  dandone  pero'
 puntuale  giustificazione  con  una motivazione che sia "concreta" (e
 non gia' "astratta"), contrariamente a  quanto  attualmente  previsto
 dal  combinato  disposto  delle  norme  denunciate  (artt.  321 e 324
 c.p.p.).
    Tutto  cio'  -  ad  avviso  del  tribunale  -  e'  il  fine  della
 motivazione   di  qualunque  provvedimento  giurisdizionale;  quello,
 cioe', di comprovare l'osservanza, fra l'altro, dei canoni di  logica
 e d'imparzialita' e di darne contezza al cittadino ed, eventualmente,
 al giudice di legittimita' chiamato a sindacarne i contenuti;
       c)  l'art.  42  della  Costituzione,  per  essere  prevista una
 limitazione del diritto di proprieta', al  di  fuori  degli  scopi  e
 della  funzione  di  cui  alla riserva di legge contenuta nel secondo
 comma del citato art. 42 della Costituzione.
    Si noti, infatti, che l'art. 832 del codice civile,  definisce  la
 proprieta'  come  "il  diritto  di godere e di disporre delle cose in
 modo pieno ed esclusivo, entro i  limiti  e  con  l'osservanza  degli
 obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico".
    A  differenza  dello  statuto albertino, che all'art. 29 stabiliva
 che "tutte le proprieta', senza alcuna eccezione, sono  inviolabili",
 l'art.  42  della  Costituzione  ha  previsto  che  "la proprieta' e'
 pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti
 o a privati. La proprieta' privata e' riconosciuta e garantita  dalla
 legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti,
 allo   scopo  di  assicurarne  la  funzione  sociale  e  di  renderla
 accessibile a tutti. La proprieta'  privata  puo'  essere,  nei  casi
 preveduti  dalla  legge,  e  salvo indennizzo, espropriata per motivi
 d'interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti  della
 successione  legittima e testamentaria ed i diritti dello Stato sulle
 eredita'".
    Dal che discende che e' proprio  la  stessa  Costituzione  che  ha
 fissato  i limiti e le finalita' attraverso le quali e' consentito al
 legislatore delimitare - o addirittura sacrificare - l'esercizio  del
 diritto di proprieta'.
    Posto  che  quello  di proprieta' e' un diritto soggettivo, la sua
 tutela, oltre ad essere garantita dall'art. 42 della costituzione, e'
 espressamente disciplinata dalle norme del  libro  sesto  del  codice
 civile.
    Vero  e  proprio  principio  di civilta' giuridica e', poi, quello
 fissato dall'art. 2697 del c.c., in  base  al  quale  "chi  vuol  far
 valere   un   diritto  in  giudizio  deve  provare  i  fatti  che  ne
 costituiscono il fondamento".
    Nel caso di  specie,  l'inversione  dell'onere  della  prova,  che
 l'art.  12-quinquies  della  legge  7 agosto 1992, n. 356, cosi' come
 modificato dall'art. 5, lettera a), del d.l. 20 maggio 1993, n. 153,
 ha trasferito dal titolare dell'accusa, e dal giudice - che  ne  deve
 verificare  la sussistenza - a carico di colui che, avendo assunto la
 qualita' di "indagato", ovvero di persona "nei  cui  confronti  pende
 procedimento penale", si pone - ad avviso del tribunale, in contrasto
 con i canoni costituzionali.
    Dal  che  discende  la  non manifesta infondatezza di un ulteriore
 profilo di  illegittimita'  costituzionale,  rilevante  nel  presente
 giudizio,  e  cioe' il contrasto dell'art. 12-quinquies della legge 7
 agosto 1992, n. 356, cosi' come modificato dall'art. 5,  lettera  a),
 del d.l. 20 maggio 1993, n. 153 con:
       a)  gli  artt.  3  e  24  della  Costituzione,  per  l'ingiusta
 compressione del diritto  di  difesa  dell'indagato  per  il  delitto
 previsto dalla norma denunciata.
    Essa  si  configura  -  infatti  - come un reato a condotta mista,
 prima  commissiva  (possesso  o  disponibilita'  di  beni  di  valore
 sproporzionato  all'attivita'  svolta  e  a  redditi dichiarati), poi
 omissiva (mancata giustificazione del possesso  legittimo  dei  beni,
 strettamente   connessa   all'inversione   dell'onere  della  prova),
 cosicche' il diritto  di  difesa  risulta  compromesso,  non  potendo
 l'indagato,  diversamente  da  tutti  gli altri indagati, esercitarlo
 anche a mezzo del  silenzio  che,  al  contrario,  nella  fattispecie
 integra  proprio  uno  degli  elementi  oggettivi  del  reato  di cui
 all'art. 12-quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356 e  successive
 modificazioni.
    La   norma   denunciata  realizza,  pertanto,  una  disparita'  di
 trattamento  tra  gli  indagati  per  il  reato   di   cui   all'art.
 12-quinquies,  i  quali  non  possono avvalersi della facolta' di non
 rispondere e gli indagati per gli altri reati.
    In buona sostanza, pur essendo la qualita' specifica di "indagato"
 ovvero di "persona nei  cui  confronti  pende  procedimento  penale",
 necessariamente  destinata  ad  evolversi  nel procedimento, la norma
 incriminatrice prescinde totalmente dall'instabilita' processuale  in
 itinere,   che   caratterizza   l'elemento   soggettivo   del  reato,
 confliggendo  apertamente  con  il  principio  di  ragionevolezza   e
 logicita',  garantito  dall'art.  3  della Costituzione, a fronte dei
 diversi     esiti     processuali     del      reato      presupposto
 (assoluzione/condanna).
    D'altra  parte,  proprio  perche' la norma denunciata non esige la
 condanna per i  reati  presupposti,  che  sottenderebbero  delittuosi
 trasferimenti   di  ricchezze,  ma  unicamente  la  sottoposizione  a
 siffatti procedimenti, la  mancata  giustificazione  della  legittima
 accumulazione  patrimoniale  comporta che la condanna per il reato di
 cui all'art. 12-quinquies derivi non gia' dall'impulso  del  pubblico
 ministero  nella  ricerca  delle prove, bensi' da una condotta che la
 Costituzione garantisce ad ogni imputato, attraverso  il  diritto  di
 difesa  (art. 24, secondo comma) e la presunzione di non colpevolezza
 (art. 27, secondo comma);
       b) l'art. 27 della Costituzione, configurando la norma in esame
 una ipotesi di reato proprio, ancorata alla  qualita'  transitoria  e
 neutra  di  "indagato",  ovvero  di  "coloro  nei cui confronti pende
 procedimento penale", secondo la  novella  introdotta  dal  d.l.  20
 maggio  1993,  n. 153, per una delle ipotesi delle fattispecie di cui
 al secondo comma della norma denunciata.
    Tale qualita',  a  differenza  di  quella  del  soggetto  nei  cui
 confronti  e'  stata emessa sentenza di condanna o e' stata applicata
 una  misura  di  prevenzione  personale,  passate   ingiudicato,   ha
 carattere  tutt'altro  che  definitivo  e  non  dovrebbe avere alcuna
 rilevanza giuridica,  attesa  la  presunzione  di  innocenza  di  cui
 all'art. 27 della Costituzione.
    A  riprova  di  cio'  si  consideri  anche  che, in concreto, puo'
 verificarsi,  in  assenza  di  un  preliminare   accertamento   della
 sussistenza  dei  "gravi  indizi  di  colpevolezza",  inibito proprio
 dall'art. 321 c.p.p. (a sua  volta  dianzi  denunciato),  che  in  un
 momento  successivo  all'eventuale  condanna  per  il  reato  di  cui
 all'art.  12-quinquies della legge 7 agosto 1992,, n. 356, cosi' come
 modificato dall'art. 5 lettera a) del d.l. 20 maggio 1993,  n.  153,
 e'  possibile  la caducazione dello status di "indagato" o, comunque,
 di  soggetto  "nei  cui   confronti   pende   procedimento   penale",
 presupposto   necessario  per  configurare  il  reato  stesso,  cosi'
 realizzandosi l'adozione di un'illegittima misura ante delictum.
    Giova ricordare che di tanto erano ben consapevoli i Ministri pro-
 tempore dell'interno e di grazia e giustizia, i quali introdussero il
 reato come emendamento in fase di legge di conversione.
    Infatti negli atti parlamentari  del  Senato  della  Repubblica  -
 Assemblea  (resoconto  stenografico  della  seduta pomeridiana del 23
 luglio  1992)  si  legge:  "Certo,  in  quest'ultimo  caso   dobbiamo
 convenire  che  si  realizza  un  ribaltamento  di  uno  dei principi
 generali in materia di prove, dal momento che e' lo stesso soggetto a
 dovere dimostrare  la  provenienza  e  la  natura  lecita  delle  sue
 sostanze per non incorrere in sanzioni penali .." (Ministro Mancino);
    "  .. So bene che si agisce qui su un terreno difficile e delicato
 per i poteri conferiti  alle  pubbliche  autorita'  di  incidere  sui
 diritti   e  sui  beni  della  persona,  prima  ancora  che  rigorosi
 accertamenti probatori si siano  compiuti  in  sede  giudiziaria  .."
 (Ministro Martelli).
    Ed   invero,  essendo  punito,  se  non  giustifica  la  legittima
 provenienza dei beni, l'indagato  per  il  delitto  di  cui  all'art.
 12-quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356 (cosi' come modificato
 dall'art.  5  lettera  a)  del  d.l.  20  maggio  1993,  n.  153) e'
 obbligato,  a  fronte  della  ritenuta  sproporzione  dei  beni,   ad
 attivarsi  per dimostrare la propria innocenza, contraddicendo il suo
 legittimo diritto di non rispondere e  di  non  collaborare,  dovendo
 l'accusa essere suffragata dal pubblico ministero che l'allega.
    Del  resto  la  Corte  costituzionale,  gia'  con  la  sentenza n.
 100/1968 dichiaro' incostituzionale l'art.  708  del  codice  penale,
 perche'  contrastante con l'art. 3 della Costituzione, nella parte in
 cui faceva richiamo, per l'imputato,  alle  condizioni  personali  di
 condannato  per  mendicita',  di  ammonito, di sottoposto a misure di
 sicurezza personale, o  a  cauzione  di  buona  condotta,  attesa  la
 diversita'  di  situazioni  soggettive  nelle  quali possono venire a
 trovarsi  i  cittadini  sottoposti  a  cosi'   variegate   condizioni
 personali.
    Nel  caso  di  specie,  le  osservazioni ed i rilievi che la Corte
 costituzionale     formulo'     rispettivamente     per     escludere
 l'illegittimita'  costituzionale  dell'art. 708 del codice penale con
 riferimento a coloro che avevano gia' riportato  condanna  per  reati
 contro il patrimonio e per ritenerla, invece, con riguardo alle altre
 categorie   di  soggetti,  sembra  si  attaglino  perfettamente  alla
 previsione della norma incriminatrice di  cui  all'art.  12-quinquies
 della  legge 7 agosto 1992, n. 356, cosi' come modificato dall'art. 5
 lettera a) del d.l. 20 maggio 1993,  n.  153,  e  -  pertanto  -  ne
 confermano e ne rafforzano il sospetto di incostituzionalita'.
    E'  indubitabile,  alla  stregua  delle  suesposte motivazioni, la
 rilevanza delle dedotte questioni di  illegittimita'  costituzionale,
 dovendo  questo tribunale decidere sull'appello del Procuratore della
 Repubblica presso il tribunale di S. Maria Capua Vetere (Caserta) e -
 pertanto - verificare concretamente la sussistenza dei  gravi  indizi
 di colpevolezza nei riguardi dell'indagato.
    E' altresi' in re ipsa la non manifesta infondatezza delle dedotte
 questioni  di  illegittimita'  costituzionale,  a dimostrazione delle
 quali si richiamano, oltre alle  motivazioni  dianzi  esposte,  anche
 quelle  contenute  nelle ordinanze di remissione che hanno denunciato
 il sospetto di incostituzionalita' di alcune delle medesime norme, ed
 in particolare le ordinanze datate  17  febbraio  1993  (in  Gazzetta
 Ufficiale,  prima serie speciale anno 1993, n. 19) e 22 febbraio 1993
 (in Gazzetta Ufficiale, prima serie speciale anno 1993, n. 21)  della
 Corte  suprema  di  cassazione  e  quelle  datate 2 novembre 1992 (in
 Gazzetta Ufficiale, prima serie  speciale  anno  1993,  n.  5)  e  12
 novembre 1992 (in Gazzetta Ufficiale, prima serie speciale anno 1993,
 n.  19)  del  tribunale  di  Salerno,  rispettivamente  iscritte  nel
 registro  degli  atti  di  promovimento  del  giudizio  della   Corte
 costituzionale, anno 1993, ai nn. 228, 207, 21 e 198.
                               P. Q. M.
    Visti   gli   artt.   134   della   Costituzione,  1  della  legge
 costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 e 23 della legge 11 marzo  1953,
 n. 87;
    Solleva  d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale del
 combinato disposto degli artt. 321 e  324  del  codice  di  procedura
 penale,  per  contrasto  con  gli artt. 24, 42, 97 e 111, primo comma
 della Costituzione e dell'art.  12-quinquies  della  legge  7  agosto
 1992,  n. 356, cosi' come modificato dall'art. 5 lettera a) del d.l.
 20 maggio 1993, n. 153 con gli artt. 3, 24, e 27  della  Costituzione
 e, conseguentemente, dispone l'immediata trasmissione degli atti alla
 Corte costituzionale e sospende il presente giudizio;
    Ordina  che  a  cura  della  cancelleria la presente ordinanza sia
 notificata  all'indagato,  al   difensore,   al   Procuratore   della
 Repubblica  presso  il  tribunale di S. Maria Capua Vetere (Caserta),
 nonche' al Presidente del Consiglio dei Ministri e sia comunicata  ai
 Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati.
    Cosi' deciso in S. Maria Capua Vetere, addi' 27 giugno 1993
                         Il presidente: CANALE
                                            Il giudice, rel.: DI SALVO
    Il giudice: OTTAVIANO
 93C0773