N. 722 ORDINANZA (Atto di promovimento) 20 maggio - 16 novembre 1993
N. 722 Ordinanza emessa il 20 maggio 1993 (pervenuta alla Corte costituzionale il 16 novembre 1993) dalla Corte di cassazione sul ricorso proposto da Pregnolato Alberto Ordinamento penitenziario - Divieto di concessione di benefici per gli appartenenti alla criminalita' organizzata o per i condannati per determinati delitti - Ammissibilita' ai benefici solo in caso di collaborazione con la giustizia - Prospettata violazione del principio di irretroattivita' delle norme penali sfavorevoli con incidenza sulla funzione rieducativa della pena, e sul diritto di difesa - Irragionevole disparita' di trattamento fra soggetti aventi lo stesso status (condannati per gravi reati) ma differenziati tra loro unicamente in ragione del titolo del reato per il quale hanno subito la condanna. (D.-L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 15, primo comma, lett. a), convertito in legge 7 agosto 1992, n. 356). (Cost., artt. 3, 24, 25 e 27).(GU n.51 del 15-12-1993 )
LA CORTE DI CASSAZIONE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto da Pregnolato Alberto, nato a Ferrara il 21 aprile 1931, avverso la ordinanza del tribunale di sorveglianza di Bologna del 23 gennaio 1993; Sentita la relazione fatta dal consigliere Paolino Dell'anno; Lette le conclusiopni del p.g. che ha chiesto il rigetto del ricorso; PREMESSO IN FATTO Pregnolato Alberto, detenuto nella casa di reclusione per minorati fisici di Parma in espiazione della pena complessiva di anni ventitre, mesi nove e giorni ventinove di reclusione, come determinata con provvedimento di cumulo, fece istanza di ammissione al regime di semiliberta' che venne rigettata, con ordinanza del 23 gennaio 1993, dal tribunale di sorveglianza di Bologna, che rilevo' che, essendo stato il soggetto condannato, tra l'altro, per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione (fatto commesso nel febbraio del 1978), ostava alla concessione del beneficio la mancata collaborazione dell'istante con la giustizia, come da informazioni comunicate dal competente comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica. Avverso il provvedimento l'interessato ha interposto ricorso con il quale denuncia la illogicita' della motivazione e prospetta dubbi circa la legittimita' costituzionale dell'art. 15 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, che fa divieto della concessione dei benefici previsti dalla legge 26 luglio 1975, n. 354, sull'ordinamento penitenziario ai condannati per taluni deletti tra i quali quello di cui all'art. 630 del c.p. O S S E R V A Va preliminarmente premesso che la questione dedotta e' di indubbia rilevanza ai fini della decisione sulla impugnazione, essendo l'ordinanza gravata, da essa fondata esclusivamente sulla sussistenza a carico del ricorrente del requisito negativo per l'ammissione alla misura alternativa introdotto dalla regola contenuta nel decreto-legge sopra citato, derivandone che questa corte dovrebbe dichiarare la manifesta infondatezza della impugnazione stessa attesa l'inequivocabile formulazione della prescrizione normativa che impedisce la concessione dei benefici previsti dall'ordinamento penitenziario a coloro che si trovino nella condizione personale in esso descritta. Ritiene il collegio di dovere condividere le perplessita' manifestate gia' da diversi giudici del merito sulla conformita' del precetto del legislatore ordinario rispetto ai principi dettati dalla Costituzione, che questa corte individua in quelli contenuti negli artt. 3, 24, 25 e 27. Prima di fornire ragione del perche' dei dubbi sulla legittimita' della norma in questione, appare utile rammentare che e' ormai comunemente accettato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, e in tal senso sono del resto le disposizioni che regolano le rispettive materie, che il diritto penitenziario costituisce parte del diritto penale cosi come quello della esecuzione lo e rispetto al diritto processuale. Da cio' consegue la necessita' del rispetto da parte dello stesso legislatore e dell'interprete, nella emanazione e nella interpretazione dei dettami in materia di diritto sostanziale e processuale della esecuzione penale, di quegli stessi canoni che debbono presiedere alle analoghe operazioni nella materia del diritto sostanziale e processuale penale. Ne deriva che una norma che intervenga a modificare quelle in vigore disciplinanti il trattamento punitivo e le sue modalita' di esecuzione debba necessariamente ritenersi, salva la ipotesi di esplicita indicazione nel senso contrario, come applicabile rispetto a tutti i rapporti non esauriti e ancora in corso di esecuzione nel rispetto del criterio, valido nella intera materia processuale, del tempus regit actum. Dall'altro lato pero' deve pretendersi che la stessa norma, qualora venga a incidere sulle modalita' del trattamento punitivo sacrificando i diritti acquisiti o anche le sole legittime aspettative del condannato, non urti contro le regole che sono a fondamento della legittimita' della irrogazione della sanzione penale e rispetti, invece, i principi della uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, della inviolabilta' del diritto di difesa, della personalita' della responsabilita' penale e della finalita' della pena, non potendo evidentemente la discrezione del legislatore ordinario ricevere giustificazione una volta che la norma dello stesso dettata si ponga in contrasto con anche uno solo di questi diritti. E al proposito di quanto qui interessa, conviene prendere avvio dalle ragioni che inducono a ritenere che la disposizione di cui alla lettera a) del decreto-legge n. 306 del 1992 sia in posizione del tutto antitetica rispetto al secondo dei diritti appena indicati. Per esigenze di politica criminale, indubbiamente apprezzabili in linea teorica ma non solo percio' validi a interrompere il discorso sull'esame della conformita' della norma alla legge fondamentale dello Stato, si e' inteso, secondo quanto si e' esplicitato nelle discussioni parlamentari che precedettero la approvazione della legge n. 356 del 1992 e che resto si desume chiaramente dallo stesso testo della disposizione in questione, riservare l'ottenimento dei benefici penitenziari, relativamentte ai condannati per taluni delitti, esclusivamente a coloro che, prima o dopo la condanna, non solo avessero reso o rendano confessione ma che avessero permesso o permettano la ricostruzione del fatto illecito e nel contempo la identificazione dei correi, subordinando quindi in definitiva la stessa possibilita' di presentazione della istanza alla ammissione della prova responsabilita' e alla prestazione della collaborazione. Orbene, non pare seriamente contestabile che in tale maniera si violi il diritto di difesa assicurato al cittadino nel procedimento penale, diritto esplicabile anche attraverso il rifiuto a rispondere all'interrogatorio o il ricorso al menzogna, ponendo la persona sottoposta a questo invece, gia' nel momento delle preliminari indagini, di fronte alla scelta, sostanzialmente obbligata nel primo senso qualora intenda beneficiare in futuro e dopo la eventale condanna dei benefici previsti dall'ordinamento penitenziario, di rendere o meno confessione accompagnando questa con le chiamate in correita', senza tenere conto, inoltre, che non sempre, come gia' rilevato in talune ordinanze di rimessione della analoga questione, la collaborazione si rende possibile. D'altro canto una simile imposizione e la conseguente necessita' di un comportamento adesivo finalizzato al ricevimento della futura contropartita pare anche venificare la presunzione di non colpevolezza sino alla condanna definitiva sancita dal secondo comma dell'art. 27 della Costituzione. Eppure lo stesso legislatore ordinario aveva ben tenuto presente una tale impossibilita' se e' vero che gia' nella vigenza delle norme processuali abrogate aveva introdotto, con l'art. 1 della legge 5 dicembre 1969, n. 932, l'ultimo comma dell'art. 78 del codice di rito penale con il quale si imponeva che prima che inziasse l'interrogatorio l'imputato venisse avvertito della facolta' di non rispondere, e ha espressamente avvertito nella relazione all'art. 274 di quello vigente che possa essere strumentalizzata la custodia cautelare "a finalita' di stimolo a una partecipazione attiva dell'imputato alla formazione del materiale probatorio". Ne' pare che possa valere la obiezione che tali considerazioni perderebbero di consistenza una volta che sia intervenuto il giudicato sulla sentenza di condanna. E invero va tale proposito rilevato, da un lato, che il diritto a negare la responsabilita' in ordine al reato che si presume commesso permane nel tempo, e, da altro, che il condannato che si veda costretto a confessare il fatto da lui sempre in precedenza negato e a corroborare la confessione con la incolpazione di altri si vede preclusa addirittura, la possibilita' di un futuro ricorso all'eventuale istituto dalle revisione. Deve infine aggiungersi che gia' il comportamento processuale dell'imputato, e quindi anche la reticenza dimostrata, e' valutabile, in uno con altri parametri, ai fini della determinazione della misura della sanzione da irrogarsi, il che peraltro formera' oggetto di attenzione nel prosieguo. Anche il principio di uguaglianza viene a essere compromesso con la norma della quale si sospetta la incostituzionalita', in quanto, a prescindere dalla considerazione che analoga pretesa non si rivolge nei confronti di altri, condannati a pene piu' gravi per reati diversi rispetto a quelli in essa indicati (si pensi, a titolo meramente esemplificativo, a quello di strage), il che appare determinare una irragionevole disparita' di trattamento tra soggetti aventi identico status ma differenziati tra loro esclusivamente a causa del titolo del reato per il quale hanno subito condanna, la stessa forma di pressione viene attuata verso tutti coloro che sono in espiazione di pene per i delitti contemplati dalla disposizione senza alcuna possibilita' per il giudice di tenere conto della entita' della loro partecipazione ai fatti e versando molto spesso i soggetti in situazioni personali diversificate tra loro anche con riferimento alla conoscenza dei corresponsabili e della stessa organizzazione della associazione, conoscenza che tavolta puo' essere addirittura nulla, con il rischio di incoraggiare particolari soggetti ad accuse di coinvolgimento di altri che potrebbero anche essere false. Si e' sopra accennato che il diritto penitenziario deve considerarsi parte di quello penale sicche', nel primo, debbono ricevere applicabilita' le norme principio che valgono per il secondo. Ora, non pare dubbio che la impossibilita' di godimento dei benefici previsti dall'ordinamento penitenziario abbia carattere afflittivo. Se cosi' e', appare difficile ipotizzare la legittimita' costituzionale di una norma, quale quella in questione, che sanzioni indifferentemente fatti commessi prima e dopo la sua entrata in vigore e subordini irragionevolmente la concessione dei benefici e comportamenti che, in considerazione del tempo intanto trascorso dal fatto, si possono rilevare di una utilita' pratica assolutamente insignificante. Ma e' principalmente il contrasto con il terzo comma dell'art. 27 che entra in discussione parendo che la disposizione urti violentemente contro il principio per il quale la pena debba tendere alla finalita' di rieducazione del condannato. E in attuazione di questo l'art. 1 della legge 26 luglio 1975, n. 354, al sesto comma prevede che "nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con il mondo esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento e' attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti". Si e' cioe' voluto, in coerenza con il dettato costituzionale, che il trattamento punitivo, abbandonandosi la teoria della mera retribuzione e accogliendosi, nella prospettiva di una sua funzione rieducativa, quella della prevenzione speciale, rappresenti lo stesso mezzo per la risocializzazione del soggetto prevendendosi la concessione di benefici che premino, ove possibile, il graduale percorso da parte del soggetto, sollecitato certamente dagli operatori ma giammai da questi imposto che altrimenti esso sarebbe meramente apparente, verso il definitivo ripudio della devianza. E, come gia' sopra si faceva cenno, questa funzione di finalita' rieducativa della pena va tenuta presente sin dalla fase della cognizione dovendo il giudice determinare l'entita' della sanzione proprio tenendo conto, nel momento del suo giudizio, una volta ritenuta raggiunta la prova della responsabilita', delle necessita' rieducative, fissando cosi' la misura delle pena in relazione non solo alla gravita' del reato ma alla personalita' dell'imputato quale desumibile anche dal comportamento tenuto e dall'aiuto prestato per la completa ricostruzione del fatto e la identificazione dei complici, commisurando la durata di essa, entro i limiti edittali previsti, al tempo ragionevolmente necessario per la risocializzazione del colpevole (per tutte: sez. seconda, 17 dicembre 1990, Mastroviti, Mass. 186541). Orbene, nel momento in cui, presenti tutte le condizioni personali richieste dalla legge per premiare il comportamento meritorio dell'individuo e, anzi, addirittura accertata la completa sua risocializzazione, si richieda allo stesso forzosamente la prestazione di un ulteriore adempimento al quale, nonostante la incontestabile utilita' per la autorita', il soggetto, che pure abbia riconosciuto le sue personali responsabilita' e abbia sinceramente ripudiato il passato avendo compreso la contrarieta' del suo comportamento al sentire comune e alle regole della convivenza sociale, non si sia mostrato disponibile per valutazioni soggettive che protrebbero anche conformarsi, almeno da un punto di vista soggettivo, a canoni di eticita' (e in tale senso si sono recentemente giudicati gli analoghi comportamenti posti in essere da persone condannate per gravissimi delitti contro la vita e contro la stessa sopravvivenza dello Stato democratico che non hanno inteso fornire elementi per la individuazione dei loro corresponsabili compartecipi in temibili organizzazioni terroristiche, aderendosi alle considerazioni sul punto espresse da una notevole corrente di pensiero), pare fondato il sospetto di una non corrispondenza di una simile pretesa normativamente imposta con l'effettivo significato della disposizione costituzionale, non potendosi attribuire aprioristicamente al rifiuto opposto il valore di un mancato favorevole evolversi nel soggetto stesso del processo di revisione critica del suo trascorso delinquenziale. Certamente al legislatore deve riconoscersi il potere-dovere di una scelta discrezionale dei metodi per reprimere e prevenire la commissione di illeciti di grave allarme sociale. Va peraltro allo stesso richiesto che un simile risultato non si persegua con sistemi che uno Stato di diritto rifiuta. Tutto quanto sopra esposto induce il collegio a richiedere l'intervento del giudice delle leggi perche' accerti se la disposizione sia conforme o meno ai dettami costituzionali.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 15, primo comma, lett. a), del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, in relazione agli artt. 27, 24, 25 e 3 della Costituzione; Sospende il giudizio in corso; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Dispone che l'ordinanza, a cura della cancelleria, sia notificata al presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Roma, addi' 20 maggio 1993 Il presidente: DE LILLO Il consigliere estensore: (firma illeggibile) 93C1218