N. 725 ORDINANZA (Atto di promovimento) 23 - 22 novembre 1993

                                N. 725
 Ordinanza   emessa   il   23  novembre  1993  (pervenuta  alla  Corte
 costituzionale il 22  novembre  1993)  dal  pretore  di  Brescia  nel
 procedimento penale a carico di Duina Santo
 Processo   penale   -   Persona  offesa  costituita  parte  civile  -
 Possibilita' di essere sentita nella forma di testimonianza  anziche'
 di  esame  come  per  il responsabile civile e l'imputato - Lamentata
 disparita' di trattamento con incidenza sul  diritto  di  difesa  nei
 confronti di questi ultimi.
 Processo  penale  -  Possibilita' di condanna alle restituzioni ed al
 risarcimento del danno anche quando la pronuncia  penale  e'  fondata
 solo  sulle  dichiarazioni  della costituita parte civile - Lamentata
 disparita' di trattamento  tra  imputati  nonche'  fra  soggetti  che
 propongono  la domanda civile nel processo penale e quelli che invece
 la avanzano  solo  in  sede  civile  -  Violazione  dei  principi  di
 ragionevolezza e del contraddittorio.
 (C.P.P. 1988, artt. 197, 208 e 538).
 (Cost., artt. 3 e 24).
(GU n.51 del 15-12-1993 )
                              IL PRETORE
    Letti  gli  atti  del proc. pen. n. 138/91 p.m.g. e n. 779/92 r.g.
 pretura circondariale di Brescia;
                     OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO
    1. -  A  seguito  di  indagini  preliminari  il  p.m.  rinviava  a
 giudizio,  dinnanzi  a questo pretore, Duina Santo per rispondere del
 reato p. e p. dall'art. 341 del c.p.  per  avere  offeso  l'onore  di
 Giglio Antonio, postino, a causa e nell'esercizio delle sue funzioni.
 All'odierno  dibattimento  Giglio Antonio si costituiva parte civile;
 il p.m. svolgeva la relazione e chiedeva ammetersi le prove  come  da
 lista ritualmente depositata (nella quale era indicato come testimone
 anche  il  Giglio  suddetto);  anche le altri parti provvedevano alle
 rispettive esposizioni e richieste di prove ex art.  493  del  c.p.p.
 Questo  pretore,  ex  art.  495  del  c.p.p.,  ammetteva  le  prove e
 provvedeva, per quanto riguardava la testimonianza  della  costituita
 parte  civile,  con la presente ordinanza notificata alle parti nelle
 forme di legge.
    2. - Con la presente ordinanza vengono impugnati  gli  artt.  197,
 208  e  538  del  c.p.p.  in  relazione  agli  artt.  3  e  24  della
 Costituzione:
       a) nella parte  in  cui  prevedono  che,  in  dibattimento,  le
 dichiarazioni  della  parte civile possano essere assunte nella forma
 della testimonianza;
       b) nei limiti in cui l'art. 538 consenta che il giudice  penale
 pronunci condanna alle restituzioni e al risarcimento dei danni anche
 quando   la   pronuncia   penale   si   fondi   esclusivamente  sulle
 dichiarazioni della costituita parte civile.
    3. - Prima di passare al merito della questione  una  premessa  si
 impone. Il processo e' forma della azione inteso il concetto di forma
 come  struttura (Gestalt tedesco); per cui in subiecta materia assume
 rilievo il "come" un  fatto  (inteso  questo  in  senso  lato)  venga
 evocato  in  giudizio. Infatti, per quanto afferisce proprio ai mezzi
 di  prova, dagli artt. 191 e 192 del c.p.p. il "come", normativamente
 disciplinato, costituisce criterio di validita' del mezzo di prova e,
 quindi, di esistenza del fatto-oggetto della prova.
    Tant'e' che il giudice potra' desumere cio' solo attraverso  mezzi
 di   prova   ritualmente  acquisiti.  E'  evidente,  allora,  che  la
 fondatezza o meno di una  questione  di  legittimita'  costituzionale
 nonche'  la  sua  rilevanza  (in astratto ed in concreto) va valutata
 proprio in riferimento alla suesposta "essenzialita'" delle forme nel
 processo.
    In tale contesto anche i parametri costituzionali  di  riferimento
 vanno adeguati alla suddetta connotazione delle norme processuali.
    Orbene  l'art. 3 della Costituzione, come e' noto, impone ed esige
 identita'  di  disciplina  normativa  per  identita'  di   situazioni
 fattuali;  il  che', applicato alle norme processuali e riferito alle
 forme di assunzione delle prove, impone ed esige che ad identita'  di
 situazione deve corrispondere identita' di forma di assunzione.
    A  sua  volta  l'art.  24 della Costituzione, per la parte che qui
 interessa, impone ed esige il principio del contraddittorio che,  nel
 suo  nucleo  essenziale,  connota  ogni  specie  di processo; esso si
 concreta nella possibilita' che deve essere riconosciuta a  tutte  le
 parti  del  processo  ed in eguale misura, di incidere sull'esito del
 giudizio. Ne consegue - atteso che la partecipazione delle  parti  al
 processo  e'  realizzata  anche attraverso le forme di assunzione dei
 mezzi di prova - che, anziche' sotto tale prospettiva, una diversita'
 di disciplina tra le parti, circa la forma di assunzione  delle  loro
 dichiarazioni  (pacificamente  da  ritenersi,  nel processo penale, e
 ragionevolmente mezzi di prova sia che abbiano o non  abbiano  natura
 confessoria)  oltre  ad  essere  irragionevole  verrebbe  a ledere il
 principio suddetto.
    Tali precetti costituzionali, intesi nel  senso  suddetto,  devono
 necessariamente  trovare applicazione anche nel processo penale. Cio'
 non solo e non tanto perche' questo, con il d.P.R.  n.  447/1988,  si
 connota  come processo di parti, quanto perche' essi sono a contenuto
 generale e certamente, come  tali,  non  devono  trovare  deroga  nel
 processo  penale  il  cui  scopo non puo' legittimare, sul punto, una
 diversa disciplina.
    4. - Delineati i parametri costituzionali di riferimento e venendo
 al merito della questione sub 2/ a), e' opportuno delineare l'assetto
 normativo vigente. Come e' evidente dal disposto degli  artt.  197  e
 208  del  c.p.p.,  nell'attuale  sistema,  la parte civile, ove sia a
 conoscenza dei fatti per  cui  si  procede  e  ove  il  p.m.  l'abbia
 indicata  come  testimone,  deve  essere  assunta  nella  forma della
 testimonianza. A parere di questo pretore tale  disciplina  viola  il
 disposto degli artt. 3 e 24 della Costituzione, come sopra connotati,
 se  posta in relazione con quella delineata, sempre dagli artt. 197 e
 208 del  c.p.p.,  in  riferimento  sia  al  responsabile  civile  che
 all'imputato.
    Analiticamente, e in riferimento al primo termine di comparazione,
 e' noto che il responsabile civile, stante il chiaro tenore letterale
 dell'art. 197, lettera c), puo' essere assunto, nell'attuale sistema,
 solo  nella  forma dell'esame ex art. 208 del c.p.p. e non anche, con
 quella prevista invece, per la parte civile, della  testimonianza  (e
 cio'  anche,  argomentando dalle succitate norme, quando per ipotesi,
 sia a conoscenza  dei  fatti  per  cui  si  procede).  Tale  evidente
 disparita'  di  disciplina,  in ordine alla forma di assunzione delle
 dichiarazioni, ridonda in disparita' di trattamento,  atteso  che,  e
 cio'  e'  evidente,  trattasi di dichiarazioni rese da parti che, sia
 dal punto di vista formale (in quanto tali) sia dal  punto  di  vista
 sostanziale  (in  quanto  la  domanda  della parte civile e' proposta
 proprio nei confronti  del  responsabile  civile)  si  trovano  nella
 medesima  posizione  processuale;  per  cui identica doveva essere la
 forma di assunzione delle rispettive dichiarazioni.
    Ma a questo punto e' necessario fare un passo innanzi. Dire che la
 diversita' di disciplina  configura  una  disparita'  di  trattamento
 impone   ed   esige   la   individuazione   di  quella,  tra  le  due
 prospettabili,  conforme  ai  principi  costituzionali  alla   quale,
 l'altra, ex art. 3 della Costituzione, si deve adeguare.
    Orbene,  a parere di questo pretore, quella piu' conforme ad essa,
 nel caso di specie, e' proprio quella prevista dall'attuale art. 197,
 lett. c). A tal fine  non  si  puo'  non  rimarcare  che  costituisce
 principio di civilta' giuridica (fatto proprio dagli ordinamenti piu'
 evoluti)  che  chi  e'  parte,  in un processo non puo' assumere, sul
 punto, anche la veste di testimone. Orbene atteso che  sia  la  parte
 civile  che  il responsabile civile sono indubbiamente delle parti (e
 il nuovo codice  tra  l'altro  cosi'  le  identifica),  la  forma  di
 assunzione  di  esse,  oltre  a  dover  essere  identica, deve essere
 rispettosa di tale natura.  Cio',  giova  ribadire,  e'  imposto  sia
 dall'art.   3   della   Costituzione  sia  anche  dal  principio  del
 contraddittorio:
 la parte  civile  ed  il  responsabile  civile  sono,  formalmente  e
 sostanzialmente  parti; per cui la forma di assunzione, rispettosa di
 tale precetto e' quella dell'esame ex art.  208  del  c.p.p.  Infatti
 solo  in  tal  modo le due parti potranno partecipare al processo con
 gli stessi poteri.
    Quindi, traendo una prima e fondamentale conclusione, gli  attuali
 artt. 197 e 208 del c.p.p., nella parte in cui prevedano l'assunzione
 della  parte civile nella forma della testimonianza, sono illegittimi
 in quanto violano gli artt. 3 e 24  della  Costituzione  se  riferita
 questa  alla  correlata  forma  di assunzione del responsabile civile
 (per il quale e' possibile, peraltro ragionevolmente, la  sola  forma
 dell'esame).  Cio'  impone  l'adeguamento  della  prima  disciplina a
 quest'ultima, atteso che e' essa quella che non altera la  situazione
 concreta  e che pertanto, rispetto all'altra, puo' ritenersi conforme
 ai principi costituzionali.
    5. - Trattasi di valutare ora la prospettata illegittimita'  della
 attuale  disciplina se riferita a quella dell'imputato il quale, come
 e' noto (e qui per necessita' logica) va assunto esclusivamente nella
 forma di cui all'art. 208 del c.p.p. Anche qui occorre  ribadire  che
 il  problema  posto riguarda esclusivamente la disciplina dettata per
 la  forma  di  assunzione.  Orbene,  sul  punto,  non  si  puo'   non
 evidenziare  che  parte  civile e imputato sono parti contrapposte in
 senso formale e sostanziale; per cui stante quanto detto al paragrafo
 3), identiche devono essere ex art. 3  e  24  della  Costituzione  le
 forme  di assunzione. Quindi "a contrario" l'attuale disciplina viola
 le suddette norme e cio' impone - stante  la  intrinseca  e  evidente
 impossibilita'  che  l'imputato  assuma  la  veste di testimone di se
 stesso - l'adeguamento della forma di assunzione della parte civile a
 quella dell'imputato.
    6.  -  A  questo  punto  occorre  prendere  posizione circa alcuni
 concetti espressi dalla Corte  costituzionale  allorche'  sono  state
 poste questioni simili a quelle di cui alla presente ordinanza.
    Come  noto  la Corte, sul presupposto che il processo penale abbia
 lo scopo di accertare la  verita',  ritiene  sostanzialmente  che  il
 legislatore  sia libero di seguire o non limitazioni a mezzi di prova
 enucleati con riferimento a diversi sistemi processuali (quali quello
 del processo civile il cui scopo e' quello di risolvere un  conflitto
 su  diritti  essenzialmente  disponibili). Tali assunti della Corte a
 parere di  questo  pretore,  non  sono  condivisibili.  Cio'  per  le
 considerazioni  che  si  verranno  ad  esporre.  Innanzitutto  e'  da
 rilevare che qui non e'  in  discussione  la  necessita'  o  meno  di
 adeguare  il  sistema penale a quello civile in merito alla prova; ma
 semmai quello di valutare, facendo riferimento al sistema penale,  se
 la  diversa forma di assunzione prevista tra le parti sia conforme ai
 precetti costituzionali come sopra individuati. In secondo  luogo  e'
 evidente  che le forme di assunzione di un mezzo di prova non possono
 e non debbono essere lasciate ad una scelta  libera  del  legislatore
 atteso  che,  anche  in subiecta materia, sono individuabili principi
 costituzionali ai quali il legislatore e' vincolato. In terzo  luogo,
 ammesso che il processo penale abbia lo scopo di accertare la verita'
 (che  altro  non  e'  accertare  la  sussistenza di un fatto-reato ed
 applicare al colpevole  una  adeguata  pena),  cio',  comunque,  deve
 avvenire  nel  rispetto  delle  regole comprese quelle sulle forme di
 assunzione dei mezzi di prova; per cui la legittimita' costituzionale
 di queste va valutata, non solo in riferimento allo scopo (che ex  se
 non  puo' costituire precetto legittimante regole di assunzione delle
 prove),  ma  anche   in   riferimento   a   principi   costituzionali
 necessariamente  autonomi da uno scopo. Tale autonomia di valutazione
 con la conseguenza che lo scopo non  puo'  assolutamente  legittimare
 qualunque  regola  di  assunzione  dei  mezzi  di  prova, e' talmente
 evidente sol che si pensi  che  tali  regole  non  divengano  in  se'
 legittime  se  si conformano o consentono di realizzare al massimo lo
 scopo dato; ma lo sono se si  conformano  a  principi  costituzionali
 quali  quelli  del  rispetto  dei  diritti  umani,  del  principio di
 ragionevolezza e del diritto alla difesa (di  cui  il  principio  del
 contraddittorio,  nel  suo  aspetto  della  necessita' che a tutte le
 parti  vengano  riconosciuti  gli  stessi  poteri   processuali,   ne
 costituisce una estrinsecazione).
    Alla  luce di tutto cio' si deve concludere che lo scopo non puo',
 in se', come sembra ritenere la Corte, legittimare la  ammissibilita'
 della  testimonianza  della  parte civile quando cio', per le ragioni
 suesposte, sia illegittimo costituzionalmente. Ma vi e' di piu'. Fino
 ad ora la obiezione della Corte e' stata valutata dal punto di  vista
 logico;  alle  stesse  conclusioni  si  deve giungere se la si valuta
 nella prospettiva piu'  strettamente  giuridico-formale.  Infatti  la
 premessa   della  Corte  puo'  anche  ritenersi  esatta  ma  essa  va
 inquadrata necessariamente  nell'attuale  sistema  processuale  sulle
 prove improntato sul principio del libero convincimento. Come e' noto
 esso,  in  negativo, significa che, nel processo penale, non esistono
 prove che ex ante abbiano un valore probatorio legalmente  stabilito;
 in  positivo significa che ex ante tutti i mezzi di prova sono idonei
 a provare fatti (intesi in senso lato); e' il giudice che ex post  ne
 valuta la idoneita' probatoria. Da cio' la logica conseguenza che, in
 astratto,  le  dichiarazioni  delle  parti, qualunque sia la forma di
 assunzione, hanno lo stesso valore probatorio (tant'e' che il giudice
 ha l'obbligo di motivare anche in negativo ove ritenga che  un  fatto
 in  astratto  desumibile  da  un  mezzo  non possa comunque ritenersi
 provato). In  altri  termini  la  forma,  nel  processo  penale,  pur
 costituendo  criterio  di esistenza del fatto, proprio sulla base del
 principio suddetto, non rileva circa il valore probatorio  del  mezzo
 assunto;  per  cui  il  pericolo  paventato  dalla Corte (l'eventuale
 inammissibilita' della testimonianza della parte  civile  sarebbe  un
 "attentato"  all'accertamento  della verita' quale scopo del processo
 penale) non sussiste. Invero, comunque, ed in  ogni  caso,  la  parte
 civile  coopera,  come le altre parti, all'accertamento della verita'
 sia se viene assunta nella forma della testimonianza  (come  e'  ora)
 sia  se  venisse  assunta esclusivamente nella forma dell'esame delle
 parti (come sara' se la Corte dovesse aderire alle prospettazioni  di
 questo  pretore).  Cio'  in  quanto  nell'una e nell'altra ipotesi il
 valore probatorio delle due dichiarazioni ex ante e' il medesimo e ex
 post entrambe sono soggette al controllo  del  giudice  da  svolgersi
 secondo i medesimi criteri ex art. 192 del c.p.p.
    Quindi  anche  sotto tale prospettiva le obiezioni della Corte non
 hanno pregio atteso che la questione posta riguarda esclusivamente la
 forma di assunzione e non il  valore  probatorio  (peraltro  ex  ante
 identico) delle due dichiarazioni.
    7.  -  Ne'  miglior  sorte  puo'  avere  l'ulteriore  ed eventuale
 obiezione (che altro non e' che una "variazione sul tema").
    Invero si potrebbe prospettare che la tesi di  questo  pretore  si
 fonda   sostanzialmente,   su   un   assunto:  la  parte  civile,  il
 responsabile civile, l'imputato sono parti del processo  penale;  per
 cui  identiche  devono  essere  ex  art. 3 e 24 della Costituzione le
 forme  di  assunzione  delle  loro  dichiarazioni.  Ma,  si  potrebbe
 obiettare,  che  i  suddetti  soggetti  sono  parti  contrapposte  in
 riferimento alle domande civili proposte ex art. 64 e seg. del c.p.p.
 e non anche nel processo penale. Ne  conseguirebbe,  allora,  che  il
 richiamo  e l'applicazione dei principi costituzionali in riferimento
 alle succitate norme sarebbe ultroneo, atteso che esse riguardano  il
 processo  penale. Tale obiezione, a parere di questo pretore non puo'
 e non deve essere accolta.  Essa  suppone  che  l'accertamento  sulla
 responsabilita'  penale  sia  eterogeneo  rispetto a quello afferente
 alla responsabilita' civile. Ma cio' non e'. E' il sistema stesso che
 dimostra  che  il  simultaneus   processus   implica   identita'   di
 accertamento;    infatti,   accertata   la   responsabilita'   penale
 dell'imputato risulta accertata automaticamente,  senza  possibilita'
 di  discrasia,  anche  la  responsabilita'  civile. Analiticamente le
 prove che sono servite per accertare la responsabilita' penale devono
 essere alla base dell'accertamento  di  quella  civile.  E'  evidente
 allora,  che  le forme di assunzione delle dichiarazioni delle parti,
 (mezzo  di   prova   utilizzabile   anche   nell'accertamento   della
 responsabilita'  civile)  per  cio'  stesso,  devono essere identiche
 senza che sia legittimo eseguire  dei  "distinguo"  tra  accertamento
 penale  ed accertamento civile, tra processo penale e processo civile
 atteso che tutto si svolge nelle forme del processo penale le  quali,
 pertanto,  non  possono  non  essere  adeguate  ai  suddetti principi
 costituzionali, stante il loro valore generale.
    8.  -  Non  si puo' quindi che concludere e ribadire che l'attuale
 197 del c.p.p., lett. a), e' incostituzionale nei limiti in  cui  non
 preveda,  tra  le  cause  di  incompatibilita'  a testimoniare, anche
 quella della parte civile; e l'art. 208 del c.p.p. nei limiti  in  ui
 consenta  che la parte civile possa essere esaminata come testimone e
 non come semplice parte ex art. 209  e  segg.  del  c.p.p.  Cio'  per
 violazione  degli  artt.  3  e  24  della  Costituzione  ove suddetta
 disciplina venga comparata con quella prevista  per  il  responsabile
 civile e per l'imputato.
    9.  -  In ordine, poi, alla questione enucleata sub 2/ b), come si
 evince  dall'art.  538  del  c.p.p.,  interpretato  letteralmente   e
 sistematicamente  (sul  punto  e'  interessante  il  collegamento con
 l'art. 651 del c.p.p.), alla condanna penale  dell'imputato  consegue
 automaticamente   la   condanna   civile   alla   restituzione  e  al
 risarcimento dei danni. Cio' qualunque sia stato il  mezzo  di  prova
 sul quale si sia fondato l'accertamento della responsabilita' penale.
 Orbene,  se  tale  assetto  viene  collegato a massime desumibili dal
 diritto giurisprudenziale che consentono,  ovviamente  con  l'obbligo
 della   motivazione,  di  condannare  anche  sulla  base  della  sola
 testimonianza della parte civile, si deve allora  concludere  che  la
 condanna  civile si potrebbe fondare, alla luce dell'attuale sistema,
 solo  sulla  base  delle  dichiarazioni  (rese  nella   forma   della
 testimonianza) della parte civile.
    Tale   assetto   normativo,   a   parere  di  questo  pretore,  e'
 incostituzionale. Invero  vi  e'  innanzitutto  da  rilevare  che  le
 obiezioni   eventuali  della  Corte,  cosi'  come  sono  state  sopra
 enucleate, non possono assolutamente valere  proprio  in  riferimento
 all'art.  538  del c.p.p. Invero, giova ribadire, tale norma riguarda
 la pronuncia sulle  domande  civili  e  non  afferisce  affatto  alla
 responsabilita'  penale  (anzi consegue all'accertamento di essa). In
 secondo luogo, pertanto, ad essa si devono necessariamente  applicare
 i  principi  costituzionali  surrichiamati  nella stessa misura nella
 quale essi hanno completa attuazione nel processo civile (almeno  per
 quanto  afferisce  al  valore  probatorio  delle  dichiarazioni delle
 parti).
    Orbene, come e' noto,  in  questo  vige  la  regola  fondamentale,
 espressione  del principio contradditorio, che le dichiarazioni delle
 parti in causa, salvo che non abbiano natura confessoria,  non  hanno
 alcun valore probatorio.
    E'  chiaro  allora  che  anche la pronuncia emessa ex art. 538 del
 c.p.p. deve ritenersi soggetta a tale fondamentale regola.
    Cio'  e'   imposto   sia   dal   principio   del   contraddittorio
 surrichiamato,  sia  dall'art.  3 della Costituzione. Su quest'ultimo
 aspetto  non  si  puo'  non  evidenziare,   tra   l'altro,   che   la
 possibilita',  insita  nell'attuale  sistema,  che  la  sentenza  che
 accolga le domande civili si possa fondare sulla  sola  testimonianza
 della  parte  civile (pur con l'obbligo della motivazione sul punto),
 crea disparita' di trattamento tra soggetti in riferimento  ai  quali
 la  domanda  civile  venga  proposta  nel  processo  penale e quelli,
 invece, contro i quali la  domanda  venga  proposta  solo  in  quello
 civile. Tale disparita' e' ancor piu' evidente ove si ponga mente che
 l'esercizio  dell'azione  penale  spesso e' subordinato ad un atto di
 impulso della parte lesa prodromico alla stessa costituzione di parte
 civile. Tale disparita' si concretizza  proprio  nel  fatto  che,  al
 contrario  del  processo  civile,  in  quello  penale  l'imputato e i
 responsabili  civili subiscono, anche per quanto afferisce la domanda
 civile proposta nei loro confronti, la  "testimonianza"  della  parte
 civile,  loro  controparte.  Quindi non si puo' non concludere che la
 disciplina delineata dall'art. 538 del c.p.p.,  nel  momento  in  cui
 consente che il giudice penale debba accogliere le domande civili una
 volta accertata la responsabilita' penale senza che possa valutare la
 fondatezza della domanda civile anche sull' an riferendosi al sistema
 processuale  civilistico,  e'  incostituzionale  per violazione degli
 artt. 24 nel particolare aspetto del principio del contraddittorio  e
 art.  3  atteso che ridonda in disparita' di trattamento tra imputati
 ovvero fra cittadini in riferimento  ai  quali  l'azione  civile  sia
 stata esercitata nell'ambito del processo penale ovvero no; nel primo
 caso  la loro responsabilita' civile potra' fondarsi anche solo sulle
 dichiarazioni della parte civile nel secondo caso cio' e' escluso.
    10. - Come e' evidente da quanto detto  sopra  l'ultima  questione
 posta,  sostanzialmente, verrebbe ad interrompere quel legame stretto
 che  vi  e',  nell'attuale  sistema,  tra   accertamento   penale   e
 accertamento  civile,  riportando quest'ultimo nell'alveo delle norme
 delineate dal codice di procedura civile, al fine  di  consentire  il
 pieno  rispetto del principio del contradditorio anche quando esso si
 svolga  nelle  forme  del  processo  penale.  Tale  pronuncia,  giova
 evidenziare,  non verrebbe affatto ad alterare l'attuale sistema che,
 su altri aspetti, ha attribuito autonomia alla  pronuncia  civile.  A
 tal  fine  si  possono citare, a mo' di esempio, gli artt. 573, 574 e
 575 del c.p.p. ecc. Quindi la pronuncia, anche su questo punto, oltre
 a consentire di conformare il sistema ai precetti costituzionali, non
 altera il sistema; essa non fa altro che fissare autonomia tra le due
 decisioni    anche    in    riferimento    all'accertamento     della
 responsabilita'.  Peraltro  le  due questioni poste sono strettamente
 legate. Invero la necessita' che anche la  parte  civile  venga,  nel
 processo  penale, esamina ex art. 208 del c.p.p. impone ed esige che,
 anche l'accertamento che il giudice penale compie  ex  art.  538  del
 c.p.p., sia pienamente rispettoso di tale fondamentale natura. Con la
 conseguenza  che, se nel processo penale le dichiarazioni delle parti
 possono assumere il valore di mezzo di prova, cio'  non  puo'  e  non
 deve essere in riferimento all'accertamento, sulla fondatezza o meno,
 delle  domande  civili  proposte  nel  processo  penale.  La  diversa
 disciplina delineata dall'attuale sistema  processuale  penale  viola
 quei  valori  che  sono  alla base di un tale precetto vale a dire il
 principio del contraddittorio e il principio di ragionevolezza  e  di
 parita' di trattamento.
    Ma  se  tutto  cio'  e'  vero tali principi devono necessariamente
 valere  solo  in  riferimento  alla  parte  civile  e  non  anche  in
 riferimento  alla  parte offesa atteso che questa, indubbiamente, non
 e' parte in senso formale e quindi, in riferimento  ad  essa,  alcuna
 disparita' di trattamento puo' essere prospettata ove venga esaminata
 come   testimone  ed  ove  il  giudice  fondi  l'accertamento  penale
 esclusivamente sulle dichiarazioni della parte offesa.
    11. - entrambe le questioni, come sopra poste, sono  rilevanti  al
 fine di decidere il caso di specie.
    In ordine alla prima occorre evidenziare che il processo de quo e'
 stato  sospeso  prima di emettere l'ordinanza di cui all'art. 495 del
 c.p.p. Ne consegue che, ove la  Corte  dovesse  ritenere  fondata  la
 questione,  questo pretore ex art. 191/1 del c.p.p. dovrebbe ritenere
 inammissibile   la   testimonianza   della  costituita  parte  civile
 (ritualmente indicata nella relativa lista). E' evidente  quindi,  la
 rilevanza della questione.
    In  ordine  alla seconda e' evidente che essa non ha una immediata
 valenza nel processo de quo atteso che non si e'  ancora  nella  fase
 processuale  che impone ed esige l'applicazione della suddetta norma.
 Ma si reputa opportuno, per ragioni di economicita' porla fin da  ora
 alla  Corte; comunque, la si ritiene rilevante atteso che la suddetta
 norma trovera' sicuramente applicazione al caso di specie, condizione
 questa per poter ritenere rilevante la questione.
                               P. Q. M.
    Visti gli artt. 23 e segg. della legge n. 81/1953;
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione  di
 legittimita'  costituzionale degli artt. 197, 208 e 538 del c.p.p. in
 riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione nei limiti di cui  a
 parte motiva;
    Sospende il giudizio in corso;
    Dispone   la   trasmissione   dei   relativi   atti   alla   Corte
 costituzionale;
    Manda alla cancelleria per gli avvisi e le notifiche di rito.
      Brescia, addi' 23 novembre 1992
                          Il pretore: TOSELLI

 93C1221