N. 341 SENTENZA 19 - 25 luglio 1994

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Reato in genere - Oltraggio a pubblico ufficiale  -  Minimo  edittale
 della  pena (mesi sei) Sproporzione ed eccessivita' anche in rapporto
 all'assai piu' ridotto minimo di pena applicabile  per  il  reato  di
 ingiuria  -  Irragionevole bilanciamento tra la tutela della pubblica
 amministrazione e il valore della liberta' personale  -  Lesione  del
 principio  di  finalita'  rieducativa  della  pena  -  Illegittimita'
 costituzionale  parziale  -  Assorbimento  di  ulteriore  profilo   -
 Possibilita'  per  il legislatore di stabilire un diverso trattamento
 sanzionatorio, purche' conforme ai principi surrichiamati.
 
 (C.P., art. 341, primo comma).
 
 (Cost., artt. 3, 27, terzo comma, e 97)
 
(GU n.32 del 3-8-1994 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio
    BALDASSARRE,  prof.  Vincenzo  CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof.
    Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, prof.  Giuliano  VASSALLI,  prof.
    Francesco   GUIZZI,   prof.   Cesare   MIRABELLI,  prof.  Fernando
    SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 341 del  codice
 penale, promosso con ordinanza emessa il 29 marzo 1993 dal Pretore di
 Padova  nel  procedimento  penale  a  carico  di  Giacometti Antonio,
 iscritta al n. 11 del registro  ordinanze  1994  e  pubblicata  nella
 Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  6,  prima serie speciale,
 dell'anno 1994;
    Udito nella camera di consiglio dell'11  maggio  1994  il  Giudice
 relatore Ugo Spagnoli;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  All'esito  dell'istruttoria  dibattimentale  a carico di un
 imputato del reato di oltraggio a pubblico ufficiale, il  Pretore  di
 Padova  ha  sollevato  questione  di  legittimita' costituzionale, in
 riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma e 97,  primo  comma,  della
 Costituzione,  dell'art.  341  del codice penale, "nella parte in cui
 prevede il limite minimo edittale di sei mesi di reclusione".
    Secondo il Pretore, tale  pena  minima  appare,  per  il  radicale
 mutamento  dei  valori  morali e giuridici prodottosi nel lungo tempo
 trascorso dall'entrata in vigore del codice penale, e in relazione al
 quadro delineato dalla Costituzione, assolutamente sproporzionata  in
 eccesso.
    L'oltraggio,  osserva  il  remittente,  e'  in realta' un'ingiuria
 aggravata ai sensi dell'art. 61 n. 10 cod. pen, differendo da  questa
 solo  per  il  diverso  oggetto  giuridico,  il  quale  tuttavia  non
 giustifica la rilevante differenza di trattamento  sanzionatorio  tra
 le due fattispecie criminose.
    L'elevato  livello  del minimo edittale, comportando l'irrogazione
 di pene sproporzionate al  grado  di  disvalore  sociale  dei  fatti,
 spesso  di  lieve  entita', in cui si concreta il reato in questione,
 contrasterebbe, ad avviso del Pretore, in primo luogo con l'art.  27,
 terzo  comma,  della  Costituzione,  essendo compromessa la finalita'
 rieducativa della pena.
    Sarebbe poi violato l'art. 97, primo  comma,  della  Costituzione,
 perche'  la  gravita' della pena, non consentendo l'applicabilita' di
 sanzioni  sostitutive  pecuniarie,   ed   ostacolando   comunque   la
 definibilita'  del  procedimento  in  sede  predibattimentale,  rende
 inevitabili  istruttorie  dibattimentali  "da   assise",   cosi'   da
 determinare costi processuali rilevanti e "l'inutile 'occupazione' di
 una struttura delicatissima gia' di per se' quasi moribonda".
    Infine,  secondo  il  giudice  a  quo, sarebbe leso anche l'art. 3
 della Costituzione, per la differenza  di  trattamento  sanzionatorio
 tra la fattispecie di cui all'art. 341 cod. pen. e quella di cui agli
 artt.   594   e  61  n.  10  cod.  pen.  ,  che  non  trova  adeguata
 giustificazione razionale nella sola diversita'  del  bene  giuridico
 tutelato, considerato anche che l'esigenza di differenziazione tra le
 due  ipotesi  criminose  riceve gia' una significativa realizzazione,
 sul piano processuale, nella procedibilita' d'ufficio  per  il  primo
 reato.
    Il  sollecitato  intervento  di  eliminazione del minimo edittale,
 oltre a  risolvere  i  riferiti  problemi  di  costituzionalita',  si
 configurerebbe,  secondo il Pretore, come una scelta non interferente
 con la sfera  di  discrezionalita'  legislativa,  rinvenendosi  nello
 stesso  sistema,  in  virtu'  della generale previsione dell'art. 23,
 primo comma,  cod.  pen.  (limite  generale  di  quindici  giorni  di
 reclusione) l'individuazione del trattamento sanzionatorio minimo.
                        Considerato in diritto
   1.  - Il giudice a quo dubita che l'art. 341 cod. pen., nella parte
 in cui prevede, per il reato di oltraggio, il limite minimo  edittale
 di sei mesi di reclusione, si ponga in contrasto con gli artt. 3, 27,
 terzo comma, e 97, primo comma, della Costituzione.
    Secondo  il  Pretore  tale  pena  minima  sarebbe  attualmente, in
 presenza  di  un  mutamento  rilevantissimo  dei  valori   morali   e
 giuridici,  o  meglio  della  loro  scala  gerarchica,  assolutamente
 sperequata in eccesso: di qui, in primo luogo,  il  sospetto  di  una
 violazione  dell'art.  27,  terzo  comma, della Costituzione, poiche'
 l'irrogazione di pene sproporzionate al grado di effettivo  disvalore
 dei  fatti,  spesso  di lieve entita', in cui si concreta il reato di
 oltraggio, comprometterebbe la finalita' rieducativa della  pena.  In
 secondo luogo, la norma impugnata si porrebbe in contrasto con l'art.
 3 della Costituzione, perche' la rilevante differenza del trattamento
 sanzionatorio minimo ivi previsto rispetto a quello di cui agli artt.
 594  e  61,  n.  10  cod.  pen.  (ingiuria  aggravata) non troverebbe
 adeguata  giustificazione  nella  diversita'   del   bene   giuridico
 tutelato.  Infine,  la  previsione  contestata  violerebbe l'art. 97,
 primo comma, della Costituzione,  perche'  la  gravita'  della  pena,
 precludendo  la  possibilita'  di  definire  i  procedimenti  in fase
 predibattimentale, determinerebbe costi processuali rilevantissimi.
    La questione sollevata dunque ha ad  oggetto  soltanto  il  minimo
 edittale.  Essa  non  concerne  pertanto ne' la previsione del limite
 massimo della pena, ne' le rimanenti disposizioni dell'art. 341  cod.
 pen.
    2.  -  Questa  Corte ha gia' avuto occasione di esaminare problemi
 analoghi  a  quelli  posti  dalla  questione  attuale.  In   passato,
 respingendo  questioni  di  legittimita' costituzionale formulate con
 esclusivo  riferimento  all'art.  3  della  Costituzione  -  per  via
 dell'asserita  arbitraria  diversificazione,  dal  punto di vista del
 trattamento sanzionatorio, tra il reato  di  oltraggio  e  quello  di
 ingiuria  -  la  Corte  dava  conto  del fatto che la norma impugnata
 appariva espressione di una concezione autoritaria, ma affermava  che
 la  sua eventuale modifica competeva al legislatore (sentenze nn. 109
 del 1968, 165 del 1972, 51 del 1980). In seguito,  pronunziandosi  su
 una  questione  analoga,  con  la  quale  pero' si contestava anche e
 specificamente la eccessiva  sproporzione  del  minimo  edittale  per
 l'oltraggio  in  riferimento alla finalita' rieducativa della pena di
 cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione, la Corte, rigettata
 la censura relativa all'art.  3  della  Costituzione,  ammetteva  che
 "rimane sicuramente, specie in talune ipotesi di fatto, una effettiva
 sproporzione  fra  sanzione  comminata  e  disvalore  del  fatto", ma
 ribadiva nuovamente che ogni iniziativa  in  proposito  competeva  al
 legislatore  (ordinanza n. 323 del 1988). Successivamente, esaminando
 un'altra questione, formulata in termini pressoche' identici a quella
 presente, la Corte ne pronunziava la manifesta  infondatezza,  da  un
 lato,  ribadendo  ancora  una  volta  la spettanza al legislatore del
 giudizio sulla congruenza della pena rispetto al fatto-reato anche in
 relazione alla mutata coscienza sociale e ai principi costituzionali;
 dall'altro,  sottolineando  come  l'art.  27,  terzo   comma,   della
 Costituzione  non fosse invocabile nel caso di specie poiche' il fine
 rieducativo della pena andava riferito esclusivamente  alla  fase  di
 esecuzione di essa (ordinanza n. 127 del 1989).
    In  ordine  a questo complessivo orientamento si puo' osservare in
 primo  luogo  come  il  principio   secondo   cui   appartiene   alla
 discrezionalita'  del legislatore la determinazione della quantita' e
 qualita' della sanzione penale costituisce  un  dato  costante  della
 giurisprudenza  costituzionale  che  deve  essere  riconfermato:  non
 spetta infatti alla Corte rimodulare le  scelte  punitive  effettuate
 dal   legislatore,   ne'   stabilire  quantificazioni  sanzionatorie.
 Tuttavia, come e' stato sottolineato soprattutto nella giurisprudenza
 piu'  recente,  alla  Corte rimane il compito di verificare che l'uso
 della discrezionalita' legislativa  in  materia  rispetti  il  limite
 della ragionevolezza. In particolare, con la sentenza n. 409 del 1989
 la   Corte   ha   definitivamente   chiarito  che  "il  principio  di
 uguaglianza, di cui all'art.  3,  primo  comma,  della  Costituzione,
 esige  che  la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito
 commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia  nel  contempo
 alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni
 individuali;   ..   le   valutazioni  all'uopo  necessarie  rientrano
 nell'ambito  del  potere  discrezionale  del  legislatore,   il   cui
 esercizio  puo' essere censurato, sotto il profilo della legittimita'
 costituzionale, soltanto nei casi in cui non sia stato rispettato  il
 limite della ragionevolezza" (v. pure nello stesso senso sentenze nn.
 343  e  422  del  1993).  Infatti, piu' in generale, "il principio di
 proporzionalita' .. nel campo del diritto penale  equivale  a  negare
 legittimita' alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee
 a   raggiungere   finalita'   statuali   di  prevenzione,  producono,
 attraverso  la   pena,   danni   all'individuo   (ai   suoi   diritti
 fondamentali)  ed  alla  societa'  sproporzionatamente  maggiori  dei
 vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la  tutela  dei
 beni  e valori offesi dalle predette incriminazioni" (sentenza n. 409
 del 1989).
    In altre recenti decisioni,  inoltre,  la  Corte  ha  maturato  la
 convinzione  che la finalita' rieducativa della pena non sia limitata
 alla sola fase dell'esecuzione, ma costituisca  "una  delle  qualita'
 essenziali  e  generali  che caratterizzano la pena nel suo contenuto
 ontologico,  e  l'accompagnano   da   quando   nasce,   nell'astratta
 previsione  normativa,  fino  a quando in concreto si estingue": tale
 finalita' rieducativa implica  pertanto  un  costante  "principio  di
 proporzione" tra qualita' e quantita' della sanzione, da una parte, e
 offesa, dall'altra (sentenza n. 313 del 1990; v. pure sentenza n. 343
 del 1993, confermata dalla sentenza n. 422 del 1993).
    In applicazione di questi principi le sentenze da ultimo ricordate
 sono   giunte   a  dichiarare  costituzionalmente  illegittime,  come
 palesemente irragionevoli,  diverse  previsioni  di  sanzioni  penali
 giudicando   che  la  loro  manifesta  mancanza  di  proporzionalita'
 rispetto ai fatti-reato si traduceva in arbitrarie  e  ingiustificate
 disparita' di trattamento, o in violazioni dell'art. 27, terzo comma,
 della  Costituzione.  In  particolare  la sentenza n. 343 del 1993 ha
 affermato che "la palese sproporzione del sacrificio  della  liberta'
 personale"   provocata   dalla  previsione  di  una  sanzione  penale
 manifestamente eccessiva rispetto al disvalore dell'illecito "produce
 .. una vanificazione  del  fine  rieducativo  della  pena  prescritto
 dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, che di quella liberta'
 costituisce  una  garanzia  istituzionale  in relazione allo stato di
 detenzione".
    3. - Al fine di valutare  la  rispondenza  della  previsione  oggi
 contestata  ai  ricordati  criteri  di  giudizio,  e  segnatamente al
 principio di proporzionalita', si puo' iniziare con  l'osservare  che
 in  altri  Paesi  europei di democrazia matura non solo non esistono,
 per le ipotesi corrispondenti, pene cosi' severe, ma e' quasi  sempre
 ignorato  lo  stesso  reato  di  oltraggio:  al  di  la'  di  ipotesi
 particolari, riguardanti i membri del Parlamento  o  i  soggetti  che
 partecipano  alla  vita  politica,  le ingiurie e le diffamazioni nei
 confronti  dei  pubblici  ufficiali  sono infatti normalmente colpite
 nello stesso modo con cui  sono  punite  quelle  rivolte  ai  privati
 cittadini.
    D'altra  parte, nello stesso ordinamento italiano, la sanzione per
 l'oltraggio prevista nel codice penale del 1889 era assai piu'  lieve
 di  quella odierna, essendo limitata alla reclusione sino a sei mesi,
 o alla multa.
    Si puo'  dunque  affermare  che  la  previsione  di  sei  mesi  di
 reclusione  come  minimo  della  pena  e quindi come pena inevitabile
 anche per le piu' modeste infrazioni non e' consona  alla  tradizione
 liberale  italiana  ne' a quella europea. Questo unicum, generato dal
 codice penale del 1930,  appare  piuttosto  come  il  prodotto  della
 concezione  autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali
 e cittadini tipica di quell'epoca storica e discendente dalla matrice
 ideologica  allora  dominante,  concezione  che  e'   estranea   alla
 coscienza democratica instaurata dalla Costituzione repubblicana, per
 la  quale  il  rapporto  tra  amministrazione  e  societa'  non e' un
 rapporto di imperio, ma  un  rapporto  strumentale  alla  cura  degli
 interessi di quest'ultima.
    Il   necessario  e  ragionevole  bilanciamento  di  interessi  che
 presiede alla determinazione della misura della pena  non  puo',  nel
 caso  presente,  non  tenere  conto  del  mutato  assetto  di  questo
 rapporto.
    Gia' questa prima, piu' generale, considerazione induce  dunque  a
 ritenere  che  la  rigidita' e severita' del minimo edittale previsto
 dal  legislatore  del  1930  e  ancora  vigente  sia  frutto  di   un
 bilanciamento   ormai   manifestamente   irragionevole   tra   tutela
 dell'onore e  del  prestigio  del  pubblico  ufficiale  (e  del  buon
 andamento  dell'amministrazione)  anche nei casi di minima entita', e
 quello della liberta' personale del soggetto agente.
    Ulteriore sintomo della definitiva affermazione,  nella  coscienza
 sociale, della convinzione della palese incongruenza della previsione
 sanzionatoria  impugnata  e'  dato  dall'atteggiamento dei giudici di
 merito che, nel ritenere la norma incriminatrice dell'oltraggio volta
 a colpire una gamma estremamente  vasta  di  comportamenti,  compresi
 quelli  di tenue o minima offensivita', per di piu' in riferimento ad
 una platea notevolmente estesa di soggetti passivi, hanno  continuato
 ad   avvertire   il   disagio   di  essere  tenuti  a  dare  risposte
 sanzionatorie  manifestamente  eccessive,  tanto  da   continuare   a
 investire  questa  Corte  di ripetute questioni di costituzionalita'.
 Simile situazione di disagio nei giudici e  nella  societa',  d'altra
 parte, e' stata aggravata, fino a superare ogni limite di ragionevole
 tollerabilita' dal fatto che, nonostante i ripetuti inviti rivoltigli
 da  questa  Corte  perche'  provvedesse  ad adeguare la disciplina in
 oggetto  ai  principi   costituzionali,   il   legislatore   non   e'
 intervenuto,  non  essendo  state  mai  portate a compimento le varie
 iniziative di riforma avanzate nel corso degli anni.
    A  quanto  detto  finora  si  puo'  aggiungere  che  la  manifesta
 irragionevolezzadella  norma impugnata emerge anche dal raffronto con
 il  trattamento  sanzionatorio  previsto  dall'art.  594  del  codice
 penale.
    La  plurioffensivita'  del  reato  di  oltraggio  rende certamente
 ragionevole  un  trattamento  sanzionatorio  piu'  grave  di   quello
 riservato  all'ingiuria, in relazione alla protezione di un interesse
 che supera quello della persona  fisica  e  investe  il  prestigio  e
 quindi il buon andamento della pubblica amministrazione.
    Cio'  non  toglie pero' che nei casi piu' lievi, il prestigio e il
 buon andamento della pubblica amministrazione, scalfiti da ben  altri
 comportamenti,  appaiono  colpiti  in  modo  cosi'  irrisorio  da non
 giustificare che la pena minima debba necessariamente  essere  dodici
 volte  superiore  a quella prevista per il reato di ingiuria. Anzi in
 questi casi e' piu' che mai  evidente  l'irragionevole  bilanciamento
 tra  la  tutela  dell'amministrazione  e  del pubblico ufficiale e il
 valore della liberta' personale.
    Il giudizio sulla irragionevolezza  della  norma  in  esame  trova
 indiretta  ma  significativa  conferma nella disciplina proposta, nel
 1992, dalla  Commissione  ministeriale  per  la  riforma  del  codice
 penale. Con essa si prevede che l'offesa all'onore e al prestigio del
 pubblico ufficiale non costituisce piu' una figura autonoma di reato,
 ma  solo  una  aggravante  del  reato  di  ingiuria  (in  questo caso
 perseguibile d'ufficio). Una riforma che, secondo la relazione, vuole
 essere "in armonia con  una  visuale  democratica  dei  rapporti  tra
 pubblica  amministrazione e cittadini" e che fa seguito alle numerose
 proposte di modifica che si sono succedute dal  1945  (dopo  che  era
 stata    ripristinata    con   l'art.   4   del   decreto-legislativo
 luogotenenziale 14  settembre  1944,  n.  288  l'esimente  del  fatto
 arbitrario  del  pubblico  ufficiale)  tutte  dirette ad attenuare il
 trattamento sanzionatorio minimo previsto nel reato di oltraggio.  In
 conclusione  l'art.  341,  primo  comma,  del codice penale deve, con
 riferimento agli artt. 3  e  27,  terzo  comma,  della  Costituzione,
 essere  dichiarato  incostituzionale  nella parte in cui prevede come
 minimo edittale la reclusione per mesi sei,  rimanendo  assorbita  la
 censura relativa all'art. 97 della Costituzione.
    Venuto meno cosi' il limite censurato, e' possibile individuare la
 pena   minima   da  applicare  per  il  reato  in  questione  facendo
 riferimento al limite di quindici giorni fissato in via generale  per
 la  pena  della  reclusione  dall'art.  23 cod. pen. , senza con cio'
 effettuare  alcuna  opzione  invasiva  della   discrezionalita'   del
 legislatore,  il  quale  peraltro  resta  libero di stabilire, per il
 reato  medesimo,  un  diverso  trattamento   sanzionatorio,   purche'
 ragionevole  nei sensi e secondo i principi illustrati nella presente
 pronunzia.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  341,   primo
 comma,  del  codice  penale  nella  parte  in cui prevede come minimo
 edittale la reclusione per mesi sei.
    Cosi' deciso in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, 19 luglio 1994.
                        Il Presidente: CASAVOLA
                        Il redattore: SPAGNOLI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 25 luglio 1994.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
 94C0893