N. 70 ORDINANZA (Atto di promovimento) 11 ottobre 1994

                                 N. 70
 Ordinanza  emessa  l'11  ottobre  1994  dal  pretore  di  Catania nel
 procedimento penale a carico di Maimone Baronello Antonino
 Pena - Allontanamento dal luogo di arresto domiciliare -
    Equiparazione quoad poenam all'evasione dal carcere  -  Previsione
    di  una pena minima edittale di sei mesi di reclusione - Lamentata
    eccessiva afflittivita' a fronte del modesto disvalore sociale del
    fatto - Lesione del principio di ragionevolezza e della  finalita'
    rieducativa  della  pena - Richiamo ai principi delle sentenze nn.
    341/1994 e 394/1993.
 (C.P., art. 385, terzo comma).
 (Cost., artt. 3 e 27, terzo comma).
(GU n.7 del 15-2-1995 )
                              IL PRETORE
    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza, nel processo penale n. 2
 reg. gen. nei confronti di Maimone Baronello Antonino,  imputato  del
 reato di cui all'art. 385, terzo comma del c.p.
    La  Corte costituzionale con la sentenza n. 425/1988 ha dichiarato
 manifestatamente inammissibile, in  quanto  implica  scelte  riferite
 alla  discrezionalita'  del legislatore, la questione di legittimita'
 costituzionale dell'art. 385, terzo comma del c.p. nella parte in cui
 prevede il medesimo  trattamento  sanzionatorio  per  chi  evade  dal
 carcere  e  per  colui  che, anche solo temporaneamente, si allontani
 dalla propria abitazione ove trovasi in stato di arresti  domiciliare
 in riferimento all'art. 3 della Costituzione.
    Con  successive pronunce la Corte (vedi in particolare sentenza n.
 341/1994), pur rilevando che  appartiene  alla  discrezionalita'  del
 legislatore  la  determinazione  della  quantita'  e  qualita'  della
 sanzione penale, ha pero' chiarito che e'  compito  (di  essa  Corte)
 "verificare  che  l'uso della discrezionalita' legislativa in materia
 rispetti il limite della ragionevolezza", esigendo  il  principio  di
 eguaglianza di cui all'art. 3, primo comma della Costituzione che "la
 pena  sia  proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in
 modo che il sistema sanzionatorio adempia al contempo  alla  funzione
 di   difesa   sociale   ed   a  quella  di  tutela  delle  situazioni
 individuali".
    La Corte con sentenza n. 394/1993 ha  inoltre  affermato  che  "la
 palese   sproporzione   del   sacrificio  della  liberta'  personale"
 provocata dalla  posizione  di  una  sanzione  penale  manifestamente
 eccessiva   rispetto   al   disvalore   dell'illecito   "produce  una
 vanificazione del fine rieducativo della  pena  prescritto  dall'art.
 27, terzo comma della Costituzione che di quella liberta' costituisce
 una garanzia costituzionale in relazione allo stato di detenzione".
    Sulla  base  di  questi  principi,  la  Corte ha dichiarato con la
 citata sentenza n. 341/1994 l'illegittimita' costituzionale dell'art.
 341, primo comma del c.p. nella parte  in  cui  prevede  come  minimo
 edittale  la  reclusione  per sei mesi con riferimento agli artt. 3 e
 27, terzo  comma  della  Costituzione,  sicche'  la  pena  minima  da
 applicare  per  tale  reato  va  individuata  "facendo riferimento al
 limite di quindici giorni fissato in via generale per la  pena  della
 reclusione  dall'art.  23  del c.p., senza con cio' effettuare alcuna
 opzione invasiva della discrezionalita' del  legislatore,  il  quale,
 peraltro, resta libero di stabilire per il reato medesimo, un diverso
 trattamento  sanzionatorio  purche' ragionevole nei sensi e secondo i
 principi illustrati nella presente pronunzia".
    Ritiene il decidente che sulla base dei suddetti  principi,  possa
 essere  dichiarata  la  illegittimita'  costituzionale dell'art. 385,
 terzo comma del c.p. nella parte in cui prevede come minimo  edittale
 la  reclusione  di  sei  mesi per l'imputato che, essendo in stato di
 arresto nella propria abitazione, se ne allontani in  relazione  agli
 artt. 3 e 27, terzo comma della Costituzione.
    Se  infatti  si  ha  una  equiparazione  quoad  poenam di fatti di
 diversa  gravita',  giustificata   dall'esigenza   di   un   maggiore
 deterrente    per   l'allontanamento   dell'imputato   agli   arresti
 domiciliari dalla propria abitazione (essendo questo ultimo  soggetto
 ad  un  obbligo  - l'art. 284 del c.p.p. recita: il giudice prescrive
 all'imputato  di  non  allontanarsi dalla propria abitazione - mentre
 l'imputato in stato di  custodia  cautelare  si  trova  in  stato  di
 coercizione  personale)  le  due  fattispecie tuttavia non riflettono
 sempre situazioni equivalenti.
    Non vi e' dubbio infatti che il concetto di  evasione  postuli  la
 fuga   o  l'allontanamento  definitivo  (in  senso  contrario  si  e'
 pronunciata la Corte di cassazione, ma  in  relazione  a  fattispecie
 anomale   ed  eccezionali),  mentre  l'allontanamento  dalla  propria
 abitazione dell'imputato  agli  arresti  domiciliari,  al  contrario,
 raramente  riveste  carattere  di  definitivita'.  Non  sempre  cioe'
 l'imputato si  allontana  definitivamente  dalla  propria  abitazione
 ovvero  se  ne  allontana  abitualmente  nelle  ore  del  giorno  che
 normalmente vengono trascorse al di fuori dell'abitazione stessa.
    Solo un  comportamento  di  questo  tipo  puo'  essere  equiparato
 all'evasione  e  non  i  casi, forse piu' frequenti, in cui l'obbligo
 viene nel complesso rispettato e l'allontanamento per un breve  lasso
 di  tempo  ha carattere episodico; ovvero i casi (come quello per cui
 e' processo) in cui non  si  ha  un  effettivo  allontanamento  dalla
 propria  abitazione  (ma  pur sempre una trasgressione all'obbligo di
 rimanere in stato  di  arresto  nella  stessa)  essendosi  l'imputato
 portato sulla pubblica via per parlare con un parente.
    La  equiparazione  del  trattamento  sanzionatorio previsto per il
 reato di evasione appare pertanto, in relazione a  casi  del  genere,
 irragionevole  e  viola  conseguentemente l'art. 3 e l'art. 27, terzo
 comma della Costituzione, in quanto, come sopra richiamato, si ha una
 palese sproporzione del sacrificio della liberta' personale  rispetto
 al  disvalore  dell'illecito,  tale da vanificare il fine rieducativo
 della pena.
    Per  le  superiori  considerazioni   la   questione   non   appare
 manifestamente  infondata ed e' altresi' rilevante in quanto, essendo
 stata raggiunta la prova della colpevolezza dell'imputato,  in  forza
 dell'art. 385, terzo comma del c.p., dovrebbe questo giudice irrogare
 una   sanzione   che  risulterebbe  sproporzionata  in  relazione  al
 disvalore dell'illecito, pur  applicando  l'art.  62-  bis  del  c.p.
 (quattro mesi di reclusione).
                               P. Q. M.
    Visto  l'art.  23  della  legge  11  marzo  1953,  n.  87 dichiara
 rilevante  e   non   manifestamente   infondata   la   questione   di
 illegittimita' costituzionale dell'art. 385, terzo comma, del c.p. in
 relazione agli articoli 3 e 27, terzo comma della Costituzione;
    Dispone  la  sospensione  del  presente giudizio e la trasmissione
 degli atti alla Corte costituzionale;
    Ordina che a cura della  cancelleria  la  presente  ordinanza  sia
 notificata  al  Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai
 Presidenti delle due Camere.
      Catania, addi' 11 ottobre 1994
                           Il pretore: COSTA
 
 95C0194