N. 460 ORDINANZA (Atto di promovimento) 19 gennaio 1993
N. 460 Ordinanza emessa il 19 gennaio 1993 dalla corte di appello di Torino nel procedimento civile vertente tra Messina Giuseppa Rosaria e Mangano Paolo. Separazione personale dei coniugi - Modifica dei provvedimenti in materia economica e di modalita' di visita dei minori - Reclamo avverso detto provvedimento - Procedura prevista con le forme della camera di consiglio - Ritenuta inammissibilita' per proposizione oltre il decimo giorno - Compressione del diritto di difesa - Sostanziale richiesta di riesame delle sentenze della Corte costituzionale nn. 543 e 573 del 1989. (C.P.C., art. 710, sostituito dalla legge 29 luglio 1988, n. 331, articolo unico). (Cost., art. 24).(GU n.36 del 1-9-1993 )
LA CORTE DI APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa n. 1308 r.g. 1992, avente ad oggetto revisione dei provvedimenti in materia di separazione legale fra i coniuigi, promossa da: Messina Giuseppa Rosaria, residente in Milano San Marco, via Provinciale, 26/A, elettivamente domiciliata in Torino, via Lamarmora n. 6, presso l'avv. Antonio Musy, che unitamente all'avv. Bruno Delfino di Ivrea, la rappresenta e difende come da procura in atti, reclamante, contro Mangano Paolo, residente in Strambino, via G. Verdi n. 56, elettivamente domiciliato in Ivrea (Torino), via del Crist, 6, presso l'avv. Michele Campanale, che lo rappresenta come da procura in atti, resistente. Con ricorso, depositato l'8 ottobre 1992, Messina Giuseppa Rosaria proponeva reclamo contro il decreto del tribunale di Ivrea 14 luglio 1992, comunicato il 22 luglio 1992, con il quale venivano modificati i provvedimenti in materia economica e disposta la modifica del verbale, concernente le nuove modalita' di visita dei minori. Si costituiva in giudizio il Mangano ed eccepiva l'inammissibilita' del reclamo, perche' proposto oltre i 10 giorni previsti nell'art. 739, secondo comma del c.p.c. Cio' premesso si pone questione di costituzionalita' dell'art. 710 del c.p.c., cosi' come sostituito dall'articolo unico della legge 29 luglio 1988, n. 331. In base a questa novella le parti possono azionare i loro diritti e status derivanti dalla loro condizione di coniugi separati "con le forme del procedimento in camera di consiglio". Gia' autorevole dottrina ha osservato che il giudizio avente per oggetto diritti soggettivi e status non puo' essere strutturato in forme camerali, rectius in quelle forme che differenziano tale rito. In altri termini non puo' essere assoggettato ad una scarna regolamentazione del contraddittorio ne' ad una sorta di indeterminatezza istruttoria ne' ad una disciplina dell'impugnativa polarizzata nel reclamo e contornata dai rimedi della modifica o della revoca. Cosicche' non si puo' non concludere che il modello della camera di consiglio non puo' essere legittimamente adottato per la tutela di diritti e status con le modalita' che gli sono peculiari. Il paradigma camerale dell'art. 737 e ss., con tutte le modalita' che gli sono peculiari, puo' percio' essere adottato solo per alcune materie di giurisdizione volontaria, essendo ormai pacifico che non tutta la giurisdizione volontaria deve essere inserita in tale procedimento, dovendosi, ad es., escludersi il fenomeno dei processi "a contenuto oggettivo", i quali riproducono, sia pure con sensibili variazioni, lo schema di massima del giudizio ordinario. Inoltre la nozione di "sentenza", concepita nel testo costituzionale, ha dimensione sostanziale e designa il provvedimento che statuisce su diritti soggettivi e status. Di conseguenza e' la materia oggetto del processo che condiziona la struttura di questo, ovvero sono le situazioni sostantive tutelande che, se soggettivate in diritti e status, impongono l'impugnativa di legittimita' con conseguente giudicato. A questo punto si e' notato in dottrina che la formula di un rinvio ai procedimenti camerali si esaurisce in cio': di richiamare le sole regole "d'ordine" ovvero di dinamica procedimentale consistenti nella forma di ricorso dell'atto introduttivo e nell'integrale investitura del collegio, senza scomposizioni dell'organo nelle due fasi istruttoria e decisoria congiunte dall'udienza di discussione. Di guisa che la lettura del riferimento alla camera di consiglio, se viene concepita in questa ridotta dimensione nella tutela dei diritti, assicura piena legittimita' alla norma che lo dispone. Secondo la dottrina una tale esegesi si fa raccomandare da evidenti criteri sistematici e soprattutto da un elementare canone ermeneutico, che eleva i principi costituzionali a privilegiato strumento di interpretazione e prescrive di operare ricostruzioni giuridiche fedeli alla Carta fondamentale. Per contro un'illegittimita' della norma di rinvio si lascia configurare sole se essa richiama gli altri e piu' gravi lineamenti del rito camerale, quelli che riguardano il contraddittorio ed i rimedi del decreto, come accade per l'interpretazione di alcuni rinvii, affermatasi nel c.d. "diritto vivente", e cioe' in un consolidato orientamento giurisprudenziale che, formatosi per inerzia, puo' essere neutralizzato solo da una declaratoria di incostituzionalita'. Il collegio non ignora che la Corte costituzionale ha cercato di risolvere il problema con le due sentenze nn. 543 e 573 del 14 dicembre 1989 e del 23 dicembre 1989, ma in ordine ad esse la dottrina piu' benevola si e' espressa in questi termini: "attraverso una difficile opera di vero e proprio maquillage del testo normativo i giudici di palazzo della Consulta - dopo avere riaffermato l'idoneita' della procedura camerale ex art. 737 e ss. essere utilizzata, con alcuni adattamenti in tema di garanzia del contraddittorio genericamente intesa, per la tutela giurisdizionale contenziosa dei diritti - tentano attraverso una serie di accorgimenti e/o di suggerimenti di offrire un'interpretazione "costituzionalizzatrice" del richiamo alla procedura camerale in questione". Secondo la citata dottrina dalle predette sentenze emerge in particolare: 1) che i termini per appellare non sono costituiti dai dieci giorni di cui all'art. 739, secondo comma, del c.p.c. bensi' dai termini per impugnare propri delle sentenze nel rito ordinario quali sono previsti dagli artt. 325, 326 del c.p.c.; 2) che, ove si ritenga che la forma dell'appello debba essere il ricorso e non quella della citazione, il termine per appellare, e' rispettato col deposito in cancelleria del ricorso nel termine per appellare, ben potendo invece la notifica del ricorso e del pedissequo decreto presidenziale di fissazione dell'udienza avvenire successivamente, purche' entro il termine perentorio all'uogo fissato dal giudice: col che, rimettendo all'interpretazione dei giudici ordinari l'individuazione della forma dell'atto d'appello, si ha cura pero' di precisare che - ove la giurisprudenza ordinaria intenda accogliere la soluzione del ricorso - i termini per appellare si hanno per rispettati con il mero deposito del ricorso in cancelleria, alla stessa stregua di quanto testualmente previsto dall'art. 434, secondo comma, del c.p.c. per l'appello nel rito del lavoro, nonche' che l'appellante ha l'onere di notificare ricorso e pedissequo decreto presidenziale entro il termine fissato dal giudice; 3) che anche nel rito camerale in appello e' possibile acquisire ogni specie di prova precostituita e procedere alla formazione di qualsiasi prova costituenda, purche' il relativo modo di assunzione - comunque non formale nonche' atipico - risulti da un lato compatibile con la natura camerale del procedimento, e, dall'altro lato, non violi il principio generale dell'idoneita' degli atti processuali al raggiungimento dello scopo: con il che si elude piu' che risolvere il problema rappresentato dall'essenzialita' o no, ai fini del diritto di difesa, del rispetto delle modalita' di assunzione delle prove ex art. 191 e 266 del c.p.c. e dei limiti dell'incompatibilita' di tali modalita' con la schematica e rudimentale procedura camerale ex art. 737 e ss. del c.p.c., nella sostanza tutta o quasi rimessa alla determinazione discrezionale del singolo giudice; 4) che in mancanza di una norma la quale vieti l'assistenza tecnica, questa deve ritenersi implicitamente ammessa: con il che se per un verso la Corte si ricollega ad un suo orientamento, oramai consolidato, per altro verso non si evita l'incongruenza di una disciplina che comporta per le parti la necessita' della difesa tecnica solo nel corso del giudizio di primo grado e non anche nel giudizio di appello; 5) che la disciplina dell'appello incidentale e della specificita' dei motivi d'appello quale e' prevista dalle norme che disciplinano l'appello nel rito ordinario non e' incompatibile con il rito camerale: con il che pero' la Corte non si avvede che la possibilita' dell'appellato di proporre appello incidentale mediante comparsa depositata direttamente nel corso della prima udenza (art. 343, primo comma, del c.p.c.; ben diversa e' la disciplina dell'appello incidentale nel rito del lavoro ai sensi dell'art. 436, terzo comma, del c.p.c.) e' incompatibile con quelle esigenze di celerita' che nella specie sarebbero alla base del richiamo al rito camerale in appello; 6) che il principio della pubblicita' delle udienze puo' subire eccezioni giustificate - come nella specie - dall'esigenza di assicurare il migliore e piu' rapido funzionamento del processo: col che nella sostanza la Corte si pone in contrasto con quell'orientamento inaugurato dalla sentenza n. 212/1986, la quale, pur concludendo per l'infondatezza della questione aveva posto la strada che avrebbe condotto alla dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 39 del d. P.R. n. 636/1972 nella parte in cui escludeva l'applicabilita' nei giudizi innanzi alle commissioni tributarie dell'art. 128 del c.p.c. relativo alla pubblicita' delle udienze. In conclusione la proposta della Corte al giudice ordinario di adottare un procedimento preater legem, non risulta accettabile per vari motivi. Intanto essa implica la rimessione della adozione di alcune forme alla determinazione discrezionale del singolo giudice, mentre la norma processuale e' di ordine pubblico e costituisce diritti ed obblighi, commina sanzioni ed impone garanzie, che solo in legislatore puo' disciplinare. Inoltre la norma processuale che impone determinate forme deve essere uniforme per tutto il territorio, salvo che il legislatore non conceda liberta' di forme alle parti. Infine le sentenze interpretative di rigetto della Corte costituzionale mentre possono avere una loro giustificazione nel diritto, sostanziale, mal si adattano al campo processuale, che costituisce un sistema di garanzie, che puo' essere disciplinato solo dal legislatore e non puo' essere rimesso all'arbitrio di altri organi privi di poteri normativi. Di conseguenza il collegio ritiene, che sia necessario un ripensamento radicale della Corte costituzionale sul ricorso da parte del legislatore ordinario alla procedura camerale ex art. 737 e ss. a tutela di diritti o status. Tutto cio' premesso la questione appare rilevante, perche' questa Corte deve stabilire quali forme debbano essere adottate per decidere il reclamo in oggetto. Inoltre la questione non e' manifestamente infondata, risultando il richiamo contenuto nel primo comma dell'art. 710 del c.p.c. palesemente in contrasto con i principi enunciati nell'art. 24 della Costituzione.
P. Q. M. Visti gli artt. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e la sospensione del giudizio in corso; Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa, nonche' al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Cosi' deciso in camera di consiglio dalla prima sezione civile della corte d'appello di Torino il 19 gennaio 1993. Il presidente: BRUNETTI Depositata nella cancelleria della corte d'appello di Torino il 19 marzo 1993. Il cancelliere: (firma illeggibile) 93C0900