N. 46 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 9 settembre 1993
N. 46 Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 9 settembre 1993 (della regione Emilia-Romagna). Sanita' pubblica - Riordinamento degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, in base a delega conferita con l'art. 1, lett. h), della legge 23 ottobre 1992, n. 421 - Previsione della disciplina del riconoscimento e delle revoca nonche' delle attribuzioni e della composizione dei consigli di amministrazione dei predetti istituti mediante emanando regolamento governativo sentita la Conferenza permamente per i rapporti tra lo Stato e le regioni per il riconoscimento e la revoca, e, d'intesa con la stessa, negli altri casi - Previsione della adozione dei provvedimenti in caso di mancata intesa entro sessanta giorni dalla ricezione della richiesta - Illegittima eslcusione della intesa con la singola regione interessata come invece previsto dalla previgente normativa - Sottrazione alla regione dei controlli su enti il cui costo grava sul bilancio della stessa - Violazione del principio di leale cooperazione - Eccesso di delega. (D.Lgs. 30 giugno 1993, n. 269, artt. 1, terzo comma, 2, primo, secondo e terzo comma, 3, secondo comma, 6, terzo e quinto comma, 7, primo e settimo comma, 8, primo comma (Gazzetta Ufficiale n. 180 del 3 agosto 1993)). (Cost., artt. 76, 117, 118 e 119).(GU n.40 del 29-9-1993 )
Ricorso per la regione Emilia-Romagna, in persona del presidente della giunta regionale pro-tempore, autorizzato con deliberazione della giunta regionale n. 4051 del 31 agosto 1993, rappresentata e difesa, come da mandato a rogito del notaio Lucia Anna Maria Maffeo di Bologna del 31 agosto 1993, rep. n. 69604, dall'avv. Giandomenico Falcon di Padova e dall'avv. Luigi Manzi di Roma, con domicilio eletto in Roma nello studio del secondo, via Confalonieri, 5, contro il Presidente del Consiglio dei Ministri per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale del d.lgs. 30 giugno 1993, n. 269, recante "Riordinamento degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, a norma dell'art. 1, comma 1, lett. h), della legge 23 ottobre 1992, n. 421", pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 180, suppl. ord., del 3 agosto 1993, e precisamente delle seguenti disposizioni: art. 1, terzo comma; art. 2, primo, secondo e terzo comma; art. 3, secondo comma; art. 6, terzo e quinto comma; art. 7, primo e settimo comma; art. 8, primo comma. per contrasto con gli artt. 117, 118, 76 e 119 della Costituzione, nei limiti e sensi chiariti nell'esposizione dei motivi. M O T I V I Come si evince dallo stesso titolo del decreto impugnato, esso e' stato emanato in attuazione dell'art. 1, primo comma, lett. h), della legge 23 ottobre 1992, n. 421: secondo il quale il Governo avrebbe dovuto emanare "per rendere piene ed effettive le funzioni che vengono trasferite alle regioni", norme per la riforma del Ministero della sanita', e secondo il quale le stesse norme avrebbero dovuto comprendere, fra l'altro, il "riordino" degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico. Si notera' che quello citato tra virgolette e' il solo principio o criterio direttivo dato al Governo per l'esercizio del potere delegato. E' dunque assolutamente escluso che il Governo avesse in questa occasione una discrezionalita' o un margine di liberta', nel senso di diminuire - anziche' aumentare - il grado di "regionalizzazione" delle istituzioni sanitarie. Per quanto riguarda gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, va premesso che la "carta" fondamentale della ripartizione dei compiti tra Stato e regioni, in attuazione degli artt. 117 e 118 della Costituzione, e' stata stabilita per la prima volta dall'art. 28 del d.P.R. n. 616/1977, il quale ha posto tre fondamentali principi: in primo luogo, che il riconoscimento di tali istituti fosse "effettuato dallo Stato sentite le regioni interessate" (primo comma); in secondo luogo che spettino alle regioni "le stesse funzioni che esse esercitano per la parte assistenziale nei confronti degli enti ospedalieri .. o nei confronti delle case di cura private" (a seconda che si tratti di istituti pubblici o privati: secondo comma); in terzo luogo che "il controllo sulle deliberazioni degli istituti aventi personalita' giuridica di diritto pubblico e' esercitato dalla regione nel cui territorio l'istituto ha sede" (terzo comma). Tali principi fondamentali sono stati ripresi e confermati dalla legge di riforma sanitaria n. 833/1978, che vi ha aggiunto alcune disposizioni riguardanti il rapporto tra tali istituti e il servizio sanitario nazionale. Cosi', fermi i poteri regionali precedentemente stabiliti, l'art. 42 ha aggiunto che "detti istituti per la parte assistenziale sono considerati presidi ospedalieri multizonali delle unita' sanitarie locali" (terzo comma) e che "per gli istituti aventi personalita' giuridica di diritto privato sono stipulate dalle regioni convenzioni per l'assistenza sanitaria" (quinto comma). Inoltre, l'art. 42 della legge n. 833 conteneva una disposizione in materia di controlli meglio precisando che alla regione spettavano in controlli "per quanto attiene alle attivita' assistenziali". Rimaneva cosi' definito un quadro normativo perfettamente congruente alla natura duplice degli istituti, da una parte scientifici dall'altra di ricovero e cura, un quadro che componeva armonicamente gli interessi costituzionalmente garantiti dello Stato e delle regioni. Ugualmente l'art. 42 svolgeva sul piano organizzativo il tema obbligato della compresenza degli interessi statali e regionali in relazione agli istituti, prevedendo rappresentanti regionali nell'organo di amministrazione (ottavo comma, lett. a)): tema poi ulteriormente svolto dal decreto legislativo emanato sulla base dello stesso art. 42, prevedendo la presenza di un funzionario regionale nel collegio dei revisori, e il parere della regione interessata nella procedura di scioglimento degli organi di amministrazione. Ora, il problema posto dalla presente controversia sta in gran parte nel rispondere alla questione, se la delega data al Governo dal legislatore nel disporre il "riordino" degli istituti comportasse il potere di modificare nella sostanza tale quadro di regolazione, in attuazione della Costituzione, dei rapporti tra Stato e regioni. A parere della ricorrente regioni, la risposta non puo' che essere recisamente in senso negativo, essendo evidentemente estranea all'intenzione del legislatore delegante l'idea di conferire al Governo il potere di sottrarre alle regioni cio' che, in espressa attuazione della Costituzione, e' stato loro assegnato dal d.P.R. n. 616/1977 e dalla riforma sanitaria. Al contrario, semmai, l'alterazione del riparto, nei limiti consentiti, avrebbe dovuto avvenire nel senso di un potenziamento del ruolo delle regioni, secondo l'unico criterio sopra ricordato, stabilito per l'esercizio della delega. Senonche', il legislatore delegato ha fatto esattamente il contrario di quanto indicato nella legge di delega, ed anziche' ispirare la normativa al criterio di "rendere piene ed effettive" le funzioni regionali, ha mirato a "reinserire" gli Istituti stessi in un quadro di riferimento statale, irrazionalmente ed illegittimamente esautorando e comprimendo competenze regionali gia' stabilite. Va qui precisato che la ricorrente regione non intende affatto sostenere una assoluta intangibilita' della ripartizione di attribuzioni tra Stato e regioni operata dalla legislazione ordinaria in attuazione della Costituzione. E' noto infatti che l'assetto degli interessi puo' bene mutare nella sostanza, e con cio' giustificare che la linea di confine tra i compiti venga spostata, in un senso o nell'altro. Si nega pero' che a tale nuova valutazione e restrizione degli ambiti regionali sia abilitato il legislatore delegato, quando la delega non solo non lo prevede ma prevede l'esatto contrario, ed in assenza di qualunque ragionevole esigenza in tal senso segnalata dal Parlamento. Si esamini infatti l'impugnato decreto, alla luce delle premesse ora svolte, e non si potra' negare che sotto ognuno dei profili piu' rilevanti esso ha illegittimamente pretermesso il livello degli interessi regionali, e compresso o addirittura abrogato i relativi poteri regionali. Si cominci con la questione del "riconoscimento" degli istituti: questione che e' ovviamente cruciale, dato che il riconoscimento comporta un preciso stato giuridico e precisi diritti economici nei confronti del servizio sanitario e delle regioni territorialmente interessate. Nella precedente disciplina ciascuna regione interessata era necessariamente sentita. Nella nuova disciplina, invece, dal complesso delle disposizioni dell'art. 2 risulta che sia sulla definizione dei criteri sia sui singoli provvedimenti viene sentita la "Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le regioni". Ma e' evidente che tale parere, ammesso e non concesso che possa esprimere le valutazioni di un astratto livello istituzionale regionale, non e' affatto equivalente e sostitutivo del punto di affatto equivalente e sostitutivo del punto di vista della regione direttamente e singolarmente interessata. E' vero che con regolamento governativo dovranno essere definite anche "le procedure per il riconoscimento e la revoca" (art. 2, terzo comma, lett. b)), che in tale sede potrebbe essere reintrodotto il necessario parere della regione: ma non e' certo ammissibile che l'interesse costituzionale della regione, gia' tutelato dalla legge, sia rimesso alle discrezionali valutazioni di un regolamento governativo. Analoghi rilievi investono la mancanza della partecipazione della regione interessata al procedimento di revisione dei riconoscimenti gia' attribuiti, come disciplinato dall'art. 7, primo comma. Si dira' che in questo caso l'impugnato decreto prevede l'"intesa" anziche' il parere della Conferenza Stato-regioni. Ma la differenza e' innanzitutto solo apparente, dato che lo stesso art. 7, settimo comma, parifica parere e intesa, consentendo allo Stato a suo piacimento di prescindere da entrambi, come meglio si esporra'. Inoltre, rimane il non coinvolgimento della regione interessata, certamente non sostitutibile da una astratta "regionalita'". Allo stesso modo, illegittimamente scompare la garanzia legislativa della presenza di rappresentanti regionali nell'organo di amministrazione degli istituti. Infatti, ogni determinazione concernente il consiglio di amministrazione (dalle attribuzioni alla composizione, ad ogni altro aspetto) e' arbitrariamente rimessa - senza la minima previsione di principi o direttive - ad un regolamento governativo. Tale rinvio in assoluta liberta' al regolamento governativo e' tanto piu' impressionante se si considera che il parallelo decreto legislativo n. 270/1993, concernente gli istituti zooprofilattici (ed oggetto di separata impugnazione), determina invece ogni singolo aspetto degli organi di amministrazione, rimandando alla legge regionale sono per fantomatiche "restanti" norme organizzative (art. 3 del d.lgs. n. 270). In altre parole, il legislatore delegato - ovvero il Governo - non fissa neppure i principi quando si tratta di rinviare al regolamento statale (ovvero sempre al Governo), ma entra pesantemente nel dettaglio quando si tratta di comprimere il potere legislativo regionale. La disparita' e l'illegittimita' costituzionale di entrambe le attitudini sono dunque evidenti. Non meno chiara e' l'illegittimita' costituzionale della attribuzione di ogni potere di controllo sull'attivita' degli istituti scientifici di ricovero e cura al Ministro della sanita', e la contestuale estromissione della regione, operata dall'art. 2, primo comma, lett. c), in connessione con la disposizione abrogatrice dei poteri regionali contenuta all'art. 8, nonche' dall'art. 2, terzo comma, lett. d) (che prevede la disciplina con regolamento governativo degli "atti degli istituti sottoposti a controllo" e del "relativo procedimento"). In effetti, sino a che il legislatore statale inserisce l'assistenza erogata dagli istituti scientifici nel sistema degli enti erogatori del servizio sanitario, non si vede come si possa legittimamente sottrarre alle regioni - che tra l'altro pagano il costo - il potere ed il dovere di esercitare su tale attivita' assistenziale i compiti di controllo. Una tale incongrua operazione non potrebbe essere compiuta neppure dalla legge ordinaria del Parlamento, ed a maggior ragione non puo' essere compiuta, in assenza di delega, dal legislatore delegato. Per quanto infatti l'attivita' assistenziale possa considerarsi "strumentale" rispetto alle finalita' di ricerca scientifica - secondo l'espressione della sentenza costituzionale n. 356/1992 - pure essa non cessa di costituire ex lege una attivita' propria del servizio sanitario, rispetto alla quale non si puo' negare alla regione il potere di disporre momenti di verifica e di controllo. D'altronde, la questione del controllo si collega alla piu' generale questione del rapporto tra attivita' assistenziale degli istituti e programmazione regionale. E' evidente, infatti, che se le strutture assistenziali degli istituti sono di per se', anche ai fini del finanziamento, parte del servizio sanitario, non puo' non esserci, pena la lesione dell'autonomina non solo e non tanto legislativa, ma amministrativa e finanziaria delle regioni, un accordo con la programmazione regionale. Nel sistema previgente, tale raccordo era assicurato dal sistema dei controlli sulla parte assistenziale, dalla sottoposizione alla programmazione regionale (salvo il potere ministeriale di autorizzazione in deroga per finalita' scientifiche: cfr. art. 42, settimo comma), dal regime di convenzione per le istituzioni private. Nulla di tutto cio' risulta piu' nel decreto legislativo impugnato, che sotto questo profilo davvero sembra ignorare nel modo piu' sconcertante le esigenze di tutela degli interessi del servizio sanitario nazionale, oltre che delle regioni. L'unico spiraglio in diverso senso e' costituito dal fatto che non sembra abrogata dalla nuova disciplina la disposizione dell'art. 42, quarto comma, della legge n. 833, secondo la quale "spettano alle regioni le funzioni che esse esercitano nei confronti dei presidi ospedalieri delle unita' sanitarie locali o delle case di cura pri- vate", e neppure la disposizione dell'art. 28 del d.P.R. n. 616/1977, secondo cui analogamente spettano alle regioni sugli istituti "le stesse funzioni che esse esercitano per la parte assistenziale nei confronti degli enti ospedalieri .. o nei confronti delle case di cura private". Ma non si vede quale possa essere l'effettivita' di queste funzioni, se non si ammette che esse possano poi tradursi in conseguenti poteri di controllo, e di inserimento o meno nel servizio sanitario, anche ai fini del finanziamento. Nella nuova disciplina, qui impugnata, gli istituti scientifici, pubblici e privati, hanno la fisionomia di "ospedali di rilievo nazionale e di alta specializzazione", sia in termini generali (art. 1, terzo comma), che in particolare per quanto concerne le modalita' di finanziamento (art. 6, quinto comma). Cio' e' completamente illegittimo. Da una parte, infatti, cosi' facendo il legislatore delegato disciplina in realta' non la materia degli istituti scientifici, che doveva "riordinare", ma quella degli "ospedali di rilievo nazionale e di alta specializzazione", per la quale era completamente sprovvisto di delega: e per di piu' la disciplina in modo tale che non sarebbe stato consentito neppure al legislatore delegato di cui al d.lgs. n. 502/1992, che pure era provvisto di apposita delega in materia, e tuttavia soggetta ai limiti della legge di delegazione, come chiaramente affermato dalla sentenza di codesta Corte costituzionale n. 355/1993. In secondo luogo, ed in particolare per il sistema di finanziamento, il legislatore delegato viola l'autonomia finanziaria regionale, vincolando le regioni a finanziare gli istituti scientifici sulla base non delle prestazioni di cui beneficia il servizio sanitario, e nell'ambito di una precisa verificabilita' di tali prestazioni, ma sulla base "dei costi complessivi delle prestazioni che l'azienda e' nelle condizioni di erogare, rilevabile sulla base della contabilita'" (cosi' in virtu' del richiamo all'art. 4, settimo comma, del d.lgs. n. 502/1992 operato dall'art. 6, quinto comma, del decreto impugnato). E cio', che comunque appare illegittimo, non solo senza che sia dato riferire i costi da assumere come base soltanto alle spese assistenziali, ma indistintamente per gli istituti pubblici e per quelli privati. Considerazioni ulteriori richiede l'illustrazione della specifica illegittimita' costituzionale della disposizione secondo la quale "il parere o l'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome, ove previsti dal presente decreto, sono resi entro sassanta giorni dalle ricezione della richiesta", mentre "decorso tale termine, i provvedimenti relativi sono comunque adottati". E' evidente l'importanza di principio della questione, trattandosi di un meccanismo procedurale suscettibile di essere esteso a qualunque materia. Ad avviso della ricorrente regione, l'illegittimita' costituzionale della disposizione e' palese per quanto si riferisce alle intese. Infatti, consentire ad una delle parti di prescindere dalla necessaria intesa con l'altra, nell'ipotesi in cui la seconda non intenda darla (e percio' non la dia entro sessanta giorni), equivale a vanificare lo strumento dell'intesa proprio quando esso svolgerebbe la sua funzione, nel senso di indurre le parti a trattare e raggiungere un accordo: equivale a dire allo Stato che non ha senso per lui cercare l'accordo con le regioni, dato che trascorso il breve termine di sessanta giorni non ne ha piu' bisogno. Certo, la ricorrente regione e' consapevole del pericolo opposto, cioe' del pericolo che il mancato raggiungimento dell'intesa, in assenza di meccanismi sostitutivi, determini la paralisi dell'azione: ma la doverosa ricerca di un punto di equilibrio non puo' essere sostituita, come avviene nel decreto impugnato, dalla pura e semplice consegna di ogni potere decisionale allo Stato, solo decorsi sessanta giorni. Per superare il vaglio di costituzionalita' occorre invece che i meccanismi sostitutivi della mancata intesa corrispondono al principio di leale collaborazione, prevedendo oneri procedurali e motivazionali, ovvero sedi apposite di composizione del conflitto, secondo strumenti non certo difficili da ideare, ove solo ve ne sia la volonta'. Nel caso concreto, poi, la stessa disposizione appare legittima anche in relazione ai pareri. Infatti, i pareri di cui si parla sono pareri di un organismo - la Conferenza permanente - che e' presieduto e convocato da un organo dello Stato (il Presidente del Consiglio dei Ministri, secondo la disciplina dell'art. 12 della legge n. 400/1988). Sicche' risulta del tutto incongruo far derivare un potere statale da una inerzia che puo' dipendere in pratica soltanto dalla corrispondente inerzia di un organo statale.
Tutto cio' premesso, la ricorrente regione Emilia-Romagna, come sopra rappresentata e difesa chiede che l'eccellentissima Corte costituzionale voglia dichiarare l'illegittimita' costituzionale del decreto legislativo 30 giugno 1993, n. 260, recante "Riordinamento degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, a norma dell'art. 1, primo comma, lett. h), della legge 23 ottobre 1992, n. 421", in relazione alle disposizioni specificamente impugnate, per contrasto con gli artt. 76, 117, 118 e 119 della Costituzione. Allegati: 1) deliberazione della giunta regionale del 31 agosto 1993; 2) mandato a rogito del notaio Lucia Anna Maria Maffeo di Bologna del 31 agosto 1993. Padova-Roma, addi' 1 settembre 1993 Avv. prof. Giandomenico FALCON - Avv. Luigi MANZI 93C0977