N. 721 ORDINANZA (Atto di promovimento) 9 ottobre 1993

                                N. 721
 Ordinanza  emessa  il  9  ottobre 1993 dal pretore di Napoli, sezione
 distaccata di Pozzuoli,  nel  procedimento  civile  vertente  tra  il
 comune di Procida e Romeo Mario
 Procedure  concorsuali  -  Esecuzione collettiva nei confronti di una
 p.a.  insolvente  (nella  specie:  comune  di  Procida)   -   Mancata
 previsione  di  alcun  automatismo  di ammissione al passivo, nonche'
 dell'obbligo, per il commissario o la  commissione,  di  inserire  il
 debito  nella  massa  passiva,  laddove  tale debito sia riconosciuto
 fuori bilancio - Previsione, in deroga ad  ogni  altra  disposizione,
 che,  alla  data di deliberazione del dissesto, i debiti insoluti non
 producano piu' interessi, rivalutazioni monetarie o altro  -  Mancata
 previsione  della  perdita  della  capacita'  di  stare  in  giudizio
 dell'ente dissestato e dell'interruzione dei procedimenti cognitivi e
 dell'indisponibilita'  del  patrimonio  -  Mancanza  di   disciplina,
 riguardo  ai  procedimenti  di cognizione in corso, circa l'efficacia
 dei titoli  di  formazione  successiva  con  conseguente  difetto  di
 interesse   e   vanificazione   del  futuro  comando  dell'a.g.     -
 Ingiustificata disparita' di  trattamento  rispetto  alla  disciplina
 civilistica  con  incidenza  sui  principi di difesa in giudizio e di
 tutela giurisdizionale.
 (D.-L. 18 gennaio 1993, n. 8, art. 21, convertito in legge  19  marzo
 1993, n. 68).
 (Cost.,  artt.  2,  3, 24, 41 e 113, in relazione al c.c. artt. 1224,
 1282, 1284, 2082 e 2093, in relazione al c.p.c. artt. 75,  100,  299,
 300  e 474, in relazione al r.d. 16 marzo 1942, n. 267, artt.  1, 43,
 55, 92, 93, 95 e 96, in relazione alla  legge  4  dicembre  1956,  n.
 1404, artt. 8, 9 e 15).
(GU n.51 del 15-12-1993 )
                            IL VICE PRETORE
   Ha pronunziato, in data 9 ottobre 1993, la seguente ordinanza nella
 causa,  iscritta  nel  r.g.  a.c.  al  n.  89167/90, tra il comune di
 Procida, in persona del suo sindaco pro-tempore, domiciliato  per  la
 carica  presso  la  casa municipale dell'ente, rappresentato e difeso
 dall'avv. Giuseppe Diana, presso il quale elettivamente domicilia  in
 Napoli, alla via Girolamo Santacroce n. 19/F, giusta procura in calce
 all'atto di opposizione ed in forza della delibera di g.m. n. 471 del
 5  dicembre  1990,  opponente,  contro  Romeo  Mario, rappresentato e
 difeso dall'avv. Albenzio  Mancino,  presso  il  quale  elettivamente
 domiciliato  in Monte di Procida al corso Garibaldi 5, giusta procura
 in calce all'atto di opposizione - opposto;
    Promesso che, con  ricorso  del  13  novembre  1990,  Romeo  Mario
 chiedeva ingiungersi al comune di Monte di Procida il pagamento della
 somma  di  L.  4.281.180,  a  suo  avviso,  dovuta  per  forniture di
 materiali e merci; che tale domanda veniva accolta con decreto n. 522
 del 17 novembre 1990, notificato il 30 novembre 1990;
      che avverso detto decreto, con atto notificato  il  18  dicembre
 1990, proponeva tempestiva opposizione il comune di Monte di Procida,
 deducendo l'infondatezza della pretesa e la mancanza di prova scritta
 del  credito;  che,  riservatosi  di  provvedere, questo giudice, con
 ordinanza del 15 luglio 1993, faceva ordine alla  p.a.  convenuta  di
 fornire  una  serie  di  informative  influenti  al  decidere,  sulla
 considerazione  che  l'ente  aveva  gia'   adottato   il   piano   di
 risanamento,  ex  art.  25 della legge n. 144/1989 e che al comune di
 Monte di Procida si applicano le  disposizioni  di  cui  all'art.  21
 della  legge  n.  68/1993, di conversione del d.-l. n. 8/1993, per il
 richiamo espresso contenuto all'ottavo comma; che le chieste  inform-
 ative  miravano  a conoscere se la pretesa del Romeo - opposto - e la
 lite fossero state oggetto - come prescritto dal citato art. 21 -  di
 transazione  e  se  la  somma,  pretesa dal Romeo, fosse stata o meno
 inserita  nella  massa  passiva  del  piano  di   estinzione   ovvero
 riconosciuta  tra  i  debiti dell'ente in bilancio o tra quelli fuori
 bilancio, ai sensi degli artt. 24 della legge n. 144/1989 e  12-  bis
 della  legge  n.  80/1991; che tale richiesta (di informative) veniva
 evasa con nota dell'amministrazione, con la  quale  si  rappresentava
 che  non  vi  era  stata  trasnsazione,  che la somma pretesa non era
 inserita nella massa passiva del piano di estinzione, pur  risultando
 il  debito  inserito  tra  quelli  fuori bilancio (tale inserimento a
 seguito di deliberazione consiliare n. 48 del 21 giugno 1991);
    Rilevato che questo giudice ha gia' ritenuto influenti  una  serie
 di  questioni  di  incostituzionalita'  dell'art.  21  della legge n.
 68/1993, con le sue precedenti ordinanze del 26 maggio/3 giugno 1993,
 in Gazzetta Ufficiale, serie speciale, n.  35  del  25  agosto  1993,
 sotto i numeri 430, 433 e 434;
      che,   a   siffatte   ordinanze,   devesi  oggi  necessariamente
 richiamare,  per  gli  evidenti  argomenti  logicamente  connessi  ed
 influenti sulla presente controversia, ma non decisivi di questa;
      che  le gia' sollevate questioni di costituzionalita' sono state
 avanzate  nel  corso  di  procedimenti  esecutivi  o  di  giudizi  di
 opposizione  all'esecuzione, rimanendo incentrate sui riflessi che la
 norma (art. 21) avrebbe sui procedimenti detti, allorquando parte sia
 una pubblica amministrazione dissestata;
      che, nel presente procedimento di cognizione, l'applicazione del
 citato  art. 21 genera dubbi di costituzionalita' che ruotano intorno
 ad argomentazioni generali do fondo  simili  a  quelle  gia'  esposte
 nelle sopra richiamate ordinanze;
      che,  cio'  malgrado, anche per le ragioni che appresso verranno
 chiarite, deve riconoscersi la necessita' di investire nuovamente  la
 Corte  sotto  alcuni  parziali  diversi  profili  e  per  la  diversa
 rilevanza  che  le  questioni  medesime  potrebbero  riverberare  sul
 procedimento  di  cognizione  de  quo,  riservato  a  sentenza  dallo
 scrivente all'udienza del 20 settembre 1993;
      che, al riguardo, non  puo'  non  rilevarsi  come  la  norma  in
 questione  (art.  21),  mentre  contiene espresse previsioni relative
 alla disciplina dell'espropriazione (stroncandola,  in  favore  delle
 pp.aa.  dissestate),  invece,  e'  totalmente carente di qualsivoglia
 previsione su come debba  disciplinarsi  il  procedimento  cognitivo,
 laddove  parte sia una p.a. dissestata; che la norma non indica quali
 possano (o debbano)  essere  gli  effetti,  conseguenti  all'adozione
 della  delibera  di  dissesto, sui giudizi (di cognizione) in corso o
 riguardo al promuovimento di nuove azioni cognitive;  e  tutto  cio',
 pur  potendo  fondatamente  ipotizzarsi  - come appresso sara' meglio
 esposto - che sia stata precisa volonta' del  legislatore  quella  di
 instituire  una  sorta  di  nuova  ed  atipica procedura concorsuale,
 laddove debitrice  insolvente  sia  una  p.a.;  che  tanto  sintetica
 disciplina,   pero',   lascia   profondamente  imbarazzato  qualsiasi
 interprete; che le difficolta'  interpretative  sono  tali,  poi,  da
 poter  far  anche  dubitare  che  la scelta del legislatore sia stata
 quella   indicata   (cioe'   di   instituire   un'atipica   procedura
 concorsuale);   rilevo  di  fronte  al  quale  non  si  puo',  pero',
 parimenti, non restare perplessi, a causa delle ulteriori deprecabili
 omissioni, tutte purtroppo evidentissime.
    La  disposizione  in  esame  (art.  21),  nella  sua   complessiva
 strutturazione,   pur  introducendo  norme  sussunte  da  quelle  che
 caratterizzano   l'esecuzione   collettiva   (cioe',   le   procedure
 concorsuali  e  sia  quelle fallimentari che quelle liquidatorie), e'
 totalmente carente di quelle  tipiche  previsioni,  la  cui  presenza
 soltanto    garantirebbe    il    perseguimento   dello   scopo   del
 soddisfacimento dei crediti.
    La norma contiene: le previsioni della  delibera  dello  stato  di
 dissesto,   dell'esclusione   della  capitalizzazione  di  somme  per
 interessi ed accessori, dell'inammissibilita' delle azioni  esecutive
 individuali,  del riparto "nei limiti della massa attiva" (e non cio'
 ipotizza l'incapienza), dell'inammissibilita' di richieste di crediti
 di data anteriore all'approvazione del piano di estinzione.
    Tutte tali previsioni sono tipiche delle procedure concorsuali.
    La norma,  poi,  postula  lo  "stato  di  insolvenza"  (in  quanto
 collega,  tra  l'altro,  l'obbligo  della  relativa  dichiarazione al
 mancato pagamento dei servizi essenziali ed al mancato pagamento  dei
 debiti  riconosciuti)  e, cioe', uno stato di impotenza patrimoniale,
 tipico presupposto della  dichiarazione  di  fallimento,  non  sempre
 necessario,    pero',    nell'ipotesi    di    liquidazione   (coatta
 amministrativa) che, per gli  enti  pubblici  economici,  spesso  e',
 pero', finalizzato alla loro soppressione.
    Senonche',  si distingue dalle norme che disciplinano le procedure
 concorsuali,   perche'   non   risulta   affatto   strumentale   alla
 realizzazione  dei  crediti;  la  stessa,  cioe', non intega un mezzo
 tecnico,  apprestato   dall'ordinamento,   a   tutela   dei   crediti
 insoddisfatti.
    Le  norme  relative  alle procedure concorsuali ruotano intorno al
 principio di assicurare la par condicio creditorum,  in  affermazione
 del principio di eguaglianza, previsto anche dall'art. 2740 del c.c.;
 nelle  procedure  concorsuali  e'  l'interesse  generale  di  tutti i
 creditori che viene tutelato; con l'esecuzione collettiva si apre  un
 concorso  necessario  di  tutti  i  creditori e vengono sottoposti ad
 espropriazione "tutti" i beni del debitore, sui quali ogni  creditore
 ha  eguale  diritto  di  essere  soddisfatto; l'esecuzione collettiva
 realizza un regolamento giudiziale di tutti  i  rapporti  sulla  base
 della  par  condicio,  rendendo  incompatibile,  per tale solo motivo
 giustificatamente, l'inizio o la continuazione  di  eventuali  azioni
 (cognitive) od esecuzioni individuali nei confronti del debitore.
    Singolarmente, poi, lo stato di dissesto, ex art. 21 in esame, non
 viene  dichiarato  ad  istanza  del  creditore,  ma dalla stessa p.a.
 debitrice; il fallimento dell'imprenditore  commerciale  e',  invece,
 dichiarato  con  sentenza  e  lo  stato di insolvenza, che conduce al
 decreto di liquidazione coatta, deve essere preventivamente accertato
 dall'autorita' giudiziaria.
    La previsione, secondo cui il commissario o la commissione, di cui
 al terzo comma dell'art. 21, hanno titolo a "transigere  vertenze  in
 atto  o  pretese in corso", non assicura ai creditori alcun controllo
 sull'attivita'  di  predisposizione  della   massa   passiva;   nella
 procedura  fallimentare,  invece,  detto controllo (come quello sulla
 formazione dall'attivo), oltre a quello  del  giudice,  e'  costante;
 nella  liquidazione  e',  poi, specificamente, disciplinato dall'art.
 198 della l.f.
    La norma, inoltre, pur ipotizzando un riparto, "nei  limiti  della
 massa  attiva  disponibile"  (cosi'  prospettando  l'incapienza), non
 impone che siano liquidati "tutti i beni" del debitore.
    La norma (diversamente dagli artt. 42, 47 e 200  della  l.f.)  non
 sottrae  al  debitore  la disponibilita' e l'amministrazione dei suoi
 beni (funzione cautelare), assicurandone la consistenza (e,  ove  del
 caso,  la  produttivita',  mediante  il  conferimento  del  potere di
 conservazione, di amministrazione e di liqudiazione agli organi della
 procedura i quali, in contrario, sono chiamati ad una mera  attivita'
 di   contabilizzazione;   anzi,  in  contrario,  consente  alla  p.a.
 dissestata l'adozione di una serie di misure destiante  ad  aumentare
 le  entrate,  senza  precludere  le spese (ed almeno tutte o parte di
 quelle non necessarie).
    La norma non garantisce, in danno dei  creditori,  l'accertamento,
 con indagine giudiziale e con efficacia definitiva, della consistenza
 e  dell'entita'  della  massa passiva, nonche' dell'ammontare e della
 natura di ciascun credito: il  commissario  e  la  commissione  hanno
 infatti  titolo (pare proprio senza limiti) a "transigere vertenze in
 atto o pretese  in  corso",  come  "giudici  definitivi",  capaci  di
 esautorare  quelli  naturali, pur difettando loro l'imparzialita'; il
 tutto senza alcun potere di interferenza, sulla  loro  attivita',  da
 parte dei creditori.
    Nella  procedura  fallimentare  ed in quella liquidatoria, invece,
 v'e'    sempre    l'opposizione    contenziosa     quale     garanzia
 dell'interessato.
    La   norma   non   prevede  la  liquidazione  di  "tutti  i  beni"
 (disponibili)  attuali  e  futuri  (della  p.a.  debitrice),  per  il
 soddisfacimento dei crediti; e cio' che e' altrettanto grave, neppure
 prevede  che  i  beni  (disponibili),  in  ipotesi,  gia' "sottratti"
 vengano (o possano essere) acquisiti alla  massa  attiva,  attraverso
 procedimenti di revoca degli atti compiuti dal debitore. La norma non
 consente  ai  creditori alcun controllo in sede di riparto ed oltre a
 non  prevedere  (neppure  tanto  comprensibilmente)  qualcuno   degli
 "effetti  personali"  (che  le  norme  del  r.d.  del  1942,  invece,
 collegano,  in  danno  del  debitore  o  degli  amministratori,  alla
 dichiarazione   di  fallimento  o  all'accertamento  dello  stato  di
 insolvenza, nel caso dell'art. 203 l.f.), non  prospetta  (qui  certo
 irrazionalmente)  la  perseguibilita' (anche penale) dei responsabili
 della p.a. dissestata,  ne'  prevede  che,  dalla  dichiarazione  del
 dissesto, si produca qualcuno di quegli "effetti patrimoniali" che le
 norme  concorsuali  prescrivono,  invece,  e  come e' ovvio, in danno
 dell'imprenditorefallito; non collega alla p.a. dissestata la perdita
 della capacita' di stare in giudizio (come appresso meglio si dira');
 non  detta  previsioni  sul  recupero  dei   crediti;   non   obbliga
 all'inventario;   non   prevede   quali   siano   gli  effetti  della
 dichiarazione di disseso sui rapporti giuridici pendenti, sui  negozi
 giuridici  (specie  quelli  onerosi)  in  corso  di  svolgimento, sui
 contratti  di  conto  corrente,  di   locazione,   di   appalto,   di
 assicurazione   etc.;   e'   carente   delle   previsioni   circa  la
 partecipazione dei creditori alla formazione del piano di riparto  ed
 alle   azioni   revocatorie;   non   disciplina  la  possibilita'  di
 "riapertura"  della  liquidazione;   non   disciplina   il   rapporto
 inadempimento  (che  ipotizza)  e  risoluzione  contrattuale (che non
 esclude).
    Da siffatti ragionamenti, allora, non puo' che derivare il rilievo
 secondo cui la singolare procedura, disciplinata dall'art. 21, non e'
 assimilabile affatto ad una procedura concorsuale, difettando  com'e'
 delle caratteristiche e della logica principali di questa e che, come
 strutturata, quindi, non costituisce una forma di tutela del ceditore
 giuridicamente apprezzabile.
    A  siffatta procedura, dunque, per le ragioni espresse, difetta il
 principale requisito dello  scopo  di  essere  "nell'interesse  della
 generalita' dei creditori".
    Con  la disposizione di cui all'art. 21 citato, che non istituisce
 una procedura concorsuale in danno della p.a. e neppure una qualsiasi
 altra procedura in grado di garantire il soddisfacimento dei  crediti
 (assicurando  la  par condicio, e meno che mai un apprezzabile tutela
 del creditore), risulta dunque accordata alla p.a.  un'indiscriminata
 ed  illogica  forma di tutela, che non tiene conto di tutte le regole
 citate e che, ingiustificatamente, in danno dei  creditori,  comprime
 il  diritto (oltre a sopprimere i mezzi di esecuzione); e tutto cio',
 pur prevedendo la norma e singolarmente che, proprio a seguito  della
 deliberazione  di  dissesto,  la p.a. interessata viene autorizzata a
 continuare ad esigere, con i suoi stessi immutati poteri  coercitivi,
 i  tributi  oltre che i canoni e le tariffe ed ad elevare le relative
 aliquote sino al tetto massimo di legge in danno della collettivita';
 cosa che appare tanto piu' grave, laddove si rifletta  sull'ulteriore
 dato  che,  mentre  trale  elevazione  delle  aliquote e' destinata a
 protrarsi, secondo le previsioni della  norma,  anche  per  il  tempo
 successivo  al  riparto (cioe' per il periodo successivo alla chisura
 della  liquidazione),  le  maggiori  entrate  non  risultano  affatto
 destinate  al  soddisfacimento  dei  crediti  (e dire che le maggiori
 entrate - per effetto dell'elevazione  delle  aliquote  dei  tributi,
 tariffe  e  canoni,  ai livelli massimi - sono un indiscutibile danno
 per la collettivita' e, come e' facile comprendere, spesso,  per  gli
 stessi soggetti creditori).
    Tutti  siffatti rilievi impongono, dunque, di controllare la norma
 sotto quei profili di rilevanza costituzionale che  conseguono  dalla
 complessiva impostazione data, per la rivoluzionarieta' del contenuto
 e dello scopo della norma.
    Sicche' si osserva:
       a) se la procedura, istituita dall'art. 21, non e' assimilabile
 ad  una  procedura  concorsuale,  la  norma  si  presenta  di  dubbia
 costituzionalita',  laddove   esclude   la   capitalizzazione   degli
 interessi  e  degli  accessori  dei  crediti  (cioe', laddove prevede
 l'interruzione del decorso dei termini);
       b) in contrario, l'assimilabilita' genera dubbi: 1) vuoi per la
 mancata previsione della perdita della capacita' ad  agire,  2)  vuoi
 per la mancata previsione dell'interruzione del processo cognitivo.
    E quale che sia l'impostazione (sub a o b), sorgono comunque forti
 dubbi  di  costituzionalita' sui poteri di transazione, conferiti dal
 legislatore,  al  commissario  o  ai  commissari  liquidatori,  sulla
 mancata  previsione dell'obbligo di questi di inserire i debiti nella
 massa passiva ed infine sulla mancata previsione di azioni, in favore
 dei creditori, affinche' i loro crediti siano  inseriti  nella  massa
 passiva detta.
            Primo profilo di sospetta incostituzionalita'
    Non  si  e'  mai sospettato (anzi e' stato sempre escluso) che una
 p.a. potesse, pur trovandosi in uno  stato  di  definitiva  impotenza
 patrimoniale  ad  adempiere integralmente ed immeditamente le proprie
 obbligazioni, essere soggetta ad una esecuzione  collettiva  e,  meno
 che mai, ad una procedura di tipo concorsuale.
    La  ratio  di  tale  principio  si  collega  alla  logica  che, se
 l'inadempienza  e'  un  fatto  illecito,  che  lede  l'interesse  del
 creditore insoddisfatto, non e' tollerabile che una p.a. possa essere
 protagonista  del fatto illecito detto, visto che la stessa (p.a.) e,
 poi, preposta istituzionalmente ad evitare che vengano commessi fatti
 illeciti e, quindi, a garantire che non vengano commessi tali fatti.
    Storiche  ragioni,  sempre  condivise,  tollerano  il   definitivo
 inadempimento solo nei confronti dell'imprenditore.
    Ben  vero,  l'art. 2093 del c.c. prevede che l'impresa possa anche
 essere esercitata da enti pubblici.
    E' da escludere, pero', che enti, come le province, i comuni e  lo
 Stato,   possano   mai   acquistare   la   qualita'  di  imprenditori
 (commerciali);  tale  qualita'  puo'  essere  solo  dei  cc.dd.  enti
 pubblici economici.
    L'"esercizio"  (per  comuni,  province,  etc)  e',  infatti,  solo
 un'attivita' accessoria, rispetto a quella principale da essi svolta,
 inerente  al  fine  istituzionale  pubblico  che  perseguono;  ed  e'
 giustificato   dall'esigenza  di  assicurare  alla  collettivita'  la
 prestazione di servizi di sostanziale importanza per  l'economia  del
 paese  o  anche  dall'opportunita'  di assicurarsene il profitto che,
 scevro dal  rischio  economico  (inerente  ad  ogni  impresa  per  il
 carattere di monopolio con cui e' effettuato), costituisce un gettito
 patrimoniale certo, da detti enti utilizzato per il conseguimento dei
 loro fini generali.
    Lo  Stato (al pari di un ente locale) infatti, allorche' esercita,
 se cosi' si puo' dire, un'impresa non assume veste  di  imprenditore,
 che contrasterebbe con la sua indole.
    Ben diverso e', invece, il caso dei cc.dd. enti pubblici economici
 (autonomi), per i quali l'impresa costituisce l'oggetto esclusivo e/o
 preminente  della  loro  attivita';  detta  attivita',  pur mirata al
 perseguimento di un interesse  collettivo,  costituisce  di  per  se'
 l'oggetto immediato che ne giustifica l'esistenza giuridica. Per tali
 enti pubblici soltanto si prospetta, dunque, l'assoggettabilita' alla
 procedura della liquidazione coatta.
    La  norma  (art.  21)  in  esame,  allora,  collide  con i cennati
 principi e con quelli espressi sul tema in numerose  decisioni  dalla
 Corte costituzionale (tra cui, sentenza n. 138/1987), sottrae la p.a.
 dalla  posizione istituzionale di garante ed assimila (rectius: tenta
 di assimilare) addirittura l'attivita' della stessa a  quella  di  un
 soggetto - imprenditore privato debitore; cio' ingiustificatamente e,
 per  giunta, con una serie di privilegi, per la p.a., che non trovano
 giustificazione (alcuni di tali privilegi gia' sopra  evidenziati)  e
 tutti  sempre  censurati dalla stessa Corte costituzionale (rivedi la
 sentenza n. 138/1987) e dal supremo collegio  (tra  le  tante,  cass.
 s.u.  18  dicembre  1987, n. 9407; cass. s.u. 9 marzo 1981, n. 1299);
 censure  che   l'esame   della   norma   (art.   21)   fa   apparire,
 paradossalmente,  proprio  come le originarie fonti del contrasto tra
 p.a.  (agente  jure  privatorum  e  come   tale   assoggettabile   ad
 espropriazione) e privato.
    Dall'elaborazione  ed  approfondimento  delle  censure dette, poi,
 pare   proprio   che   sia   derivata    l'inevitabile    conseguenza
 dell'ipotizzabilita'del  fallimento  anche di una p.a., al pari di un
 privato debitore.
    Non v'e', pero', dubbio alcuno  che,  nascosto  dietro  la  stessa
 (apparente)  logica  di  supporto  delle  note  decisioni della Corte
 costituzionale e del s.c. (quelle citate), ma travisandone il senso e
 fuorviandone  totalmente  gli  scopi,  il  legislatore  abbia  voluto
 riprodurre le superate questioni sull'assoggettabilita' ad esecuzione
 forzata  della  p.a.  e  sulla  giurisdizione,  nel tentativo iniquo,
 pero', di favorire la stessa p.a. che, di certo,  pur  operando  come
 soggeto   di   diritto  privato  a  questo  non  sarebbe  piu'  certo
 equiparabile, per l'evidente favore accordatole.
   Ripugna, peraltro, alla coscienza giuridica  l'idea  che  una  p.a.
 possa "dissestare" (rectius: fallire o liquidare) in senso stretto.
    A  siffatte  considerazioni,  aggiungasi  che  il continuo gettito
 patrimoniale, in favore della p.a., costituito  dall'esercizio  delle
 sue  attivita' e dalle entrate tributarie esclude, d'altro canto, che
 possa mai rinvenirsi il c.d. stato di insolvenza (definitivo), tipico
 presupposto delle procedure concorsuali.
    I poteri di coercizione, che la p.a. dissestata puo'  contuare  ad
 esercitare per il recupero delle entrate (anche tributarie), sono del
 tutto  inconciliabili  con  il  rilievo  di  uno  stato  di decozione
 patrimoniale, emergendo l'illogicita' della previsione e visto che la
 stessa non potrebbe che giustificarsi se non  come  atto  impositivo,
 senza ristoro e, come tale, illegittimo anche sotto tale profilo.
    Per tali ragioni, riguardo alla verifica dell'assoggettabilita' ad
 un'esecuzione  collettiva  di una p.a., si puo' fondatamente dubitare
 che  la  norma  violi  gli  artt.  2  e  3,  secondo   comma,   della
 Costituzione,  attinenti  le  garanzie  e  l'obbligo  di rimozione di
 ostacoli,   nonche'   l'art.   41,   attinente   il    riconoscimento
 dell'iniziativa economica, programma, indirizzo e coordinamento della
 iniziativa economica detta, anche con riferimento agli artt. 2082 del
 c.c.,  1  del  r.d.   16 marzo 1942, n. 267 (l.f.) e 15 della legge 4
 dicembre 1956, n.  1404.
             Secondo profilo di sospetta incostituzionalita'
    La disciplina della procedura di liquidazione in questione risulta
 succintamente dettata dal legislatore al  terzo  comma  dell'art.  21
 citato.
    L'esame di tale disposizione consente di rilevare:
      1) il difetto assoluto di qualsivoglia previsione in ordine alla
 disciplina  del  procedimento  di  cognizione  ordinario, allorquando
 questo sia gia' pendente nei confronti di una p.a. dissestata  ovvero
 quando debba intraprendersi un siffatto procedimento ad istanza della
 p.a. detta o contro questa;
      2)  la  chiara  prefissione di termini, a decorrere dai quali ed
 entro e non oltre i quali il piano di estinzione deve essere  portato
 a  compimento;  nonche' di termini entro e non oltre i quali i debiti
 devono essere liquidati (seppure anche proporzionalmente);
      3)  l'attribuzione,   al   commissario   o   alla   commissione,
 dell'esclusivo  "titolo  a  transigere  vertenze in atto o pretese in
 corso"  (tale  estesa  dizione,  peraltro,  lascia  supporre  che  il
 legislatore  siasi  voluto  riferire  certamente alla possibilita' di
 transazione di vertenze giudiziarie, ma molto probabilmente anche  di
 pretese stragiudiziali; con una serie di comprensibili preoccupazioni
 che derivano da tale considerazione, tutte evidentissime);
      4)  la  chiara  esclusione  della  capitalizzazione  delle somme
 accessorie al credito, per il tempo successivo  all'assunzione  della
 delibera di dissesto.
    Orbene,  riferito  in genere che la prefissione dei citati termini
 ristretti avrebbe potuto indurre il legislatore a fissarne altri  ben
 specifici  (e magari altrettanto ristretti) entro e non oltre i quali
 i commissari  dovrebbero  essere  tenuti  alle  transazioni  ed  alla
 formazione  della  massa  passiva  (e  cio'  anche  per  i  logici  e
 molteplici riflessi che siffatte  evenienze  potrebbero  avere  sulle
 cause   in   corso  ed  in  ordine  alla  verifica,  in  particolare,
 dell'utilita' di preoseguirle),  rimarca  piu'  considerevolmente  il
 difetto  della  norma,  in  tutti  quei  casi, come quello di specie,
 laddove il debito  dell'ente  risulti  gia'  consacrato  in  un  atto
 deliberativo,  adottato  ai  sensi degli artt. 24 e 25 della legge n.
 144/1989,  e  con  il  quale  atto  l'ente  ha  gia'   proceduto   al
 riconoscimento   del   debito   stesso   (sull'efficacia   del  detto
 riconoscimento e sull'applicabilita' dell'art. 1988  del  c.c.  anche
 agli  atti  alla p.a., cfr. cass. 12 gennaio 1981, n. 263); e rimarca
 anche laddove il  debito  sia  consacrato  in  un  titolo  con  fonte
 giudiziale (v. art. 12- bis della legge n. 80/1991).
    In   tali  evenienze,  infatti,  non  essendo  dubitabile  affatto
 l'ammissibilita' dei debiti nella massa pasiva, non si  comprende  la
 logica    di    deferimento    ai    commissari   della   valutazione
 sull'ammissibilita'detta alla massa,  previe  transazioni  (di  cosa,
 peraltro, non e' dato comprendere).
     A)  Sicche'  e'  sospetta  di  incostituzionalita'  la norma, sia
 laddove demanda ai commissari l'ammissione dei  debiti  nella  massa,
 senza  tenere  conto  di  quei  debiti consacrati in titoli con fonte
 giudiziale o gia' riconosciuti dall'ente, sia laddove  conferisce  ai
 commissari il potere - senza limiti - di transigere pretese in atto e
 vertenze  in  corso  (per  la  stretta  colleganza  che  v'e'  tra le
 transazioni dette e la massa passiva in formazione,  nonche'  tra  le
 stesse  transazioni  e  le pendenze giudiziarie), sia infine, laddove
 non prevede alcun automatismo di ammissione alla massa per  i  debiti
 delle categorie enunciate.
    Tutto  cio', dunque, traduce una ulteriore chiara compressione dei
 diritti dei ceditori, diritti che la norma, peraltro,  illogicamente,
 comprime  (ed  espressamente)  sia riguardo alle azioni esecutive che
 agli accessori del credito, escludendo,  infatti,  che  siano  dovuti
 interessi  e  svalutazione per il tempo successivo all'adozione della
 delibera di dissesto.
    Tali previsioni, poi, rese tanto sinteticamente da manifestare una
 serie  di  incogruenze  e  di   lacune   che,   di   certo,   rendono
 difficilissimo  il  compito  di un qualsiasi interprete, peraltro non
 apparendo condivisibile  sul  punto  -  ed  ammesso  pure  che  possa
 concedersi  che  una  p.a.  possa  fallire  -  la scelta omissiva del
 legislatore di  qualsivoglia  previsione  normativa  di  influenza  o
 interferenza   della   procedura   del  "dissesto"  sul  procedimento
 cognitivo; omissione di effetto tale da coinvolgere  l'interprete  di
 fronte  ad  ogni  fenomeno - ostacolo processuale che, per avventura,
 dovesse pararsi innanzi.
    Sicche' onesta' intellettuale impone allo scrivente  di  segnalare
 alla  Corte  che,  con  la presente ordinanza, non si sono potuti che
 adombrare quei pochi e soli  sospetti  di  incostituzionalita'  della
 norma   su  quelle  poche  questioni  rilevanti  (e  rilevate)  nella
 fattispecie de qua, certi che un piu' approfondito esame  ne  avrebbe
 fatto  scorgere  di  piu' numerose e che, in altre fattispecie, altre
 evidenti di sicuro emergeranno.
     B) E'  chiaramente  sospetta  di  incostituzionalita'  la  norma,
 laddove   esclude   la   capitalizzazione  degli  interessi  e  della
 rivalutazione,  per  il  tempo  successivo  alla  deliberazione   del
 dissesto.
    Tale esclusione, nelle procedure concorsuali (art. 55 della l.f.),
 si  giustifica  poiche'  mira  a "congelare" il debito, nell'interese
 degli stessi creditori, ai quali e' cosi' assicurato  un  trattamento
 paritario.
    I  rilievi  sulle  difficolta'  di  assimilazione  della procedura
 liquidatoria de  qua  ad  una  concorsuale  e,  piu'  ancora,  ma  in
 sostanza,  la  constatazione  che siffatta procedura non mira affatto
 alla tutela dei creditori, forse solo sopperendo  (ma  anche  percio'
 solo  illegittimamente) urgenze economiche della p.a., fanno emergere
 la perfetta inutilita' del congelamento dei crediti; al riguardo,  si
 riannota che la norma non prospetta un sicuro e pieno soddisfacimento
 dei crediti e neppure (cosa piu' grave) la parita' di trattamento tra
 i creditori.
    In effetti, la cristallizzazione del patrimonio del fallito, nella
 situazione   in  cui  trovarsi  alla  data  della  dichiarazione  del
 fallimento, e sia quanto all'attivo che  al  passivo,  sopperisce  la
 necessita'  di  evitare  che  qualche  creditore  piu'  pronto  possa
 soddisfarsi integralmente (in danno degli altri creditori) o  che  lo
 stesso  fallito  possa  disporre dell'attivo (o di parte di questo) a
 vantaggio solo di qualche creditore (ed in danno degli altri).
    Tali  rilievi  rendono  comprensibile  anche  la   perdita   della
 capacita'  del  fallito  a  stare  in  giudizio  (proprio  al fine di
 evitargli di compromettere l'attivo).
    E'  la  cristallizzazione:   (indisponibilita'),   dunque,   della
 situazione  patrimoniale del debitore e (a decorrere dalla data della
 sentenza dichiarativa del fallimento) che giustifica -  nelle  proce-
 dure concorsuali - la scadenza di tutti i debiti pecuniari dovuti dal
 fallimento;  con  l'effetto  - come detto - che cio' solo giustifica,
 l'interruzione del decorso degli interessi (legali o convenzionali) e
 degli altri accessori.
    In contrario, la mancata evidente finalizzazione  della  procedura
 liquidatoria  de qua al soddisfacimento delle ragioni dei creditori e
 la mancata previsione  dell'indisponibilita'  del  patrimonio  (della
 p.a.  dissestata) rende totalmente illegittima la relativa previsione
 (dell'interruzione del decorso  degli  interessi,  e  sia  di  quelli
 convenzionali,  che di quelli compensativi e moratori), presupponendo
 imprescindibilmente,   l'indisponibilita'   del   patrimonio    (piu'
 chiaramente:  la  mancanza  di  una volonta' in grado di adempiere e,
 cioe', l'impossibilita' di adempiere).
    La s.c. ha piu' volte (ma ovviamente con riferimento ai soli  enti
 pubblici economici) espresso il principio secondo cui "il corso degli
 interessi, con riguardo a credito pecuniario nei confronti di un ente
 pubblico,  non  resta  sospeso dalla data della messa in liquidazione
 dell'ente (ad es. ex lege 4  dicembre  1956,  n.  1404),  laddove  la
 liquidazione  sia  per ragioni diverse dall'impotenza patrimoniale ad
 adempire, salvo a decretare - per i  casi  detti  -  la  liquidazione
 cotatta  amministrativa"  (cass.  24 gennaio 1986, n. 465; 5 febbraio
 1985, n. 772; 7 luglio 1986, n. 4439, tra le tante).
    Sicche'  non  e'  proprio  da  porre  in  dubbio   la   fondatezza
 dell'esigenza avverita e sottolinata (anche dalla s.c.) secondo cui o
 si  ammette (come e' difficile credere che possa farsi) nei confronti
 della p.a.  (Stato  ed  enti  locali),  la  liquidazione  concorsuale
 tipica, con tutte le conseguenze che ne derivano: (cioe' tutte quelle
 tipiche  previste  dalla  l.f.,  ed  almeno  quelle  necessarie a non
 snaturare del tutto la procedura liquidatoria), ovvero deve ritenersi
 che ogni altro tipo di procedura, costituente un tertium  genus,  pur
 ruotando  intorno  a  ragioni diverse dallo stato di insolvenza e pur
 potendo non mirare a  soddisfare  i  diritti  dei  creditori  (ed  ad
 assicurare  a  questi  una  parita'  di trattamento), non possa certo
 comprimerli del tutto, cioe' escluderli.
    Tutto cio', salvo a potere escludersi,  auspicabilmente  (ma  come
 parte certo, pero', non si possa fare) che non si e' di fronte ad una
 procedura  concorsuale e che, quindi, l'ultima parte del terzo comma,
 dell'art. 21 in esame, non voglia affatto significare "estinzione dei
 diritti di credito"  (compresi  quelli  eventualmente  residuati  dal
 riparto  proporzionale  della  massa attiva, per l'ipotesi, cioe', di
 incapienza della liquidazione); e cioe' salvo che la norma  in  esame
 (art.  21,  terzo  comma), nell'ultima parte, sancisca solo la regola
 imputet  sibi,  quando  il  creditore  non siasi attivato e non abbia
 avanzato la richiesta di credito affinche' questo  sia  inserito  nel
 piano di estinzione; sicche' in tale ipotesi, i crediti insoddisfatti
 dal  riparto  e  quelli non inclusi nella massa passivo lo potrebbero
 essere, per intendersi, una volta tornata in bonis la p.a dissestata.
   Tale  conclusione,  infatti,  escludendo  l'assimilabilita'   della
 procedura  ex  art.  21  ad una concorsuale, eluderebbe i sospetti di
 incostituzionalita' cui sopra ci si e' riferiti, siffatta conclusione
 neppure si presenta peregrina.
    In  effetti,  i  particolari  ristretti  termini   accordati   dal
 legislatore,  al  commissario o ai commissari, per la predisposizione
 del piano di estinzione, potrebbero pure indurre a  pensare  (seppure
 con   discutibili   forzature   interpretative)  che  il  legislatore
 (dell'art.  21)  abbia   voluto   imporre   l'attivita'   di   questi
 (commissari)  mirata  ad  una rapida, ma sommaria, ricognizione della
 massa passiva ed ad una pronta  liquidazione  (sia  pure  nei  limiti
 della  massa  attiva)  dei  crediti,  per  impedire un aggravio della
 situazione  finanziaria,  con  l'adozione  delle  misure   economiche
 previste  dalle  leggi  nn.  144/1989  e  68/1993  e  dei contestuali
 preovvedimenti di riequilibrio.
    Tali rilievi potrebbero, come detto, anche avere una loro valenza,
 specie laddove ci si rifiutasse di ipotizzare che i crediti, in corso
 di accertamento giudiziale e non transatti  dai  commissari,  possano
 rimanere  insoddisfatti,  sol  perche'  "anteriori  alla  data  della
 decisione" del Co.Re.Co. di approvazione  del  rendiconto  finale  di
 gestione (vedi l'ultima parte del terzo comma dell'art. 21).
    Sicche'  tali  ultime  considerazioni  ed  il  rilievo che la p.a.
 dissesta  e'  tenuta  alla  previsione  di  "un'ipotesi  di  bilancio
 stabilmente   riequilibrato"  (art.  21,  quarto  comma),  potrebbero
 confermare la tesi del "ritono in  bonis"  della  p.a.,  evitando  di
 sospettare: a) che il commissario o i commissari possano assurgere al
 ruolo di "giudici" definitivi (in positivo ed in negativo); b) che la
 procedura  liquidatoria  possa  protrarsi  per piu' tempo: (i crediti
 vanno liquidati entro il termine di sei  mesi  dell'acquisizione  del
 mutuo   e   questa  puo'  avvenire  in  un  termine  anche  anteriore
 all'approvazione del piano di estinzione da parte del Ministero);  c)
 che  la p.a. dissestata, infine, possa permanere in stato di dissesto
 sine die, con il conseguente  protrarsi  delle  misure  economiche  e
 finanziarie, imposte dall'art. 25, in danno della collettivita'.
    Sul punto e', pero', sempre necessario l'intervento interpretativo
 della  Corte  adita,  tale da escludere l'ipotizzabilita' dei vizi di
 costituzionalita' e di apprestare all'interprete un adeguato e sicuro
 canone ermeneutico, conforme ai principi del dettato costituzionale.
     Terzo profilo (subordinato) di sospetta incostituzionalita'
    Diverse interpretazioni (quelle che,  come  gia'  osservato,  alla
 luce  della  norma,  invece,  appaiono  piu'  attendibili) inducono a
 risottolineare i  sospetti  di  incostituzionalita'  ed  a  ritenere,
 peraltro,  che la norma, pur sussumendo alcune di quelle disposizioni
 tipiche delle procedure concorsuali, non prevede,  irrazionalmente  e
 con  evidente  disparita'  di trattamento, la perdita della capacita'
 processuale della p.a. fallita e la  necessita'  di  interrompere  il
 processo.
    Laddove,  infatti,  la  norma  dovesse  resistere  di  fronte alle
 principali censure di incostituzionalita'  (:  quelle  sopra  mosse),
 balzano sospetti ulteriori che impongono le seguenti riflessioni.
    Perdita  della  capacita' del fallito ed interruzione del processo
 sono principi piu' che recepiti (cfr. Cass. 9 febbraio 1987, n. 1374,
 tra le tante) che si muovono logicamente nell'orbita delle  procedure
 concorsuali,  in  quanto  sono ispirati agli scopi della liquidazione
 del patrimonio del fallito,  di  coltivazione  dell'unica  esecuzione
 collettiva e di assicurare la par condicio, rendendo indisponibile il
 patrimonio del fallito stesso.
    Siffatti  principi  eludono  il pericolo di azioni individuali dei
 creditori (sulla questione, cfr. Cass. 4 marzo  1988,  n.  2285,  che
 ammette la proponibilita' e la proseguibilita' delle azioni cognitive
 nei  confronti  di  enti  pubblici economici, solo laddove, pero', la
 liquidazione si giustifichi non per lo stato di insolvenza  e  salvo,
 cioe',  che  "si  apra  la  liquidazione"  in  presenza di situazioni
 deficitarie).
    Sicche' e' ovvio che, per l'ipotesi  di  ritenuta  assimilabilita'
 della  procedura  de qua ad una tipica, la norma si presenta sospetta
 di costituzionalita', con riferimento agli artt.  2,  3  e  24  della
 Costituzione,  75, 299 e 300 del c.p.c., nonche' 43 della l.f. e 8, 9
 e 15 della legge n. 1404 del 1956, tanto essendo ovvia la  fondatezza
 dei sospetti di fronte alle riscontrate lacune.
    La  rilevanza  delle  questioni,  nella fattispecie de qua, emerge
 sotto entrambi i delineati profili, visto che l'opposizione, da parte
 del comune di Monte di Procida, e' stata prodotta dopo l'approvazione
 del piano di risanamento ( ex  art.  25  della  legge  n.  144/1989),
 mentre  solo  nelle  more del processo e' intervenuto l'art. 21 della
 legge n. 68/1993.
       Quarto profilo subordinato di sospetta incostituzionalita'
    Irrazionalmente, come detto, non essendovi alcun  obbligo,  per  i
 commissari  di  transigere le vertenze in atto ne' di inserimento del
 debito nella massa passiva del piano di estinzione ed  entro  precisi
 termini,  si prospettano casi paradossali, come quello della chiusura
 del fallimento: (approvazione del piano di  estinzione,  ex  art.  21
 ultima  parte,  gia'  preceduto dalla liquidazione) e del proseguirsi
 dell'azione cognitiva, con la prospettiva di cui all'ultima parte del
 terzo comma dell'art.  21  dell'inammissibilita'  del  credito  nella
 massa  passiva,  quantunque  questo  venisse,  poi,  consacrato in un
 titolo giudiziale; titolo i cui  effetti,  per  l'ipotesi,  sarebbero
 totalmente   vanificati;   tutto  cio'  con  conseguente  venir  meno
 dell'interesse.
    Tali  rilievi  tanto  considerevoli,  laddove  si  riannotino  gli
 stretti  tempi  di  operativita'  fissati  dal  legislatore perche' i
 commissari individuino le masse (attiva e passiva),  acquisiscano  il
 mutuo  statale  ed entro i sei mesi successivi liquidino i creditori,
 ancor prima, cioe', della chisura del "dissesto".
    Sicche' anche sotto tali profili la norma appare incostituzionale,
 ex artt. 2, 3 e 24 della Costituzione, con riferimento agli artt. 100
 e 474 del c.p.c..
                               P. Q. M.
    Dichiara   non   manifestamente   infondata   la   questione    di
 incostituzionalita'  dell'art.  21  del  d.-l. 18 gennaio 1993, n. 8,
 convertito in legge n. 68 del 19  marzo  1993,  nella  parte  in  cui
 assoggetta  ad esecuzione collettiva una p.a. e, nel caso, un comune,
 per  contrasto  con  gli  artt.  2,  3,  secondo  comma,  e 41, della
 Costituzione, con riferimento agli artt. 2082, 2093 del c.c.,  1  del
 r.d.  16  marzo 1942, n. 267 (l.f.) e 15 della legge 4 dicembre 1956,
 n. 1404;
    Dichiara   non   manifestamente   infondata   la   questione    di
 incostituzionalita'  dell'art.  21  citato,  nella  parte  in cui non
 prevede alcun automatismo di ammissione al passivo ne' l'obbligo, per
 il commissario o la commissione, di inserire il  debito  nella  massa
 passiva, laddove tale debito sia riconosciuto fuori bilancio ex artt.
 24  e  25  della  legge  n.  144/1989, nonche' 12- bis della legge n.
 81/1990,  per  contrasto  con  gli  artt.  2,  3,  24  e  113   della
 Costituzione, con riferimento agli artt. 92, 93, 95 e 96 della l.f.;
    Dichiara    non   manifestamente   infondata   la   questione   di
 incostituzionalita' dell'art. 21 citato, nella parte in  cui  prevede
 che   "in   deroga   ad   ogni  altra  disposizione,  dalla  data  di
 deliberazione di  dissesto  i  debiti  insoluti  non  producono  piu'
 interessi, rivalutazioni monetarie od altro ..", per violazione degli
 artt.  2,  3,  24  e  113 della Costituzione, in correlazione con gli
 artt.  1282,  1284,  1224  del  c.c.  e  55  della  l.f.,  anche  con
 riferimento all'art. 15 della legge n. 1404 del 1956;
    Dichiara    non   manifestamente   infondata   la   questione   di
 incostituzionalita' dell'art. 21 citato, nella  parte  in  cui  nulla
 prevede  e non prevede la perdita della capacita' a stare in giudizio
 dell'ente dissestato, l'interruzione  dei  procedimenti  cognitivi  e
 l'indisponibilita'  del  patrimonio,  o misure alternative di questi,
 per contrasto con gli  artt.  2,  3  e  24  della  Costituzione,  con
 riferimento  agli  artt.  75,  299  e  300 del c.p.c., 43 della l.f.;
 nonche' 8, 9 e 15 della legge 1404 del 1956;
    Dichiara   non   manifestamente   infondata   la   questione    di
 costituzionalita'     della    norma    laddove,    pur    prevedendo
 l'inammibbilita'  alla  massa  passiva  di  crediti  anteriori   alla
 decisione  del  Co.Re.Co.  di  approvazione  del piano di estinzione,
 nulla prevede  riguardo  ai  procedimenti  di  cognizione  in  corso,
 all'efficacia  dei titoli di formazione successiva (sicche' prospetta
 il difetto  di  interesse  e  la  vanificazione  del  futuro  comando
 dell'autorita'  giudiziaria),  per  contrasto con gli artt. 2, 3 e 24
 della Costituzione, anche con riferimento agli artt. 100  e  474  del
 c.p.c.;
    Conseguentemente   rimette   alla  Corte  costituzionale,  per  la
 decisione, le predette questioni di legittimita'  costituzionale,  ai
 sensi  dell'art. 1 della legge costituzionale del 9 febbraio 1948, n.
 1;
    Sospende il presente procedimento, che non  puo'  essere  definito
 senza risolvere prima le sollevate questioni;
    Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla predetta Corte;
    Ordina  che,  a  cura della cancelleria, la presente ordinanza sia
 notificata alle parti in causa ed al  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri  e comunicata dal cancelliere ai Presidenti della due Camere
 del Parlamento.
      Pozzuoli, addi' 9 ottobre 1993
                  Il vice pretore onorario: BUONANNO

 93C1217