N. 721 ORDINANZA (Atto di promovimento) 9 ottobre 1993
N. 721 Ordinanza emessa il 9 ottobre 1993 dal pretore di Napoli, sezione distaccata di Pozzuoli, nel procedimento civile vertente tra il comune di Procida e Romeo Mario Procedure concorsuali - Esecuzione collettiva nei confronti di una p.a. insolvente (nella specie: comune di Procida) - Mancata previsione di alcun automatismo di ammissione al passivo, nonche' dell'obbligo, per il commissario o la commissione, di inserire il debito nella massa passiva, laddove tale debito sia riconosciuto fuori bilancio - Previsione, in deroga ad ogni altra disposizione, che, alla data di deliberazione del dissesto, i debiti insoluti non producano piu' interessi, rivalutazioni monetarie o altro - Mancata previsione della perdita della capacita' di stare in giudizio dell'ente dissestato e dell'interruzione dei procedimenti cognitivi e dell'indisponibilita' del patrimonio - Mancanza di disciplina, riguardo ai procedimenti di cognizione in corso, circa l'efficacia dei titoli di formazione successiva con conseguente difetto di interesse e vanificazione del futuro comando dell'a.g. - Ingiustificata disparita' di trattamento rispetto alla disciplina civilistica con incidenza sui principi di difesa in giudizio e di tutela giurisdizionale. (D.-L. 18 gennaio 1993, n. 8, art. 21, convertito in legge 19 marzo 1993, n. 68). (Cost., artt. 2, 3, 24, 41 e 113, in relazione al c.c. artt. 1224, 1282, 1284, 2082 e 2093, in relazione al c.p.c. artt. 75, 100, 299, 300 e 474, in relazione al r.d. 16 marzo 1942, n. 267, artt. 1, 43, 55, 92, 93, 95 e 96, in relazione alla legge 4 dicembre 1956, n. 1404, artt. 8, 9 e 15).(GU n.51 del 15-12-1993 )
IL VICE PRETORE Ha pronunziato, in data 9 ottobre 1993, la seguente ordinanza nella causa, iscritta nel r.g. a.c. al n. 89167/90, tra il comune di Procida, in persona del suo sindaco pro-tempore, domiciliato per la carica presso la casa municipale dell'ente, rappresentato e difeso dall'avv. Giuseppe Diana, presso il quale elettivamente domicilia in Napoli, alla via Girolamo Santacroce n. 19/F, giusta procura in calce all'atto di opposizione ed in forza della delibera di g.m. n. 471 del 5 dicembre 1990, opponente, contro Romeo Mario, rappresentato e difeso dall'avv. Albenzio Mancino, presso il quale elettivamente domiciliato in Monte di Procida al corso Garibaldi 5, giusta procura in calce all'atto di opposizione - opposto; Promesso che, con ricorso del 13 novembre 1990, Romeo Mario chiedeva ingiungersi al comune di Monte di Procida il pagamento della somma di L. 4.281.180, a suo avviso, dovuta per forniture di materiali e merci; che tale domanda veniva accolta con decreto n. 522 del 17 novembre 1990, notificato il 30 novembre 1990; che avverso detto decreto, con atto notificato il 18 dicembre 1990, proponeva tempestiva opposizione il comune di Monte di Procida, deducendo l'infondatezza della pretesa e la mancanza di prova scritta del credito; che, riservatosi di provvedere, questo giudice, con ordinanza del 15 luglio 1993, faceva ordine alla p.a. convenuta di fornire una serie di informative influenti al decidere, sulla considerazione che l'ente aveva gia' adottato il piano di risanamento, ex art. 25 della legge n. 144/1989 e che al comune di Monte di Procida si applicano le disposizioni di cui all'art. 21 della legge n. 68/1993, di conversione del d.-l. n. 8/1993, per il richiamo espresso contenuto all'ottavo comma; che le chieste inform- ative miravano a conoscere se la pretesa del Romeo - opposto - e la lite fossero state oggetto - come prescritto dal citato art. 21 - di transazione e se la somma, pretesa dal Romeo, fosse stata o meno inserita nella massa passiva del piano di estinzione ovvero riconosciuta tra i debiti dell'ente in bilancio o tra quelli fuori bilancio, ai sensi degli artt. 24 della legge n. 144/1989 e 12- bis della legge n. 80/1991; che tale richiesta (di informative) veniva evasa con nota dell'amministrazione, con la quale si rappresentava che non vi era stata trasnsazione, che la somma pretesa non era inserita nella massa passiva del piano di estinzione, pur risultando il debito inserito tra quelli fuori bilancio (tale inserimento a seguito di deliberazione consiliare n. 48 del 21 giugno 1991); Rilevato che questo giudice ha gia' ritenuto influenti una serie di questioni di incostituzionalita' dell'art. 21 della legge n. 68/1993, con le sue precedenti ordinanze del 26 maggio/3 giugno 1993, in Gazzetta Ufficiale, serie speciale, n. 35 del 25 agosto 1993, sotto i numeri 430, 433 e 434; che, a siffatte ordinanze, devesi oggi necessariamente richiamare, per gli evidenti argomenti logicamente connessi ed influenti sulla presente controversia, ma non decisivi di questa; che le gia' sollevate questioni di costituzionalita' sono state avanzate nel corso di procedimenti esecutivi o di giudizi di opposizione all'esecuzione, rimanendo incentrate sui riflessi che la norma (art. 21) avrebbe sui procedimenti detti, allorquando parte sia una pubblica amministrazione dissestata; che, nel presente procedimento di cognizione, l'applicazione del citato art. 21 genera dubbi di costituzionalita' che ruotano intorno ad argomentazioni generali do fondo simili a quelle gia' esposte nelle sopra richiamate ordinanze; che, cio' malgrado, anche per le ragioni che appresso verranno chiarite, deve riconoscersi la necessita' di investire nuovamente la Corte sotto alcuni parziali diversi profili e per la diversa rilevanza che le questioni medesime potrebbero riverberare sul procedimento di cognizione de quo, riservato a sentenza dallo scrivente all'udienza del 20 settembre 1993; che, al riguardo, non puo' non rilevarsi come la norma in questione (art. 21), mentre contiene espresse previsioni relative alla disciplina dell'espropriazione (stroncandola, in favore delle pp.aa. dissestate), invece, e' totalmente carente di qualsivoglia previsione su come debba disciplinarsi il procedimento cognitivo, laddove parte sia una p.a. dissestata; che la norma non indica quali possano (o debbano) essere gli effetti, conseguenti all'adozione della delibera di dissesto, sui giudizi (di cognizione) in corso o riguardo al promuovimento di nuove azioni cognitive; e tutto cio', pur potendo fondatamente ipotizzarsi - come appresso sara' meglio esposto - che sia stata precisa volonta' del legislatore quella di instituire una sorta di nuova ed atipica procedura concorsuale, laddove debitrice insolvente sia una p.a.; che tanto sintetica disciplina, pero', lascia profondamente imbarazzato qualsiasi interprete; che le difficolta' interpretative sono tali, poi, da poter far anche dubitare che la scelta del legislatore sia stata quella indicata (cioe' di instituire un'atipica procedura concorsuale); rilevo di fronte al quale non si puo', pero', parimenti, non restare perplessi, a causa delle ulteriori deprecabili omissioni, tutte purtroppo evidentissime. La disposizione in esame (art. 21), nella sua complessiva strutturazione, pur introducendo norme sussunte da quelle che caratterizzano l'esecuzione collettiva (cioe', le procedure concorsuali e sia quelle fallimentari che quelle liquidatorie), e' totalmente carente di quelle tipiche previsioni, la cui presenza soltanto garantirebbe il perseguimento dello scopo del soddisfacimento dei crediti. La norma contiene: le previsioni della delibera dello stato di dissesto, dell'esclusione della capitalizzazione di somme per interessi ed accessori, dell'inammissibilita' delle azioni esecutive individuali, del riparto "nei limiti della massa attiva" (e non cio' ipotizza l'incapienza), dell'inammissibilita' di richieste di crediti di data anteriore all'approvazione del piano di estinzione. Tutte tali previsioni sono tipiche delle procedure concorsuali. La norma, poi, postula lo "stato di insolvenza" (in quanto collega, tra l'altro, l'obbligo della relativa dichiarazione al mancato pagamento dei servizi essenziali ed al mancato pagamento dei debiti riconosciuti) e, cioe', uno stato di impotenza patrimoniale, tipico presupposto della dichiarazione di fallimento, non sempre necessario, pero', nell'ipotesi di liquidazione (coatta amministrativa) che, per gli enti pubblici economici, spesso e', pero', finalizzato alla loro soppressione. Senonche', si distingue dalle norme che disciplinano le procedure concorsuali, perche' non risulta affatto strumentale alla realizzazione dei crediti; la stessa, cioe', non intega un mezzo tecnico, apprestato dall'ordinamento, a tutela dei crediti insoddisfatti. Le norme relative alle procedure concorsuali ruotano intorno al principio di assicurare la par condicio creditorum, in affermazione del principio di eguaglianza, previsto anche dall'art. 2740 del c.c.; nelle procedure concorsuali e' l'interesse generale di tutti i creditori che viene tutelato; con l'esecuzione collettiva si apre un concorso necessario di tutti i creditori e vengono sottoposti ad espropriazione "tutti" i beni del debitore, sui quali ogni creditore ha eguale diritto di essere soddisfatto; l'esecuzione collettiva realizza un regolamento giudiziale di tutti i rapporti sulla base della par condicio, rendendo incompatibile, per tale solo motivo giustificatamente, l'inizio o la continuazione di eventuali azioni (cognitive) od esecuzioni individuali nei confronti del debitore. Singolarmente, poi, lo stato di dissesto, ex art. 21 in esame, non viene dichiarato ad istanza del creditore, ma dalla stessa p.a. debitrice; il fallimento dell'imprenditore commerciale e', invece, dichiarato con sentenza e lo stato di insolvenza, che conduce al decreto di liquidazione coatta, deve essere preventivamente accertato dall'autorita' giudiziaria. La previsione, secondo cui il commissario o la commissione, di cui al terzo comma dell'art. 21, hanno titolo a "transigere vertenze in atto o pretese in corso", non assicura ai creditori alcun controllo sull'attivita' di predisposizione della massa passiva; nella procedura fallimentare, invece, detto controllo (come quello sulla formazione dall'attivo), oltre a quello del giudice, e' costante; nella liquidazione e', poi, specificamente, disciplinato dall'art. 198 della l.f. La norma, inoltre, pur ipotizzando un riparto, "nei limiti della massa attiva disponibile" (cosi' prospettando l'incapienza), non impone che siano liquidati "tutti i beni" del debitore. La norma (diversamente dagli artt. 42, 47 e 200 della l.f.) non sottrae al debitore la disponibilita' e l'amministrazione dei suoi beni (funzione cautelare), assicurandone la consistenza (e, ove del caso, la produttivita', mediante il conferimento del potere di conservazione, di amministrazione e di liqudiazione agli organi della procedura i quali, in contrario, sono chiamati ad una mera attivita' di contabilizzazione; anzi, in contrario, consente alla p.a. dissestata l'adozione di una serie di misure destiante ad aumentare le entrate, senza precludere le spese (ed almeno tutte o parte di quelle non necessarie). La norma non garantisce, in danno dei creditori, l'accertamento, con indagine giudiziale e con efficacia definitiva, della consistenza e dell'entita' della massa passiva, nonche' dell'ammontare e della natura di ciascun credito: il commissario e la commissione hanno infatti titolo (pare proprio senza limiti) a "transigere vertenze in atto o pretese in corso", come "giudici definitivi", capaci di esautorare quelli naturali, pur difettando loro l'imparzialita'; il tutto senza alcun potere di interferenza, sulla loro attivita', da parte dei creditori. Nella procedura fallimentare ed in quella liquidatoria, invece, v'e' sempre l'opposizione contenziosa quale garanzia dell'interessato. La norma non prevede la liquidazione di "tutti i beni" (disponibili) attuali e futuri (della p.a. debitrice), per il soddisfacimento dei crediti; e cio' che e' altrettanto grave, neppure prevede che i beni (disponibili), in ipotesi, gia' "sottratti" vengano (o possano essere) acquisiti alla massa attiva, attraverso procedimenti di revoca degli atti compiuti dal debitore. La norma non consente ai creditori alcun controllo in sede di riparto ed oltre a non prevedere (neppure tanto comprensibilmente) qualcuno degli "effetti personali" (che le norme del r.d. del 1942, invece, collegano, in danno del debitore o degli amministratori, alla dichiarazione di fallimento o all'accertamento dello stato di insolvenza, nel caso dell'art. 203 l.f.), non prospetta (qui certo irrazionalmente) la perseguibilita' (anche penale) dei responsabili della p.a. dissestata, ne' prevede che, dalla dichiarazione del dissesto, si produca qualcuno di quegli "effetti patrimoniali" che le norme concorsuali prescrivono, invece, e come e' ovvio, in danno dell'imprenditorefallito; non collega alla p.a. dissestata la perdita della capacita' di stare in giudizio (come appresso meglio si dira'); non detta previsioni sul recupero dei crediti; non obbliga all'inventario; non prevede quali siano gli effetti della dichiarazione di disseso sui rapporti giuridici pendenti, sui negozi giuridici (specie quelli onerosi) in corso di svolgimento, sui contratti di conto corrente, di locazione, di appalto, di assicurazione etc.; e' carente delle previsioni circa la partecipazione dei creditori alla formazione del piano di riparto ed alle azioni revocatorie; non disciplina la possibilita' di "riapertura" della liquidazione; non disciplina il rapporto inadempimento (che ipotizza) e risoluzione contrattuale (che non esclude). Da siffatti ragionamenti, allora, non puo' che derivare il rilievo secondo cui la singolare procedura, disciplinata dall'art. 21, non e' assimilabile affatto ad una procedura concorsuale, difettando com'e' delle caratteristiche e della logica principali di questa e che, come strutturata, quindi, non costituisce una forma di tutela del ceditore giuridicamente apprezzabile. A siffatta procedura, dunque, per le ragioni espresse, difetta il principale requisito dello scopo di essere "nell'interesse della generalita' dei creditori". Con la disposizione di cui all'art. 21 citato, che non istituisce una procedura concorsuale in danno della p.a. e neppure una qualsiasi altra procedura in grado di garantire il soddisfacimento dei crediti (assicurando la par condicio, e meno che mai un apprezzabile tutela del creditore), risulta dunque accordata alla p.a. un'indiscriminata ed illogica forma di tutela, che non tiene conto di tutte le regole citate e che, ingiustificatamente, in danno dei creditori, comprime il diritto (oltre a sopprimere i mezzi di esecuzione); e tutto cio', pur prevedendo la norma e singolarmente che, proprio a seguito della deliberazione di dissesto, la p.a. interessata viene autorizzata a continuare ad esigere, con i suoi stessi immutati poteri coercitivi, i tributi oltre che i canoni e le tariffe ed ad elevare le relative aliquote sino al tetto massimo di legge in danno della collettivita'; cosa che appare tanto piu' grave, laddove si rifletta sull'ulteriore dato che, mentre trale elevazione delle aliquote e' destinata a protrarsi, secondo le previsioni della norma, anche per il tempo successivo al riparto (cioe' per il periodo successivo alla chisura della liquidazione), le maggiori entrate non risultano affatto destinate al soddisfacimento dei crediti (e dire che le maggiori entrate - per effetto dell'elevazione delle aliquote dei tributi, tariffe e canoni, ai livelli massimi - sono un indiscutibile danno per la collettivita' e, come e' facile comprendere, spesso, per gli stessi soggetti creditori). Tutti siffatti rilievi impongono, dunque, di controllare la norma sotto quei profili di rilevanza costituzionale che conseguono dalla complessiva impostazione data, per la rivoluzionarieta' del contenuto e dello scopo della norma. Sicche' si osserva: a) se la procedura, istituita dall'art. 21, non e' assimilabile ad una procedura concorsuale, la norma si presenta di dubbia costituzionalita', laddove esclude la capitalizzazione degli interessi e degli accessori dei crediti (cioe', laddove prevede l'interruzione del decorso dei termini); b) in contrario, l'assimilabilita' genera dubbi: 1) vuoi per la mancata previsione della perdita della capacita' ad agire, 2) vuoi per la mancata previsione dell'interruzione del processo cognitivo. E quale che sia l'impostazione (sub a o b), sorgono comunque forti dubbi di costituzionalita' sui poteri di transazione, conferiti dal legislatore, al commissario o ai commissari liquidatori, sulla mancata previsione dell'obbligo di questi di inserire i debiti nella massa passiva ed infine sulla mancata previsione di azioni, in favore dei creditori, affinche' i loro crediti siano inseriti nella massa passiva detta. Primo profilo di sospetta incostituzionalita' Non si e' mai sospettato (anzi e' stato sempre escluso) che una p.a. potesse, pur trovandosi in uno stato di definitiva impotenza patrimoniale ad adempiere integralmente ed immeditamente le proprie obbligazioni, essere soggetta ad una esecuzione collettiva e, meno che mai, ad una procedura di tipo concorsuale. La ratio di tale principio si collega alla logica che, se l'inadempienza e' un fatto illecito, che lede l'interesse del creditore insoddisfatto, non e' tollerabile che una p.a. possa essere protagonista del fatto illecito detto, visto che la stessa (p.a.) e, poi, preposta istituzionalmente ad evitare che vengano commessi fatti illeciti e, quindi, a garantire che non vengano commessi tali fatti. Storiche ragioni, sempre condivise, tollerano il definitivo inadempimento solo nei confronti dell'imprenditore. Ben vero, l'art. 2093 del c.c. prevede che l'impresa possa anche essere esercitata da enti pubblici. E' da escludere, pero', che enti, come le province, i comuni e lo Stato, possano mai acquistare la qualita' di imprenditori (commerciali); tale qualita' puo' essere solo dei cc.dd. enti pubblici economici. L'"esercizio" (per comuni, province, etc) e', infatti, solo un'attivita' accessoria, rispetto a quella principale da essi svolta, inerente al fine istituzionale pubblico che perseguono; ed e' giustificato dall'esigenza di assicurare alla collettivita' la prestazione di servizi di sostanziale importanza per l'economia del paese o anche dall'opportunita' di assicurarsene il profitto che, scevro dal rischio economico (inerente ad ogni impresa per il carattere di monopolio con cui e' effettuato), costituisce un gettito patrimoniale certo, da detti enti utilizzato per il conseguimento dei loro fini generali. Lo Stato (al pari di un ente locale) infatti, allorche' esercita, se cosi' si puo' dire, un'impresa non assume veste di imprenditore, che contrasterebbe con la sua indole. Ben diverso e', invece, il caso dei cc.dd. enti pubblici economici (autonomi), per i quali l'impresa costituisce l'oggetto esclusivo e/o preminente della loro attivita'; detta attivita', pur mirata al perseguimento di un interesse collettivo, costituisce di per se' l'oggetto immediato che ne giustifica l'esistenza giuridica. Per tali enti pubblici soltanto si prospetta, dunque, l'assoggettabilita' alla procedura della liquidazione coatta. La norma (art. 21) in esame, allora, collide con i cennati principi e con quelli espressi sul tema in numerose decisioni dalla Corte costituzionale (tra cui, sentenza n. 138/1987), sottrae la p.a. dalla posizione istituzionale di garante ed assimila (rectius: tenta di assimilare) addirittura l'attivita' della stessa a quella di un soggetto - imprenditore privato debitore; cio' ingiustificatamente e, per giunta, con una serie di privilegi, per la p.a., che non trovano giustificazione (alcuni di tali privilegi gia' sopra evidenziati) e tutti sempre censurati dalla stessa Corte costituzionale (rivedi la sentenza n. 138/1987) e dal supremo collegio (tra le tante, cass. s.u. 18 dicembre 1987, n. 9407; cass. s.u. 9 marzo 1981, n. 1299); censure che l'esame della norma (art. 21) fa apparire, paradossalmente, proprio come le originarie fonti del contrasto tra p.a. (agente jure privatorum e come tale assoggettabile ad espropriazione) e privato. Dall'elaborazione ed approfondimento delle censure dette, poi, pare proprio che sia derivata l'inevitabile conseguenza dell'ipotizzabilita'del fallimento anche di una p.a., al pari di un privato debitore. Non v'e', pero', dubbio alcuno che, nascosto dietro la stessa (apparente) logica di supporto delle note decisioni della Corte costituzionale e del s.c. (quelle citate), ma travisandone il senso e fuorviandone totalmente gli scopi, il legislatore abbia voluto riprodurre le superate questioni sull'assoggettabilita' ad esecuzione forzata della p.a. e sulla giurisdizione, nel tentativo iniquo, pero', di favorire la stessa p.a. che, di certo, pur operando come soggeto di diritto privato a questo non sarebbe piu' certo equiparabile, per l'evidente favore accordatole. Ripugna, peraltro, alla coscienza giuridica l'idea che una p.a. possa "dissestare" (rectius: fallire o liquidare) in senso stretto. A siffatte considerazioni, aggiungasi che il continuo gettito patrimoniale, in favore della p.a., costituito dall'esercizio delle sue attivita' e dalle entrate tributarie esclude, d'altro canto, che possa mai rinvenirsi il c.d. stato di insolvenza (definitivo), tipico presupposto delle procedure concorsuali. I poteri di coercizione, che la p.a. dissestata puo' contuare ad esercitare per il recupero delle entrate (anche tributarie), sono del tutto inconciliabili con il rilievo di uno stato di decozione patrimoniale, emergendo l'illogicita' della previsione e visto che la stessa non potrebbe che giustificarsi se non come atto impositivo, senza ristoro e, come tale, illegittimo anche sotto tale profilo. Per tali ragioni, riguardo alla verifica dell'assoggettabilita' ad un'esecuzione collettiva di una p.a., si puo' fondatamente dubitare che la norma violi gli artt. 2 e 3, secondo comma, della Costituzione, attinenti le garanzie e l'obbligo di rimozione di ostacoli, nonche' l'art. 41, attinente il riconoscimento dell'iniziativa economica, programma, indirizzo e coordinamento della iniziativa economica detta, anche con riferimento agli artt. 2082 del c.c., 1 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (l.f.) e 15 della legge 4 dicembre 1956, n. 1404. Secondo profilo di sospetta incostituzionalita' La disciplina della procedura di liquidazione in questione risulta succintamente dettata dal legislatore al terzo comma dell'art. 21 citato. L'esame di tale disposizione consente di rilevare: 1) il difetto assoluto di qualsivoglia previsione in ordine alla disciplina del procedimento di cognizione ordinario, allorquando questo sia gia' pendente nei confronti di una p.a. dissestata ovvero quando debba intraprendersi un siffatto procedimento ad istanza della p.a. detta o contro questa; 2) la chiara prefissione di termini, a decorrere dai quali ed entro e non oltre i quali il piano di estinzione deve essere portato a compimento; nonche' di termini entro e non oltre i quali i debiti devono essere liquidati (seppure anche proporzionalmente); 3) l'attribuzione, al commissario o alla commissione, dell'esclusivo "titolo a transigere vertenze in atto o pretese in corso" (tale estesa dizione, peraltro, lascia supporre che il legislatore siasi voluto riferire certamente alla possibilita' di transazione di vertenze giudiziarie, ma molto probabilmente anche di pretese stragiudiziali; con una serie di comprensibili preoccupazioni che derivano da tale considerazione, tutte evidentissime); 4) la chiara esclusione della capitalizzazione delle somme accessorie al credito, per il tempo successivo all'assunzione della delibera di dissesto. Orbene, riferito in genere che la prefissione dei citati termini ristretti avrebbe potuto indurre il legislatore a fissarne altri ben specifici (e magari altrettanto ristretti) entro e non oltre i quali i commissari dovrebbero essere tenuti alle transazioni ed alla formazione della massa passiva (e cio' anche per i logici e molteplici riflessi che siffatte evenienze potrebbero avere sulle cause in corso ed in ordine alla verifica, in particolare, dell'utilita' di preoseguirle), rimarca piu' considerevolmente il difetto della norma, in tutti quei casi, come quello di specie, laddove il debito dell'ente risulti gia' consacrato in un atto deliberativo, adottato ai sensi degli artt. 24 e 25 della legge n. 144/1989, e con il quale atto l'ente ha gia' proceduto al riconoscimento del debito stesso (sull'efficacia del detto riconoscimento e sull'applicabilita' dell'art. 1988 del c.c. anche agli atti alla p.a., cfr. cass. 12 gennaio 1981, n. 263); e rimarca anche laddove il debito sia consacrato in un titolo con fonte giudiziale (v. art. 12- bis della legge n. 80/1991). In tali evenienze, infatti, non essendo dubitabile affatto l'ammissibilita' dei debiti nella massa pasiva, non si comprende la logica di deferimento ai commissari della valutazione sull'ammissibilita'detta alla massa, previe transazioni (di cosa, peraltro, non e' dato comprendere). A) Sicche' e' sospetta di incostituzionalita' la norma, sia laddove demanda ai commissari l'ammissione dei debiti nella massa, senza tenere conto di quei debiti consacrati in titoli con fonte giudiziale o gia' riconosciuti dall'ente, sia laddove conferisce ai commissari il potere - senza limiti - di transigere pretese in atto e vertenze in corso (per la stretta colleganza che v'e' tra le transazioni dette e la massa passiva in formazione, nonche' tra le stesse transazioni e le pendenze giudiziarie), sia infine, laddove non prevede alcun automatismo di ammissione alla massa per i debiti delle categorie enunciate. Tutto cio', dunque, traduce una ulteriore chiara compressione dei diritti dei ceditori, diritti che la norma, peraltro, illogicamente, comprime (ed espressamente) sia riguardo alle azioni esecutive che agli accessori del credito, escludendo, infatti, che siano dovuti interessi e svalutazione per il tempo successivo all'adozione della delibera di dissesto. Tali previsioni, poi, rese tanto sinteticamente da manifestare una serie di incogruenze e di lacune che, di certo, rendono difficilissimo il compito di un qualsiasi interprete, peraltro non apparendo condivisibile sul punto - ed ammesso pure che possa concedersi che una p.a. possa fallire - la scelta omissiva del legislatore di qualsivoglia previsione normativa di influenza o interferenza della procedura del "dissesto" sul procedimento cognitivo; omissione di effetto tale da coinvolgere l'interprete di fronte ad ogni fenomeno - ostacolo processuale che, per avventura, dovesse pararsi innanzi. Sicche' onesta' intellettuale impone allo scrivente di segnalare alla Corte che, con la presente ordinanza, non si sono potuti che adombrare quei pochi e soli sospetti di incostituzionalita' della norma su quelle poche questioni rilevanti (e rilevate) nella fattispecie de qua, certi che un piu' approfondito esame ne avrebbe fatto scorgere di piu' numerose e che, in altre fattispecie, altre evidenti di sicuro emergeranno. B) E' chiaramente sospetta di incostituzionalita' la norma, laddove esclude la capitalizzazione degli interessi e della rivalutazione, per il tempo successivo alla deliberazione del dissesto. Tale esclusione, nelle procedure concorsuali (art. 55 della l.f.), si giustifica poiche' mira a "congelare" il debito, nell'interese degli stessi creditori, ai quali e' cosi' assicurato un trattamento paritario. I rilievi sulle difficolta' di assimilazione della procedura liquidatoria de qua ad una concorsuale e, piu' ancora, ma in sostanza, la constatazione che siffatta procedura non mira affatto alla tutela dei creditori, forse solo sopperendo (ma anche percio' solo illegittimamente) urgenze economiche della p.a., fanno emergere la perfetta inutilita' del congelamento dei crediti; al riguardo, si riannota che la norma non prospetta un sicuro e pieno soddisfacimento dei crediti e neppure (cosa piu' grave) la parita' di trattamento tra i creditori. In effetti, la cristallizzazione del patrimonio del fallito, nella situazione in cui trovarsi alla data della dichiarazione del fallimento, e sia quanto all'attivo che al passivo, sopperisce la necessita' di evitare che qualche creditore piu' pronto possa soddisfarsi integralmente (in danno degli altri creditori) o che lo stesso fallito possa disporre dell'attivo (o di parte di questo) a vantaggio solo di qualche creditore (ed in danno degli altri). Tali rilievi rendono comprensibile anche la perdita della capacita' del fallito a stare in giudizio (proprio al fine di evitargli di compromettere l'attivo). E' la cristallizzazione: (indisponibilita'), dunque, della situazione patrimoniale del debitore e (a decorrere dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento) che giustifica - nelle proce- dure concorsuali - la scadenza di tutti i debiti pecuniari dovuti dal fallimento; con l'effetto - come detto - che cio' solo giustifica, l'interruzione del decorso degli interessi (legali o convenzionali) e degli altri accessori. In contrario, la mancata evidente finalizzazione della procedura liquidatoria de qua al soddisfacimento delle ragioni dei creditori e la mancata previsione dell'indisponibilita' del patrimonio (della p.a. dissestata) rende totalmente illegittima la relativa previsione (dell'interruzione del decorso degli interessi, e sia di quelli convenzionali, che di quelli compensativi e moratori), presupponendo imprescindibilmente, l'indisponibilita' del patrimonio (piu' chiaramente: la mancanza di una volonta' in grado di adempiere e, cioe', l'impossibilita' di adempiere). La s.c. ha piu' volte (ma ovviamente con riferimento ai soli enti pubblici economici) espresso il principio secondo cui "il corso degli interessi, con riguardo a credito pecuniario nei confronti di un ente pubblico, non resta sospeso dalla data della messa in liquidazione dell'ente (ad es. ex lege 4 dicembre 1956, n. 1404), laddove la liquidazione sia per ragioni diverse dall'impotenza patrimoniale ad adempire, salvo a decretare - per i casi detti - la liquidazione cotatta amministrativa" (cass. 24 gennaio 1986, n. 465; 5 febbraio 1985, n. 772; 7 luglio 1986, n. 4439, tra le tante). Sicche' non e' proprio da porre in dubbio la fondatezza dell'esigenza avverita e sottolinata (anche dalla s.c.) secondo cui o si ammette (come e' difficile credere che possa farsi) nei confronti della p.a. (Stato ed enti locali), la liquidazione concorsuale tipica, con tutte le conseguenze che ne derivano: (cioe' tutte quelle tipiche previste dalla l.f., ed almeno quelle necessarie a non snaturare del tutto la procedura liquidatoria), ovvero deve ritenersi che ogni altro tipo di procedura, costituente un tertium genus, pur ruotando intorno a ragioni diverse dallo stato di insolvenza e pur potendo non mirare a soddisfare i diritti dei creditori (ed ad assicurare a questi una parita' di trattamento), non possa certo comprimerli del tutto, cioe' escluderli. Tutto cio', salvo a potere escludersi, auspicabilmente (ma come parte certo, pero', non si possa fare) che non si e' di fronte ad una procedura concorsuale e che, quindi, l'ultima parte del terzo comma, dell'art. 21 in esame, non voglia affatto significare "estinzione dei diritti di credito" (compresi quelli eventualmente residuati dal riparto proporzionale della massa attiva, per l'ipotesi, cioe', di incapienza della liquidazione); e cioe' salvo che la norma in esame (art. 21, terzo comma), nell'ultima parte, sancisca solo la regola imputet sibi, quando il creditore non siasi attivato e non abbia avanzato la richiesta di credito affinche' questo sia inserito nel piano di estinzione; sicche' in tale ipotesi, i crediti insoddisfatti dal riparto e quelli non inclusi nella massa passivo lo potrebbero essere, per intendersi, una volta tornata in bonis la p.a dissestata. Tale conclusione, infatti, escludendo l'assimilabilita' della procedura ex art. 21 ad una concorsuale, eluderebbe i sospetti di incostituzionalita' cui sopra ci si e' riferiti, siffatta conclusione neppure si presenta peregrina. In effetti, i particolari ristretti termini accordati dal legislatore, al commissario o ai commissari, per la predisposizione del piano di estinzione, potrebbero pure indurre a pensare (seppure con discutibili forzature interpretative) che il legislatore (dell'art. 21) abbia voluto imporre l'attivita' di questi (commissari) mirata ad una rapida, ma sommaria, ricognizione della massa passiva ed ad una pronta liquidazione (sia pure nei limiti della massa attiva) dei crediti, per impedire un aggravio della situazione finanziaria, con l'adozione delle misure economiche previste dalle leggi nn. 144/1989 e 68/1993 e dei contestuali preovvedimenti di riequilibrio. Tali rilievi potrebbero, come detto, anche avere una loro valenza, specie laddove ci si rifiutasse di ipotizzare che i crediti, in corso di accertamento giudiziale e non transatti dai commissari, possano rimanere insoddisfatti, sol perche' "anteriori alla data della decisione" del Co.Re.Co. di approvazione del rendiconto finale di gestione (vedi l'ultima parte del terzo comma dell'art. 21). Sicche' tali ultime considerazioni ed il rilievo che la p.a. dissesta e' tenuta alla previsione di "un'ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato" (art. 21, quarto comma), potrebbero confermare la tesi del "ritono in bonis" della p.a., evitando di sospettare: a) che il commissario o i commissari possano assurgere al ruolo di "giudici" definitivi (in positivo ed in negativo); b) che la procedura liquidatoria possa protrarsi per piu' tempo: (i crediti vanno liquidati entro il termine di sei mesi dell'acquisizione del mutuo e questa puo' avvenire in un termine anche anteriore all'approvazione del piano di estinzione da parte del Ministero); c) che la p.a. dissestata, infine, possa permanere in stato di dissesto sine die, con il conseguente protrarsi delle misure economiche e finanziarie, imposte dall'art. 25, in danno della collettivita'. Sul punto e', pero', sempre necessario l'intervento interpretativo della Corte adita, tale da escludere l'ipotizzabilita' dei vizi di costituzionalita' e di apprestare all'interprete un adeguato e sicuro canone ermeneutico, conforme ai principi del dettato costituzionale. Terzo profilo (subordinato) di sospetta incostituzionalita' Diverse interpretazioni (quelle che, come gia' osservato, alla luce della norma, invece, appaiono piu' attendibili) inducono a risottolineare i sospetti di incostituzionalita' ed a ritenere, peraltro, che la norma, pur sussumendo alcune di quelle disposizioni tipiche delle procedure concorsuali, non prevede, irrazionalmente e con evidente disparita' di trattamento, la perdita della capacita' processuale della p.a. fallita e la necessita' di interrompere il processo. Laddove, infatti, la norma dovesse resistere di fronte alle principali censure di incostituzionalita' (: quelle sopra mosse), balzano sospetti ulteriori che impongono le seguenti riflessioni. Perdita della capacita' del fallito ed interruzione del processo sono principi piu' che recepiti (cfr. Cass. 9 febbraio 1987, n. 1374, tra le tante) che si muovono logicamente nell'orbita delle procedure concorsuali, in quanto sono ispirati agli scopi della liquidazione del patrimonio del fallito, di coltivazione dell'unica esecuzione collettiva e di assicurare la par condicio, rendendo indisponibile il patrimonio del fallito stesso. Siffatti principi eludono il pericolo di azioni individuali dei creditori (sulla questione, cfr. Cass. 4 marzo 1988, n. 2285, che ammette la proponibilita' e la proseguibilita' delle azioni cognitive nei confronti di enti pubblici economici, solo laddove, pero', la liquidazione si giustifichi non per lo stato di insolvenza e salvo, cioe', che "si apra la liquidazione" in presenza di situazioni deficitarie). Sicche' e' ovvio che, per l'ipotesi di ritenuta assimilabilita' della procedura de qua ad una tipica, la norma si presenta sospetta di costituzionalita', con riferimento agli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione, 75, 299 e 300 del c.p.c., nonche' 43 della l.f. e 8, 9 e 15 della legge n. 1404 del 1956, tanto essendo ovvia la fondatezza dei sospetti di fronte alle riscontrate lacune. La rilevanza delle questioni, nella fattispecie de qua, emerge sotto entrambi i delineati profili, visto che l'opposizione, da parte del comune di Monte di Procida, e' stata prodotta dopo l'approvazione del piano di risanamento ( ex art. 25 della legge n. 144/1989), mentre solo nelle more del processo e' intervenuto l'art. 21 della legge n. 68/1993. Quarto profilo subordinato di sospetta incostituzionalita' Irrazionalmente, come detto, non essendovi alcun obbligo, per i commissari di transigere le vertenze in atto ne' di inserimento del debito nella massa passiva del piano di estinzione ed entro precisi termini, si prospettano casi paradossali, come quello della chiusura del fallimento: (approvazione del piano di estinzione, ex art. 21 ultima parte, gia' preceduto dalla liquidazione) e del proseguirsi dell'azione cognitiva, con la prospettiva di cui all'ultima parte del terzo comma dell'art. 21 dell'inammissibilita' del credito nella massa passiva, quantunque questo venisse, poi, consacrato in un titolo giudiziale; titolo i cui effetti, per l'ipotesi, sarebbero totalmente vanificati; tutto cio' con conseguente venir meno dell'interesse. Tali rilievi tanto considerevoli, laddove si riannotino gli stretti tempi di operativita' fissati dal legislatore perche' i commissari individuino le masse (attiva e passiva), acquisiscano il mutuo statale ed entro i sei mesi successivi liquidino i creditori, ancor prima, cioe', della chisura del "dissesto". Sicche' anche sotto tali profili la norma appare incostituzionale, ex artt. 2, 3 e 24 della Costituzione, con riferimento agli artt. 100 e 474 del c.p.c..
P. Q. M. Dichiara non manifestamente infondata la questione di incostituzionalita' dell'art. 21 del d.-l. 18 gennaio 1993, n. 8, convertito in legge n. 68 del 19 marzo 1993, nella parte in cui assoggetta ad esecuzione collettiva una p.a. e, nel caso, un comune, per contrasto con gli artt. 2, 3, secondo comma, e 41, della Costituzione, con riferimento agli artt. 2082, 2093 del c.c., 1 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (l.f.) e 15 della legge 4 dicembre 1956, n. 1404; Dichiara non manifestamente infondata la questione di incostituzionalita' dell'art. 21 citato, nella parte in cui non prevede alcun automatismo di ammissione al passivo ne' l'obbligo, per il commissario o la commissione, di inserire il debito nella massa passiva, laddove tale debito sia riconosciuto fuori bilancio ex artt. 24 e 25 della legge n. 144/1989, nonche' 12- bis della legge n. 81/1990, per contrasto con gli artt. 2, 3, 24 e 113 della Costituzione, con riferimento agli artt. 92, 93, 95 e 96 della l.f.; Dichiara non manifestamente infondata la questione di incostituzionalita' dell'art. 21 citato, nella parte in cui prevede che "in deroga ad ogni altra disposizione, dalla data di deliberazione di dissesto i debiti insoluti non producono piu' interessi, rivalutazioni monetarie od altro ..", per violazione degli artt. 2, 3, 24 e 113 della Costituzione, in correlazione con gli artt. 1282, 1284, 1224 del c.c. e 55 della l.f., anche con riferimento all'art. 15 della legge n. 1404 del 1956; Dichiara non manifestamente infondata la questione di incostituzionalita' dell'art. 21 citato, nella parte in cui nulla prevede e non prevede la perdita della capacita' a stare in giudizio dell'ente dissestato, l'interruzione dei procedimenti cognitivi e l'indisponibilita' del patrimonio, o misure alternative di questi, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione, con riferimento agli artt. 75, 299 e 300 del c.p.c., 43 della l.f.; nonche' 8, 9 e 15 della legge 1404 del 1956; Dichiara non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' della norma laddove, pur prevedendo l'inammibbilita' alla massa passiva di crediti anteriori alla decisione del Co.Re.Co. di approvazione del piano di estinzione, nulla prevede riguardo ai procedimenti di cognizione in corso, all'efficacia dei titoli di formazione successiva (sicche' prospetta il difetto di interesse e la vanificazione del futuro comando dell'autorita' giudiziaria), per contrasto con gli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione, anche con riferimento agli artt. 100 e 474 del c.p.c.; Conseguentemente rimette alla Corte costituzionale, per la decisione, le predette questioni di legittimita' costituzionale, ai sensi dell'art. 1 della legge costituzionale del 9 febbraio 1948, n. 1; Sospende il presente procedimento, che non puo' essere definito senza risolvere prima le sollevate questioni; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla predetta Corte; Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata dal cancelliere ai Presidenti della due Camere del Parlamento. Pozzuoli, addi' 9 ottobre 1993 Il vice pretore onorario: BUONANNO 93C1217