N. 430 SENTENZA 1 - 14 dicembre 1993

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Ordinamento penitenziario  -  Domanda  di  affidamento  in  prova  al
 servizio  sociale  -  Condanna  per  unico  reato  a  pena  detentiva
 superiore ad anni tre - Criteri per la concessione  del  beneficio  -
 Riferimento  alla  sola  misura  della  pena  residua - Richiamo alla
 giurisprudenza  della  Cassazione  (sentenza  n.   18/1993)   -   Non
 fondatezza.
 
 (Legge   26   luglio  1975,  n.  354,  art.  47,  primo  comma,  come
 interpretato dall'art. 14 -bis della legge 7 agosto 1992, n.  356).
 
 (Cost., artt. 3 e 97).
 
(GU n.52 del 22-12-1993 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici: avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo
    CAIANIELLO,  avv.  Mauro  FERRI,  prof.  Luigi MENGONI, prof. Enzo
    CHELI,  dott.  Renato  GRANATA,  prof.  Giuliano  VASSALLI,  prof.
    Francesco   GUIZZI,   prof.   Cesare   MIRABELLI,  prof.  Fernando
    SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  47,  comma
 primo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ordinamento penitenziario)
 come interpretato dall'art. 14- bis della legge 7 agosto 1992, n. 356
 promosso  con  ordinanza  emessa il 18 dicembre 1992 dal Tribunale di
 sorveglianza  di  Brescia  nel  procedimento  di   sorveglianza   per
 l'affidamento  in  prova  al  servizio  sociale  del  detenuto  Braga
 Francesco iscritta al n. 189 del registro ordinanze 1993 e pubblicata
 nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  18,  prima   serie
 speciale, dell'anno 1993;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio del 3  novembre  1993  il  Giudice
 relatore Renato Granata;
                           Ritenuto in fatto
    1.   -  Con  ordinanza  del  18  dicembre  1992  il  Tribunale  di
 sorveglianza di Brescia, a  seguito  dell'ordinanza  restitutoria  n.
 422/92 di questa Corte, ha confermato - dopo il chiesto riesame, alla
 luce  dello  ius superveniens sub art. 14- bis legge 1992 n. 356 - la
 rilevanza della questione (sollevata con precedente propria ordinanza
 del 17 marzo 1992) di legittimita' costituzionale dell'art. 47, comma
 primo, ord. pen. (legge 1975 n. 344/1986 n.  663),  ove  interpretato
 nel  senso  che, ai fini della determinazione del limite dei tre anni
 rilevante   agli   effetti   della    concessione    del    beneficio
 dell'affidamento  in  prova  al  servizio  sociale,  consenta di aver
 riguardo (in ragione della detraibilita' dell'espiato, ammessa  dalla
 precedente  sent.  386/89  Corte  Cost.)  alla sola misura della pena
 residua  anche  nei  casi   in   cui   al   richiedente   sia   stata
 originariamente  irrogata  (come  nella  specie)  pena superiore (pur
 notevolmente) ai tre anni per un unico reato: per asserito  contrasto
 con  i  principi  di  eguaglianza  e ragionevolezza (art. 3) e con il
 canone di buona amministrazione (art. 97 Cost.).
    2. - Nella citata ordinanza n. 422/92, questa Corte  -  dopo  aver
 ricordato  che,  con  successiva  sentenza 10392/92, le Sezioni unite
 avevano nel frattempo gia' interpretato la norma denunciata nel senso
 restrittivo postulato dal giudice a  quo  (della  non  concedibilita'
 cioe'  del  beneficio in parola ai condannati a pena superiore ai tre
 anni per unico reato) e che in ulteriore prosieguo era pero'  entrato
 in  vigore l'art. 14- bis della legge 356 di conversione del d.-l. n.
 306 del 1992, dichiaratamente interpretativo dell'art. 47  o.p.  (che
 aveva   riferito   il   limite   di   pena,  rilevante  agli  effetti
 dell'affidamento al  servizio  sociale,  alla  "pena  da  espiare  in
 concreto  tenuto  conto  anche  dell'applicazione  di eventuali cause
 estintive") - aveva appunto su tali premesse restituito gli  atti  al
 giudice  a  quo  perche'  esaminasse la rilevanza della questione sub
 iudice, dopo la riferita sopravvenienza normativa.
   3. - Con l'odierna ordinanza, lo stesso Tribunale  di  sorveglianza
 risponde  sul  punto  che l'art. 14- bis della legge n. 356 del 1992,
 per l'equivocita' della correlativa formulazione, non avrebbe  a  suo
 avviso  (per  altro  in  contrasto  con  coeve  pronunzie della Corte
 regolatrice)   effettiva   attitudine  modificativa  della  pregressa
 esegesi dell'art. 47 o.p.: di cui per cio' ripropone  la  denuncia  -
 con  estensione comunque al predetto art. 14- bis - nei sensi, per le
 ragioni e con riferimento ai parametri gia' indicati.
    4. - L'Avvocatura dello Stato, per  l'intervenuto  Presidente  del
 Consiglio,   ha   viceversa   concluso,   in   via   principale,  per
 l'inammissibilita' della questione, per  l'intervenuta  modifica  del
 quadro normativo e, in subordine, per la sua infondatezza nel merito.
                        Considerato in diritto
    1.  -  Il  Tribunale  a  quo  ripropone,  in sostanza il dubbio di
 legittimita' dell'art. 47 comma primo, dell'ordinamento penitenziario
 (legge 1975 n. 354 e successive modificazioni) ove  interpretato  nel
 senso  che  -  ai  fini  del  computo limite dei tre anni della "pena
 espiata" rilevante  agli  effetti  della  ammissione  del  condannato
 all'affidamento  in  prova al servizio sociale - sia consentito avere
 riguardo (in ragione  della  detraibilita'  dell'espiato  ammessa  da
 precedente  sentenza  n.  386/1989  di questa Corte) alla sola misura
 della pena residua "anche nei casi in cui al  richiedente  sia  stata
 originariamente  irrogata  pena  superiore,  pur  notevolmente (c*ome
 nella specie), al suddetto limite per unico reato".
    Ed in ragione di siffatta esegesi - che attribuisce alla pregressa
 elaborazione giurisprudenziale, orientata dalla  richiamata  sentenza
 costituzionale  del  1989,  e  non  univocamente  attinta  dallo  ius
 superveniens - ipotizza la violazione dell'art. 3 della  Costituzione
 -  sotto  il  duplice profilo della intrinseca irragionevolezza della
 estensione del beneficio in parola anche a condannati  per  reati  di
 alto  allarme  sociale, e della ingiustificata equiparazione, ai fini
 indicati, del trattamento di  tali  soggetti  rispetto  a  quello  di
 quanti  sono  chiamati  a rispondere di reati meno gravi. E prospetta
 poi l'ulteriore  contrasto  con  l'art.  97  della  Costituzione,  in
 ragione di un possibile vulnus al buon andamento dell'amministrazione
 della giustizia.
    2. - In realta' - dopo la sentenza n. 17/1992 di questa Corte, che
 aveva  avvertito  come  la  detraibilita'  della  pena  espiata, agli
 effetti considerati, si  riferisse,  nell'economia  della  precedente
 citata  pronunzia  n.  386/1989,  unicamente alle ipotesi di soggetti
 originariamente condannati a pena superiore ai tre anni in dipendenza
 di cumulo di pene,  di  per  se'  inferiori  al  detto  limite  -  la
 giurisprudenza   della   Cassazione  (come  avvertito  nell'ordinanza
 restitutoria n. 422/1992), con inversione di  indirizzo,  aveva  gia'
 aderito  alla  interpretazione  restrittiva  auspicata  dal Tribunale
 rimettente, nel senso cioe' della non concedibilita' del beneficio in
 parola ai condannati cui fosse stata inizialmente inflitta  una  pena
 superiore ai tre anni per reato unico.
    E'  sopravvenuta  pero'  la  norma  di  interpretazione  autentica
 (dell'art. 47 ord. pen.), di cui  all'art.  14-  bis  della  legge  7
 agosto  1992  n.  356, la quale ha precisato che "pena espiata", agli
 effetti del limite ostativo alla concessione del beneficio in parola,
 deve intendersi quella "da espiare in  concreto  tenuto  conto  anche
 dell'applicazione di eventuali cause estintive".
    E  proprio  sulla  base  di  tale  ius  superveniens  la  Corte di
 Cassazione, con numerose successive e conformi  decisioni  a  sezioni
 semplici  da  ultimo  anche  avallate  dalla  sezioni unite (sent. n.
 18/1993), ha affermato,  con  ulteriore  ribaltamento  della  propria
 giurisprudenza, la detraibilita' in ogni caso della pena presofferta,
 anche  nei  confronti  quindi  di  condannati  a pena originariamente
 superiore al tetto dei tre anni per reato unico.
    3. - Il diritto vivente -  in  virtu'  di  quest'ultima  pronunzia
 giurisprudenziale   -   si   e'  pertanto  effettivamente  evoluto  e
 consolidato nel senso presupposto dal Collegio a quo, ancorche' sulla
 base di dati ricostruttivi non integralmente coincidenti  con  quelli
 dal medesimo assunti.
    E  cio'  basta  evidentemente  per  ritenere - contro la eccezione
 dell'Avvocatura - la ammissibilita' delle  questioni  sollevate,  che
 occorre quindi esaminare nel merito.
    4.  - In tale prospettiva, deve per altro escludersi che la (ormai
 cosi' definitivamente acquisita) applicabilita'  della  generalizzata
 misura  alternativa  di che si discute (in tutti i casi in cui, quale
 che sia l'entita' della pena inflitta, quella residua da espiare  non
 superi   i   tre  anni)  possa  contrastare  con  il  precetto  della
 ragionevolezza o della eguaglianza.
    Sotto il primo profilo la valorizzazione della pena espiata, anche
 nei confronti di soggetti condannati a pene elevate, riflette infatti
 una opzione che - una volta superato, nei  sensi  e  per  le  ragioni
 indicati,  il  problema  ermeneutico  della  correlativa estensione -
 innegabilmente   comunque   si    riconduce    alla    sfera    della
 discrezionalita'  del  legislatore,  non  soggetta  al  sindacato  di
 costituzionalita'.
    Ne' puo' dirsi, per l'effetto, violato il canone della parita'  di
 trattamento,  perche' la diversita' delle varie posizioni soggettive,
 in termini di meritevolezza del beneficio anche in  dipendenza  della
 pericolosita'  manifestata  dalla  pena originariamente irrogata, ben
 puo' essere valutata (nel bilanciamento con la durata ed i  risultati
 appunto   dell'espiazione)   in   sede  di  concreta  ammissione  del
 condannato alla misura premiale.
    5. - E neppure infine e' ipotizzabile la pretesa vulnerazione  del
 principio  del  buon andamento della amministrazione (art. 97 Cost.),
 poiche' la norma in  esame  non  attiene  alla  organizzazione  degli
 apparati  volti  alla repressione penale, bensi' alla attribuzione di
 benefici a detenuti in vista della loro rieducazione,  governata  dal
 diverso canone dell'art. 27, comma terzo, Cost., che qui non viene in
 discussione.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  non  fondata  la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 47, comma primo, dell'ordinamento penitenziario  (legge  26
 luglio  1975  n.  354  e  successive  modifiche  e integrazioni) come
 interpretato dall'art. 14- bis della legge 7 agosto 1992 n.  356  (di
 conversione  del  d.-l.  1992 n. 306), sollevata, in riferimento agli
 artt. 3, comma primo e secondo e 97 della Costituzione, dal Tribunale
 di sorveglianza di Brescia, con l'ordinanza in epigrafe.
    Cosi' deciso in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 1› dicembre 1993.
                        Il Presidente: CASAVOLA
                         Il redattore: GRANATA
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 14 dicembre 1993.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
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