N. 109 SENTENZA 23 - 31 marzo 1994

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Processo   penale   -   Misure   cautelari   personali  -  Automatica
 applicazione  della  misura  del  divieto  di  espatrio  in  caso  di
 provvedimento  impositivo  di  altra misura coercitiva (nella specie:
 divieto di dimora) - Violazione dei principi  di  ragionevolezza,  di
 proporzionalita'  ed adeguatezza delle misure cautelari, dell'obbligo
 di  motivazione  dei  provvedimenti  giurisdizionali  concernenti  la
 liberta' personale, e della liberta' di circolazione - Illegittimita'
 costituzionale.
 
 (C.P.P., art. 281, comma 2- bis).
 
 (Cost., artt. 3, secondo comma, 13 e 16).
 
(GU n.15 del 6-4-1994 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Gabriele PESCATORE;
 Giudici: avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo
    CAIANIELLO,  avv.  Mauro  FERRI,  prof.  Enzo  CHELI, dott. Renato
    GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof.  Francesco  GUIZZI,  prof.
    Cesare MIRABELLI, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 281, comma 2-
 bis, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il
 12 giugno 1993 dal Tribunale di  Lecco  sulla  richiesta  di  riesame
 proposta  da  De  Marchi  Piero,  iscritta  al  n.  574  del registro
 ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 n. 41, prima serie speciale, dell'anno 1993;
    Udito nella camera di consiglio del 23 febbraio  1994  il  Giudice
 relatore Giuliano Vassalli;
                           Ritenuto in fatto
   1. - Il Tribunale di Lecco, chiamato a pronunciarsi sulla richiesta
 di  riesame  avverso il provvedimento del 25 maggio 1993 con il quale
 il Giudice per le indagini preliminari  presso  lo  stesso  Tribunale
 aveva applicato a De Marchi Piero, indagato, tra l'altro, del delitto
 di  maltrattamenti  in  danno  della moglie e della figlia, la misura
 cautelare del divieto di dimora nel comune di Calco  con  divieto  di
 espatrio,  premesso  che l'ordinanza impositiva del divieto di dimora
 era da ritenere legittimamente  emessa,  ha,  con  ordinanza  del  12
 giugno  1993,  sollevato, in riferimento agli artt. 3, secondo comma,
 13 e 16 della Costituzione, questione di legittimita' dell'art.  281,
 comma  2- bis, del codice di procedura penale (introdotto dall'art. 9
 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306,  convertito  dalla  legge  7
 agosto  1992, n. 356, con modificazioni), "nella parte in cui prevede
 l'automatica applicazione della misura del divieto  di  espatrio  nel
 caso di provvedimenti che impongono il divieto di dimora".
    Osserva   il   Tribunale  che,  nel  caso  di  specie,  la  misura
 "aggiuntiva" si rivela, "oltre  che  gravemente  pregiudizievole  per
 l'indagato  (attesa  la  sua  attivita'  lavorativa,  che comporta la
 necessita',   ampiamente   documentata,   di   continui   spostamenti
 all'estero)",  anche del tutto "superflua" considerando le specifiche
 esigenze  cautelari,   da   ritenere   pienamente   soddisfatte   con
 l'applicazione  del solo divieto di dimora: una misura che presuppone
 "il collegamento diretto fra  un  periculum  (corrispondente  ad  una
 delle  ipotesi previste dall'art. 274) e la presenza dell'imputato in
 una determinata localita'".
    Di  qui  il  contrasto  con  i  canoni  della  proporzionalita'  e
 dell'adeguatezza,  che  sono  alla  base  del  sistema  delle  misure
 cautelari e che devono ritenersi applicativi dei princip/'  enunciati
 dalla  Costituzione  a  salvaguardia di liberta' fondamentali. E cio'
 sia sotto il profilo della  violazione  dell'art.  13  sia  sotto  il
 profilo  della  violazione  dell'art.  16  della Costituzione. Con in
 piu', contrasto con il principio di eguaglianza per la ingiustificata
 equiparazione ai casi in cui la limitazione del diritto  di  espatrio
 si  rivela  necessaria per "tutelare il superiore interesse pubblico"
 dei casi in cui il sacrificio diviene assolutamente superfluo.
    L'automatismo insito nel precetto denunciato si  rivela,  poi,  in
 talune  ipotesi  "addirittura  assurdo", come quando viene imposta la
 misura del divieto di espatrio "nei confronti di persone ristrette in
 carcere, agli arresti domiciliari o gravate dall'obbligo di dimora, e
 che,   quindi,   non  hanno  la  possibilita'  di  circolare  neppure
 all'interno del territorio nazionale".
    2. - Nel giudizio davanti a questa Corte  non  e'  intervenuta  la
 parte  privata ne' ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio
 dei ministri.
                        Considerato in diritto
   1. - Il giudice a quo dubita della legittimita' costituzionale,  in
 riferimento  agli artt. 3, secondo comma, 13 e 16 della Costituzione,
 dell'art.  281,  comma  2-  bis,  del  codice  di  procedura  penale,
 introdotto  dall'art.  9  del  decreto-legge  8  giugno 1992, n. 306,
 convertito dalla legge 7 agosto  1992,  n.  356,  con  modificazioni,
 nella  parte  in cui prevede l'automatica applicazione del divieto di
 espatrio nel caso in cui venga adottato un provvedimento che  imponga
 il divieto di dimora.
    Pure se, per ragioni connesse alla rilevanza, le censure risultano
 incentrate  sull'assetto precettivo derivante dall'applicazione della
 misura del divieto di dimora, l'illegittimita' prospettata  coinvolge
 in  effetti  l'art.  281,  comma 2- bis, nel suo integrale contenuto,
 denunciandosi "l'automatica applicazione della misura" "in ogni  caso
 di  provvedimento  che  dispone altra misura coercitiva". Inoltre, il
 carattere unitario della novazione  normativa  rende  necessaria  una
 verifica   della   legittimita'   costituzionale  della  disposizione
 denunciata nella sua totalita', identica apparendo,  in  relazione  a
 ciascuna delle misure cautelari rispetto alle quali il legislatore ha
 imposto  la  misura "aggiuntiva" in contestazione, la ratio alla base
 della prescrizione secondo cui "Con l'ordinanza che applica una delle
 misure coercitive previste dal presente capo, il giudice  dispone  in
 ogni caso il divieto di espatrio".
    2. - La questione e' fondata.
    Il  divieto di espatrio, introdotto dal codice di procedura penale
 del  1988  nel  quadro  della  "previsione  di  misure   diverse   di
 coercizione personale, fino alla custodia in carcere" (art. 2, n. 59,
 della  legge-delega  16  febbraio 1987, n. 81), rappresenta una delle
 risultanti  della  scelta  pluralistica  voluta  dal  legislatore  in
 materia di misure cautelari. A tale regime fa da corollario il canone
 di   adeguatezza  espresso  dall'art.  275  c.p.p.,  una  norma  che,
 nonostante le "novellazioni" introdotte dall'art. 5, primo comma, del
 decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con  modificazioni,
 dalla  legge  12  luglio  1991,  n. 203, non pare aver perduto il suo
 diretto  legame  con  il  detto  principio,  destinato   peraltro   a
 confrontarsi,  relativamente a taluni reati di eccezionale gravita' -
 con riguardo ai quali e' stata  imposta  la  necessaria  applicazione
 della  custodia  in  carcere  -  con l'apprestamento di un assetto di
 adeguatezza  parzialmente  tipizzato,  se  e  sempreche'  non   siano
 acquisiti  elementi  dai  quali  risulti  che non sussistano esigenze
 cautelari.
    Nella scala di afflittivita' derivante dall'applicazione degli ora
 ricordati principi, il divieto di espatrio, pur  occupando  il  primo
 gradino,  rappresenta  una  misura incidente nell'area della liberta'
 personale, secondo una linea cui, peraltro,  era  gia'  approdata  la
 giurisprudenza  della  Corte  di cassazione. Ed infatti quest'ultima,
 dopo un periodo di oscillazioni, e', da  tempo,  pressoche'  costante
 nel  ritenere  ricorribile, a norma dell'art. 111, primo comma, della
 Costituzione,  il  provvedimento con il quale l'autorita' giudiziaria
 concede o nega il nulla-osta al rilascio  del  passaporto.  E  questo
 "nulla-osta"  e' ora divenuto alla stregua del disposto dell'art. 281
 del codice di procedura penale momento essenziale  della  misura  del
 divieto  di  espatrio. Da cio' consegue l'assoggettamento del divieto
 di espatrio al regime delle misure  coercitive  anche  per  quel  che
 concerne  le  condizioni  per la sua applicabilita', sia con riguardo
 all'esistenza di gravi indizi di colpevolezza,  sia  con  riferimento
 alle  esigenze  cautelari,  la  cui  mancata  indicazione comporta la
 nullita' dell'ordinanza impositiva a norma  dell'art.  292,  primo  e
 secondo comma, del codice di procedura penale.
    Relativamente alle esigenze cautelari il divieto di espatrio viene
 contrassegnato  generalmente  dal  pericolo  di  fuga, risultando, di
 norma, inidoneo a fronteggiare le altre esigenze  indicate  nell'art.
 274  del  codice  di  procedura  penale. Questa conclusione si ricava
 anche dalla interferenza tra la disciplina riguardante la  misura  in
 esame  e  la  preesistente gia' ricordata disciplina sui passaporti e
 sugli  altri  documenti  validi  per  l'espatrio,  delle   quali   il
 legislatore   ha  prevenuto  il  sovrapporsi  dettando,  in  sede  di
 coordinamento, una norma  (l'art.  215  del  decreto  legislativo  28
 luglio  1989,  n.  271)  con  cui,  appunto, si dispone l'abrogazione
 dell'art. 3, primo comma, lettera c, della legge 21 novembre 1967, n.
 1185, che, da un lato, precludeva il conseguimento del passaporto per
 coloro contro i quali  esistesse  mandato  o  ordine  di  cattura  e,
 dall'altro   lato,   lo   subordinava  al  nulla-osta  dell'autorita'
 giudiziaria competente nei confronti  delle  persone  assoggettate  a
 procedimento  penale  per  un  reato  relativamente al quale la legge
 consentisse l'emissione del mandato di cattura.
    3.  -  Dunque,  il  divieto  di  espatrio,  anche  in  forza   del
 progressivo  attestarsi della interpretazione giurisprudenziale verso
 una linea  di  tendenza  nel  senso  della  giustiziabilita'  in  via
 ordinaria  dei provvedimenti in tema di nulla-osta per il passaporto,
 viene ricondotto nell'area delle misure  in  qualche  modo  incidenti
 sulla  liberta'  personale  (oltre che, ovviamente, sulla liberta' di
 circolazione  del  cittadino).  E,  pur  rappresentando   la   misura
 coercitiva  connotata  dal  minor  tasso  di  afflittivita',  assume,
 nell'originario tessuto codicistico, un ruolo di  assoluta  autonomia
 rispetto alle altre misure. Il che - anche prima della emanazione del
 decreto-legge  n.  306  del  1992  - non escludeva la possibilita' di
 cumulo, alle condizioni previste (art. 276 del  codice  di  procedura
 penale), con altre misure purche' ognuna delle misure disposte avesse
 una   sua   autonoma   ragion   d'essere   e   il  cumulo  risultasse
 intrinsecamente compatibile con ciascuna delle misure adottate.
    4. - L'art. 9, primo comma, del decreto-legge 8  giugno  1992,  n.
 306,  convertito  dalla  legge 7 agosto 1992, n. 356, nel prescrivere
 che con l'ordinanza applicativa di una delle altre misure  coercitive
 previste  nel presente capo (e cioe', l'obbligo di presentazione alla
 polizia giudiziaria, il divieto e l'obbligo di  dimora,  gli  arresti
 domiciliari,  la custodia cautelare in carcere, la custodia cautelare
 in luogo di cura), il giudice dispone in  ogni  caso  il  divieto  di
 espatrio, ha inteso "evitare che, per inerzia o dimenticanza, persone
 raggiunte  da  misure  cautelari possano liberamente espatriare senza
 alcun controllo giudiziale" (cosi' la Relazione al disegno  di  legge
 n.  328,  comunicato  alla Presidenza del Senato l'8 giugno 1992). Se
 questo  e'  lo  scopo  che  il  legislatore ha inteso perseguire, una
 lettura della disposizione  censurata  in  modo  da  interpretarla  -
 conformemente   al   contesto   normativo  poggiante  sui  canoni  di
 proporzionalita' e di adeguatezza - nel senso che, nell'adottare  una
 delle  misure  cautelari  previste  dal  capo  II  del  libro III, ad
 eccezione di quella prevista dall'art. 281, il giudice debba valutare
 la rispondenza alle esigenze  di  cui  all'art.  274  del  codice  di
 procedura  penale  della  applicazione  "aggiuntiva"  del  divieto di
 espatrio, non si rivela percorribile. A cio' aggiungasi che l'approdo
 ad un simile procedimento  ermeneutico  appare  sicuramente  precluso
 dalla  chiara  conformazione lessicale della norma denunciata, da cui
 si  desume  la  sottrazione   al   giudice   di   ogni   momento   di
 discrezionalita'  che  consenta  di  verificare  volta  per  volta le
 esigenze cautelari che rendono necessario adottare il  detto  divieto
 come misura accessoria.
    5.  -  L'art.  281,  comma  2-  bis,  interpretato nei termini ora
 riferiti, contrasta, dunque, in  primo  luogo,  con  l'art.  3  della
 Costituzione,  apparendo  intrinsecamente  irragionevole  un precetto
 attraverso il quale  si  perviene  a  far  gravare  sull'indagato  (o
 sull'imputato),  cui  sia  stata applicata una qualsiasi delle misure
 cautelari previste nel capo II,  il  carico  di  un'ulteriore  misura
 afflittiva  che  -  proprio  per  l'automatismo derivante dal lessico
 utilizzato  dalla  "novella"  -  potrebbe  rivelarsi,  nel  concreto,
 assolutamente    non    rispondente   ai   ricordati   princip/'   di
 proporzionalita' e di  adeguatezza.  Senza  contare  che  rispetto  a
 talune  misure,  direttamente incidenti sullo status libertatis (come
 la custodia cautelare in carcere),  il  divieto  di  espatrio,  anche
 perche',  almeno  di  norma,  direttamente  collegato  alle  esigenze
 cautelari di cui all'art. 274, lettera b,  del  codice  di  procedura
 penale,  viene a risultare strumento assolutamente incongruo - se non
 pure incompatibile - proprio in vista  delle  esigenze  astrattamente
 perseguite  dall'art.  281.  Ovviamente,  tale  divieto potra' essere
 disposto dal giudice all'atto della cessazione della misura cautelare
 piu' restrittiva. Cosi' pure nulla impedisce al giudice  di  disporre
 il  divieto  stesso come misura aggiunta ad altre (quali l'obbligo di
 presentazione alla polizia  giudiziaria,  l'obbligo  di  dimora,  gli
 stessi   arresti   domiciliari)   quando  particolari  esigenze  cio'
 consiglino.
    6. - Risultano lesi dalla disposizione della  norma  sottoposta  a
 giudizio  di costituzionalita' anche gli ulteriori parametri invocati
 dal ricorrente. L'art. 13, secondo  comma,  della  Costituzione,  che
 postula   come  condizione  per  la  legittimita'  dei  provvedimenti
 giurisdizionali comunque operanti nell'area della liberta'  personale
 l'atto  motivato  dell'autorita'  giudiziaria,  qui  non richiesto in
 conseguenza della predeterminazione legislativa  della  misura  quale
 necessaria  conseguenza  dell'adozione  dei  provvedimenti coercitivi
 contemplati nel capo secondo del libro quarto;
 l'art. 16 della  Costituzione  stessa,  anch'esso  qui  correttamente
 chiamato  in  causa  per le limitazioni alla liberta' di circolazione
 comunque  derivanti  dall'automatica  applicazione  del  divieto   di
 espatrio  per  il  cittadino,  senza  che  all'obbligo imposto di non
 uscire dal territorio nazionale corrisponda un'esigenza concretamente
 apprezzabile dal giudice.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara   l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  281,  comma
 2-bis, del codice di procedura penale.
    Cosi' deciso in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, 23 marzo 1994.
                       Il Presidente: PESCATORE
                        Il redattore: VASSALLI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 31 marzo 1994.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
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