N. 490 ORDINANZA 15 - 30 dicembre 1994

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Fallimento - Societa' commerciali - Natura di piccoli imprenditori  -
 Esclusione  -  Analoga  questione  gia'  esaminata  dalla Corte (vedi
 sentenze nn. 395, 374, e 11 del 1993) - Richiamo  alle  sentenze  nn.
 54/1991 e 266/1994 - Erroneita' delle premesse intepretative da parte
 del  giudice    a  quo  in  contrasto  con  lo  stabile  orientamento
 giurisprudenziale - Manifesta infondatezza.
 
 (R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 1, secondo comma, ultima parte).
 
 (Cost., art. 3, primo comma, e 24).
 
(GU n.1 del 4-1-1995 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, prof. Antonio BALDASSARRE, prof.
    Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI,  prof.
    Enzo  CHELI,  dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof.
    Francesco  GUIZZI,  prof.   Cesare   MIRABELLI,   prof.   Fernando
    SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO;
 ha pronunciato la seguente
                               ORDINANZA
 nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 1, ultima parte,
 del  Regio  decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento,
 del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata  e  della
 liquidazione   coatta   amministrativa   promossi   con  le  seguenti
 ordinanze:
      1) ordinanza emessa il 4 maggio  1994  dal  Tribunale  di  Monza
 sull'istanza  proposta  dalla  s.p.a.  Mariovilla nei confronti della
 s.d.f. G.A.M. Luce, iscritta al n. 488 del registro ordinanze 1994  e
 pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale  della Repubblica n. 37, prima
 serie speciale, dell'anno 1994;
     2) ordinanza emessa il 26 maggio 1994  dal  Tribunale  di  Rimini
 sull'istanza  proposta  dalla Banca Popolare Valconca di Morciano nei
 confronti della s.a.s. Carnevali Evio e C., iscritta al  n.  534  del
 registro  ordinanze  1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
 Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 1994;
    Visti  gli  atti  di  intervento  del Presidente del Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio del 14 dicembre  1994  il  Giudice
 relatore Francesco Guizzi;
    Ritenuto   che  nel  corso  del  procedimento  instaurato  per  la
 dichiarazione di fallimento della societa' di fatto  G.A.M.  Luce  di
 Sandri  Andrea  e  La  Rosa  Antonino,  il  Tribunale  di  Monza, con
 ordinanza in data 4 maggio 1994, ha sollevato, in relazione  all'art.
 3,   primo  comma,  della  Costituzione,  questione  di  legittimita'
 costituzionale dell'art. 1, ultima parte, del Regio decreto 16  marzo
 1942,  n.  267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo,
 dell'amministrazione  controllata   e   della   liquidazione   coatta
 amministrativa),  nella parte in cui dispone che "in nessun caso sono
 considerati piccoli imprenditori le societa' commerciali";
      che, ad avviso del Tribunale rimettente, la societa'  debitrice,
 non iscritta nell'Albo delle imprese artigiane, svolgeva attivita' di
 produzione  e  vendita di lampade con l'esclusivo lavoro dei due soci
 ed era  alimentata  da  introiti  particolarmente  modesti,  si'  che
 potrebbe  essere  ritenuta  "piccola  impresa"  se  non vi ostasse il
 disposto dell'ultima parte dell'art. 1 del citato  Regio  decreto  n.
 267;
      che,  di  conseguenza,  il  Tribunale  ha sollevato questione di
 legittimita' costituzionale  della  norma  anzidetta  per  violazione
 dell'articolo  3,  primo  comma,  della  Costituzione, nonostante una
 precedente negativa pronuncia di questa Corte (sent. n. 54 del 1991);
      che   il   concetto    di    piccolo    imprenditore,    secondo
 l'interpretazione   corrente,   si  riferirebbe  esclusivamente  alle
 imprese individuali e non a quelle costituite  in  forma  societaria,
 anche  quando,  per limiti dimensionali ed attivita' esercitata, esse
 non differiscono dalle prime, si' che  ne  discenderebbe  una  palese
 disparita'  di  trattamento  non  solo tra imprenditori individuali e
 piccole societa', ma, in questo stesso ambito,  tra  le  societa'  di
 persone  a  seconda che rivestano la qualifica formale di artigiane o
 commerciali;
      che  tale  ultima  incongruenza  sarebbe  stata  favorita  dalla
 giurisprudenza  della Corte costituzionale, la quale, con la sentenza
 n. 368  del  1991,  avrebbe  affermato  l'esclusione  delle  societa'
 artigiane  dal  fallimento  e  l'assoggettabilita'  di  tutte  quelle
 imprese societarie che - per limiti dimensionali e per  l'assenza  di
 speculazione e di profitto - non risultino piccoli imprenditori;
      che   l'irrazionale   disparita'   di  trattamento  si  apprezza
 ulteriormente in considerazione del fatto che la legge 8 agosto 1985,
 n.  443  (legge  quadro  per  l'artigianato),  secondo  una   diffusa
 interpretazione    della    giurisprudenza,   richiede   -   per   la
 qualificazione di societa' artigiana - l'iscrizione  nell'Albo  delle
 imprese  istituito  presso la Camera di commercio, onde due societa',
 svolgenti le medesime attivita' economiche senza intento speculativo,
 sia per la modestia dei mezzi sia per la prevalenza  del  lavoro  sul
 capitale,  sarebbero  diversamente  trattate  a seconda che abbiano o
 meno richiesto l'iscrizione nel predetto Albo;
      che, pur avendo  questa  Corte  respinto  analoga  questione  di
 costituzionalita'  con  le sentenze nn. 395, 374 e 11 del 1993 (tutte
 con preciso richiamo alla sentenza n.  54  del  1991),  il  tribunale
 rimettente  ha creduto di doverla riproporre in ordine allo specifico
 profilo  della  differenziazione  dei  trattamenti conseguibili sulla
 base dell'iscrizione (o  meno)  della  societa'  personale  nell'Albo
 previsto dalla legge;
      che,  con  altra  ordinanza,  emessa  nel  procedimento  per  la
 dichiarazione di fallimento della societa'  in  accomandita  semplice
 Carnevali  Evio  e  C.,  il  Tribunale di Rimini ha sollevato analoga
 questione di costituzionalita' relativa all'art.  1,  secondo  comma,
 del Regio decreto n. 267 del 1942;
      che,  anche  in questo caso, la societa' debitrice avrebbe tutte
 le caratteristiche per essere qualificata come  piccolo  imprenditore
 se non vi ostasse la disposizione impugnata;
      che,  ad  avviso  del  giudice  a  quo, all'attuale stadio della
 legislazione   la   presunzione   di   speculazione    e    profitto,
 caratteristica   delle   societa'   commerciali,  non  dovrebbe  piu'
 ritenersi  elemento  essenziale  delle  societa'  di  capitale,  come
 mostrerebbe l'esempio delle societa' sportive;
      che  ne  conseguirebbe  l'irrazionalita',  nel  mutato  contesto
 legislativo, della presunzione  assoluta  della  finalita'  lucrativa
 stabilita  per  tutte le societa' nell'ultimo comma dell'art. 1 della
 legge fallimentare, tuttora in vigore,  in  quanto  essa  impedirebbe
 all'impresa  societaria  di  fornire  al  giudice  la  prova circa le
 proprie piccole dimensioni (e, quindi, la  prova  dell'assenza  dello
 scopo di lucro);
      che  altrettanto  irragionevole sarebbe - rispetto alle societa'
 comnmerciali di persone - il differente  trattamento  riservato  alle
 imprese  artigiane  a  struttura  societaria,  per  le  quali  non vi
 sarebbero invece ostacoli all'accertamento delle  caratteristiche  di
 piccola  impresa,  ai  sensi dell'art. 2083 codice civile (censure di
 incostituzionalita' in relazione ai parametri di cui agli art. 3 e 24
 della Costituzione);
      che, per entrambi i giudizi, e' intervenuto  il  Presidente  del
 Consiglio   dei  ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura
 generale  dello   Stato,   concludendo   per   l'inammissibilita'   o
 l'infondatezza   della   questione   di  legittimita'  costituzionale
 sollevata;
    Considerato che, con  argomenti  gia'  valutati  da  questa  Corte
 (sent.  n.  266  del  1994),  con  le  due  ordinanze  in esame viene
 impugnata l'identica disposizione rappresentata dall'art. 1,  secondo
 comma,  ultima  parte,  del  Regio  decreto  16  marzo  1942,  n. 267
 (Disciplina    del    fallimento,    del    concordato    preventivo,
 dell'amministrazione   controllata   e   della   liquidazione  coatta
 amministrativa), nella parte in cui stabilisce che  "in  nessun  caso
 sono considerati piccoli imprenditori le societa' commerciali";
      che  l'unica  sostanziale nuova prospettazione e' costituita dal
 preteso diverso trattamento delle societa' "di piccole dimensioni"  a
 seconda  che  abbiano (o meno) richiesto l'iscrizione nell'Albo delle
 imprese artigiane;
      che in ordine all'assoggettabilita' (o meno) al fallimento della
 societa' artigiana devesi prendere ulteriormente  atto  -  come  gia'
 rilevato nella citata sentenza n. 266 - dell'errato presupposto d'uno
 stabile orientamento giurisprudenziale;
      che,  pertanto,  previa la riunione dei giudizi, la questione va
 dichiarata manifestamente infondata.
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo  1953,  n.
 87  e 9, secondo comma, delle Norme integrative per i giudizi davanti
 alla Corte costituzionale.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Riuniti  i  giudizi,  dichiara  la  manifesta  infondatezza   della
 questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 1, secondo comma,
 ultima parte, del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del
 fallimento,   del   concordato    preventivo,    dell'amministrazione
 controllata  e  della liquidazione coatta amministrativa), sollevata,
 in  relazione  all'art.  3,  primo  comma,  della  Costituzione,  dal
 Tribunale  di  Monza  e,  in  relazione  agli  artt.  3  e  24  della
 Costituzione, dal Tribunale di Rimini, con le ordinanze in epigrafe.
    Cosi' deciso in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 15 dicembre 1994.
                        Il Presidente: CASAVOLA
                         Il redattore: GUIZZI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1994.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
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