N. 93 ORDINANZA (Atto di promovimento) 6 ottobre 1994

                                 N. 93
 Ordinanza  emessa  il  6  ottobre  1994  dal  tribunale di Milano nel
 procedimento civile vertente tra fallimento S.p.a. Codelfa  e  S.r.l.
 Boccaleone 167
 Procedure concorsuali - Azione revocatoria fallimentare - Estensione,
    per diritto vivente, della normativa prevista per il fallimento in
    caso  di consecuzione tra amministrazione controllata e fallimento
    - Conseguente computazione del termine di un anno  dall'ammissione
    della  procedura  di  amministrazione  controllata  anziche' dalla
    dichiarazione  di  fallimento  -  Lamentato  egual trattamento per
    situazioni disuguali - Compressione del diritto di difesa  per  il
    convenuto  in  revocatoria  -  Limitazione della liberta' d'azione
    economica.
 (R.D.-L. 16 marzo 1942, n. 267, art. 67).
 (Cost., artt. 3, 24 e 41).
(GU n.9 del 1-3-1995 )
                             IL TRIBUNALE
    Riunito in camera di  consiglio  per  discutere  la  causa  civile
 iscritta  al  numero  di  ruolo  generale  sopra  indicato,  chiamata
 all'udienza collegiale del 6  ottobre  1994,  promossa  con  atto  di
 citazione notificato in data 4 ottobre 1989 a ministero dell'aiutante
 ufficiale giudiziario addetto all'ufficio unico notifiche della Corte
 d'appello  di  Milano da fallimento Codelfa - s.p.a., rappresentato e
 difeso dall'avv. Francesco Cristina per mandato a  margine  dell'atto
 di   citazione,   elettivamente  domiciliato  presso  lo  studio  del
 medesimo, sito in Milano, via Fontana n. 4, attore, contro Boccaleone
 167 s.r.l., rappresentata e difesa dall'avv. Vittorio Pellegatta  per
 mandato  in  calce  alla  copia  notificata  dall'atto  di citazione,
 elettivamente domiciliata presso lo  studio  del  medesimo,  sito  in
 Milano,  via  Manzoni  n.  14,  convenuto, ha pronunciato la seguente
 ordinanza.
    Il fallimento Codelfa s.p.a. e' stato dichiarato con sentenza  del
 27  dicembre  1984; in precedenza, la societa' era stata ammessa alla
 procedura di concordato preventivo con decreto del 12 luglio 1983  e,
 prima  ancora,  alla  procedura  di  amministrazione  controllata con
 decreto del 28 luglio 1982.
    Il curatore, con atto di citazione notificato il 4  ottobre  1989,
 previa  autorizzazione del giudice delegato, conveniva in giudizio la
 Boccaleone 167 s.r.l., chiedendo la revoca,  ai  sensi  dell'art.  67
 l.f.,  di pagamenti eseguiti a favore della convenuta per complessive
 L. 230.000.000 eseguiti, in adempimento di  un  accordo  transattivo,
 nel  periodo  ottobre  1981-gennaio  1982, ovvero nell'anno anteriore
 all'ammissione della prima procedura, quando la controparte ormai ben
 conosceva lo stato d'insolvenza del debitore. La  societa'  convenuta
 si  costituiva  in  giudizio  contestando il fondamento di fatto e di
 diritto della pretesa avversa, per mancanza dei presupposti oggettivi
 e soggettivi dell'azione revocatoria previsti  dalla  legge;  in  via
 subordinata,  chiedeva  di essere autorizzata a chiamare in causa per
 manleva  la  Generalfin  S.p.a.,  che  aveva  garantito   parte   dei
 pagamenti.  Le  parti  formulavano  istanze  istruttorie, ma il g.i.,
 ritenuta la causa matura  per  la  decisione,  invitava  le  parti  a
 precisare  le  conclusioni.  Sulle conclusioni rassegnate all'udienza
 del 4 ottobre 1993 conformemente alle posizioni espresse  negli  atti
 introduttivi,  la cuasa veniva rimessa al Collegio per la discussione
 all'udienza sopra indicata.
    Ai fini del decidere, si pone il problema del  termine  dal  quale
 computare   il   periodo  di  esperibilita'  dell'azione  revocatoria
 fallimentare nel caso di consecuzione tra amministrazione controllata
 e  fallimento.  L'attore  chiede  infatti  la  revoca  dei  pagamenti
 effettuati  dalla  fallita  sul  presupposto  della loro anteriorita'
 infrannuale rispetto, non  gia'  alla  dichiarazione  di  fallimento,
 bensi'   alla   prima  procedura  concorsuale  alla  quale  e'  stata
 sottoposta la Codelfa s.p.a.
    Detta   impostazione   e'   conforme   ad  una  solida  tradizione
 giurisprudenziale, rispetto alla quale questo Tribunale ha assunto da
 tempo un atteggiamento rispettosamente dissenziente (da ultimo,  cfr.
 sent.  16  settembre  1993 in Foro it. 1994, I, 1808), che e' rimasto
 tuttavia avversato dalla Corte di  cassazione,  la  quale  ha  sempre
 costantemente ribadito la validita' dell'interpretazione tradizionale
 della  consecutio  nella  prospettiva della revocatoria fallimentare.
 Tanto  appare  irremovibile  l'atteggiamento   interpretativo   della
 Suprema  Corte,  che si puo' ben dire abbia dato luogo ad un "diritto
 vivente" secondo il quale l'art. 67 l.f. e' come se fosse scirtto:  "
 .. agli atti  compiuti  nell'anno  anteriore  alla  dichiarazione  di
 fallimento,  o  all'ammissione  della  procedura  di  amministrazione
 controllata nel caso di consecuzione".
    In  tale  formulazione  sostanziale  della   norma,   non   appare
 manifestamente  infondata  la questione se essa violi il disposto: a)
 dell'art. 3 della Cost., nella parte in cui  tratta  in  modo  uguale
 situazioni diseguali; b) dell'art. 24 della Cost., nella parte in cui
 di  fatto  non  consente  al  convenuto in revocatoria di eccepire la
 propria inscientia decoctionis;
  c) dell'art.  24  della  Cost.,  nella  parte  in  cui  implica  una
 limitazione della liberta' d'azione economica.
    a) In relazione all'art. 3 della Cost.
     La  ratio  della  proposizione  normativa sottoposta all'esame di
 costituzionalita'  si  puo'  riassumere  nell'affermazione  per  cui,
 quando   un'impresa   sia  passata  attraverso  la  procedura  minore
 giungendo   senza   soluzione   di    continuita'    al    fallimento
 (eventualmente,  come nella specie, passando attraverso il concordato
 preventivo), essa poteva  dirsi  decotta  fin  dall'inizio.  Siffatta
 considerazione  induce  a ravvisare nelle ipotesi di consecuzione una
 procedura concorsuale unitaria e  ominicomprensiva,  che  assorbe  la
 fisionomia della procedura anteriore, facendo risalire all'ammissione
 della  medesima  gli  effetti  legali,  o almeno alcuni degli effetti
 legali,  tipicamente  connessi  alla  successiva   dichiarazione   di
 fallimento.  Cosi', per restare al tema in discussione, il periodo di
 revocabilita' dei pagamenti effettuati  dal  fallito  viene  spostato
 all'indietro  a  partire  da  quando l'imprenditore era stato ammesso
 all'amministrazione controllata.
    Occorre  pero'  domandarsi  fino  a  che  punto  sia  giustificato
 agganciare  l'esperibilita'  dell'azione  revocatoria  ad un contesto
 fattuale nettamento diverso dal fallimento,  qual'e'  quello  in  cui
 interviene  la  procedura  minore  menzionata. A parere del Collegio,
 l'estensione della  normativa  prevista  per  il  fallimento  ad  una
 situazione   appositamente  differenziata  dalla  legge  si  pone  in
 contrasto con  l'art.  3  della  Cost.,  giacche',  com'e'  noto,  il
 principio  d'uguaglianza  non  vale  soltanto  a  rendere uniforme il
 trattamento di situazioni uguali, ma  anche  a  rendere  difforme  il
 trattamento di situazioni diseguali.
    Comparando  i presupposti di fatto dell'amministazione controllata
 con quelli del fallimento, al di la' del comune  e  generico,  quanto
 ovvio,  riferimento alla crisi dell'impresa, si colgono delle marcate
 peculiarita',  che  costringono  ad   associare   i   due   strumenti
 concorsuali  ad  una  fenomenologia  economica  nettamente  difforme:
 mentre la  procedura  di  amministrazione  controllata  e'  volta  al
 risanamento  dell'impresa attraverso il superamento di una situazione
 di temporanea difficolta' ad adempiere (art. 187 l.f.), il fallimento
 sanziona l'irreversibilita' del dissesto. Per quanto possa giudicarsi
 semplicistico  il  richiamo  alla  definizione  letterale,  la stessa
 ragione  d'esistenza   della   procedura   minore,   piu'   di   ogni
 disquisizione  sulla natura dell'insolvenza, suggerisce che essa deve
 necessariamente affondare  le  proprie  radici  in  una  realta'  non
 assimilabile  a  quella  del fallimento. Invero, se non esistesse una
 disomogeneita', non avrebbe nemmeno senso la  valutazione  giudiziale
 che  e'  tenuta  ad individuarla per contrapposizione alla decozione.
 Senza   ravvisare   comprovate   possibilita'   di   risanamento    e
 transitorieta' della crisi, il Tribunale non puo' ammettere l'impresa
 al   beneficio   della   procedura  minore,  ma  deve  dichiarare  il
 fallimento; cio' rende  chiaro,  per  converso,  che  il  decreto  di
 ammissione   all'amministrazionecontrollata   assume  il  significato
 sostanziale  di  un   accertamento   negativo   sull'irreversibilita'
 dell'insolvenza.  La  funzione  assegnata alla procedura minore dalla
 legge, oltreche' il contenuto della pronuncia che  vi  da'  ingresso,
 pertanto,  costringono  ad  associare all'amministrazione controllata
 una caratterizzazione dell'insolvenza distinta e persino  alternativa
 a  quella  propria  del  fallimento,  che  si potrebbe scolpire nella
 dicotomia sanabile/insanabile.
    Sullo specifico terreno della revocatoria,  l'irriducibilita'  ora
 segnalata  non  potrebbe  delinearsi  in  modo  piu'  netto, giacche'
 l'amministrazione controllata, postulando il ripristino della normale
 solvibilita' dell'impresa all'esito della moratoria,  non  concepisce
 nemmeno la lesivita' dai pagamenti anteriori e dunque non prevede, di
 per  se',  alcuno  strumento  volto  a  ripristinare  la par condicio
 creditorum in relazione a simili evenienze.  E'  superfluo  ricordare
 che  la  revocatoria non e' esperibile nel corso dell'amministrazione
 controllata, ma  solo  ed  esclusivamente  col  seguente  fallimento,
 sicche'  la  disciplina  della  consecutio,  cosi'  come  s'e' venuta
 delineando nel  diritto  vivente,  non  comporta  l'estensione  dello
 strumento revocatorio al caso dell'amministrazione controllata, ma si
 limita  a  proiettare  all'indietro  il  periodo  sospetto tipico del
 fallimento. Cosi' facendo, la  disciplina  della  consecutio  colloca
 paradossalmente  la  presunzione dell'insolvenza fallimentare laddove
 doveva risultarne comprovata l'assenza.
    Le brevi osservazioni sopra condotte in ordine ai diversi  profili
 delle    due    procedure    e   dell'accertamento   giudiziale   che
 rispettivamente  vi  da'  ingresso   sembrano   avvalorate   da   una
 riflessione  sul  ruolo  assunto  dai  creditori  nel  contesto della
 procedura minore. Invero, mentre il fallimento puo' essere dichiarato
 d'ufficio, a tutela di un preminente interesse pubblico, l'ammissione
 alla procedura di amministrazione controllata risponde essenzialmente
 agli interessi del debitore e dei soggetti  immediatamente  coinvolti
 dalla prosecuzione della sua attivita'. Coerentemente, le valutazioni
 dell'organo  di  giustizia  intervengono  in un procedimento entro il
 quale risulta indispensabile il consenso, non solo del debitore,  che
 deve  chiedere  il  beneficio,  ma  anche  dei  creditori, che devono
 approvare la particolare soluzione concorsuale (artt. 118 e  n.  3  e
 189 l.f.) alla crisi dell'imprenditore.
    Il   peso  determinante  assunto  dalla  volontaria  adesione  dei
 creditori  avvicina  la  logica  dell'amministrazione  controllata  a
 quella degli accordi stragiudiziali tra l'impresa in crisi ed il ceto
 creditorio,  la  cui frequenza ed importanza e' ampiamente dimostrata
 dalla  recente  cronaca  economica.  Gli approcci di questo tipo alla
 patologia della vita aziendale si sviluppano  solitamente  attraverso
 una  trattativa  preliminare  coi maggiori creditori e si definiscono
 poi, in varie forme, sotto la veste di un pactum de non  petendo,  al
 quale  aderiscono i rimanenti creditori, o comunque la maggioranza di
 essi, in modo da consentire all'imprenditore di fronteggiare anche le
 posizioni di coloro  che  restano  dissenzienti.  A  ben  vedere,  lo
 strumento  dell'amministrazione  controllata  appartiene  alla stessa
 fenomenologia  generale:  analoghi  sono  i   conflitti   d'interesse
 coinvolti ed analoga e' la volonta' che li risolve, benche' l'accordo
 in cui detta volonta' si manifesta venga raggiunto entro lo schema di
 una  procedura  confezionata dalla legge e sorvegliata dall'autorita'
 giudiziaria; cio' che consente al debitore di ottenere subito e,  per
 cosi'  dire,  "coattivamente"  l'effetto sospensivo della esigibilta'
 dei crediti, ma non elimina  la  necessita'  di  una  convergenza  di
 volonta'  sulla  proposta  formulata  dal  debitore,  in  quanto tale
 effetto resta pur sempre sottoposto alla condizione risolutiva di una
 rapida  (il  termine  e'  di  30  gg.)  approvazione  dei  creditori.
 Rivalutando  la valenza dell'aspetto volontaristico del procedimento,
 l'essenza della valutazione giudiziale che da' luogo  alla  procedura
 minore  potrebbe  cogliersi  non  tanto  in una prognosi fausta sulla
 sorte dell'impresa, che dipendera' in buona parte dalla  fiducia  che
 vorranno  accordarvi  i  creditori,  quanto proprio nell'accertamento
 negativo sopra cennato circa  lo  status  decoctionis,  ovvero  circa
 l'assenza  di  impellenti  ragioni  tali  da imporre l'espulsione dal
 mercato dell'impresa ormai irrimediabilmente decotta  (tale  clausola
 di  salvaguardia  si perpetua, dopo il voto favorevole dei creditori,
 nella disposizione dell'art. 192 l.f.).
    Non e' il caso di approfondire  in  questa  sede  la  similitudine
 proposta:  se  e'  facile  immaginare  le obiezioni che vi si possono
 muovere, non e' certo impossibile trovare esaurienti  risposte,  come
 ha  messo in luce quella recente dottrina che e' giunta a configurare
 l'amministrazione controllata  alla  stregua  di  un  pactum  de  non
 petendo  di  diritto  positivo.  Apprezzando anche solo in parte tale
 impostazione, non puo' non accentuarsi  l'impressione  di  lontananza
 tra  la  situazione  del  fallimento  e  quella  dell'amministrazione
 controllata: cosi' come l'esistenza di un pactum  di  diritto  comune
 tra  il debitore ed il ceto creditorio dossolve l'insolvenza, poiche'
 rivela la fiducia di cui gode l'imprenditore, la  stessa  conclusione
 puo' essere accolta nel caso dell'amministrazione controllata.
    Alla luce delle considerazioni che precedono, appare tutto sommato
 sterile  continuare  a  discutere se la temporanea difficolta' sia di
 per se' insolvenza dal punto di vista strettamente economico,  inteso
 come   un   termine   di   riferimento  assoluto  e  scientificamente
 misurabile,  quando  invece  il  dato  economico  appare   largamente
 influenzato  dall'esistenza  o  meno  della volonta' dei creditori di
 concedere fiducia (e dunque credito) all'imprenditore in difficolta',
 valutandone  discrezionalmente  le  potenzialita'  di   ripresa.   La
 situazione  di  fatto  sottostante  all'amministrazione  controllata,
 dunque, risulta in questa prospettiva irriducibile al fallimento, non
 solo perche' l'inesistenza della decozione  costituiva  un  requisito
 preliminare   della  procedura  minore,  ma  perche'  l'atteggiamento
 favorevole dei creditori  ribadisce  nei  fatti  l'inesistenza  della
 decozione.
    Orbene, se il legislatore ha architettato le due procedure secondo
 strutture  e funzioni nettamente differenziate ed ha inteso associare
 il rimedio della revocatoria al solo contesto del fallimento,  appare
 del  tutto  irragionevole,  alla  luce dell'art. 3 della Cost., che i
 limiti temporali di esperibilita' dell'azione in caso di consecuzione
 siano invece agganciati al contesto dell'amministrazione controllata,
 la  quale  e'  istituzionalmente  rivolta   al   ritorno   in   bonis
 dell'impresa e dunque tende ad uno sbocco palesemente contraddittorio
 con  l'esistenza di una presunzione oggettiva d'insolvenza durante il
 periodo che la precede.
    b) In relazione all'art. 24 della Cost.
    Mentre l'esistenza oggettiva dello stato d'insolvenza  durante  il
 periodo  sospetto  e'  presunta  dalla  legge,  l'elemento soggettivo
 dell'azione   revocatoria   dev'essere   dimostrato,   com'e'   noto,
 attraverso  un'indagine  di  fatto;  non  rileva, a questo proposito,
 quale sia la collocazione dell'onere della prova (a  seconda  che  si
 verta  nell'ipotesi del primo o del secondo comma dell'art. 67 l.f.),
 ne' la natura concreta del mezzo di prova impiegato (eventualmente la
 presunzione indiziaria). Gli estremi della  rappresentazione  mentale
 che   costituisce   l'elemento  soggettivo  dell'azione  (in  termini
 penalistici si direbbe l'oggetto del dolo) sono incontestabilmente  i
 connotati  dell'insolvenza  propri  del  fallimento,  giacche',  come
 abbiamo detto, anche in caso di consecuzione, e' solo dal susseguente
 fallimento che scaturisce la revocatoria.
    Nella concatenazione tra procedure emerge subito  un  problema  di
 allineamento   tra  la  retrodatazione  della  presunzione  oggettiva
 dell'insolvenza    fallimentare    e    la    conoscenza    effettiva
 dell'insolvenza  medesima  da parte di colui che riceve il pagamento.
 Il confronto tra la natura presuntiva del primo requisito e la natura
 realmente  probatoria   dell'accertamento   sul   secondo   requisito
 evidenzia   una   incompatibilita',   che  reca  inevitabilmente  una
 distorsione processuale. Invero, l'esistenza di una presunzione iuris
 et de iure sul lato oggettivo inibisce al convenuto in revocatoria la
 difesa  piu'  elementare  ed  efficace  sul  lato   soggettivo,   non
 consentendogli  di  eccepire l'inesistenza della base materiale della
 supposta scientia decoctionis. Il contrasto tra la presunzione  e  la
 realta',  come  emerge  dalle considerazioni sviluppate nel paragrafo
 precedente, laddove si e'  messa  in  mostra  la  differenza  tra  il
 contesto  fattuale  dell'amministrazione  controllata  e  quello  del
 fallimento,  conduce  pertanto  ad  un'indebita   ed   ingiustificata
 compressione del diritto di difesa in sede processuale.
    Per  comprendere  la  gravita'  con cui si manifesta tale lesione,
 occorre considerare che, com'e' noto, l'oggetto del dolo e' il  fatto
 e  non il giudizio sul fatto. Il substrato della scientia decoctionis
 e'  quindi  costituito  da   quella   stessa   situazione   economica
 dell'impresa alla quale la legge (nell'interpretazione costante della
 Corte  di cassazione) associa automaticamente, ovvero con un giudizio
 presuntivo, l'insolvenza. Ma il creditore  che  riceve  il  pagamento
 conosce  inevitabilmente per quella che e', almeno in qualche misura,
 la situazione economica del  debitore,  sicche',  quando  l'accipiens
 viene  convenuto in revocatoria, si vede costretto a scegliere tra il
 seguente dilemma:  o  negare  ipocritamente  di  aver  conosciuto  la
 realta'  dell'impresa  con cui intratteneva rapporti d'affari, oppure
 ammettere  onestamente  di  averla conosciuta, sostenendo tuttavia di
 non aver ravvisato l'insolvenza, bensi' una  temporanea  difficolta'.
 Quest'ultima   scelta   difensiva,   peraltro,  benche'  appaia  piu'
 corretta,  si  traduce  in  una   vana   proclamazione,   che   cozza
 inesorabilmente  contro  il  giudizio presuntivo imposto a posteriori
 dalla legge.
    Una  vicenda  esemplare,  che  aiuti  a  comprendere  la   scomoda
 posizione  in  cui  si  viene  a trovare il convenuto in revocatoria,
 potrebbe essere sintetizzata come segue: Tizio riceve  il  pagamento;
 il  Tribunale  ammette  il  debitore all'amministrazione controllata,
 all'esito di un'istruttoria con  la  quale  accerta  che  non  esiste
 decozione,   ma  soltanto  temporanea  difficolta'  dell'impresa;  il
 commissario  giudiziale  redige  una   relazione   sulla   situazione
 patrimoniale del debitore, che conferma la valutazione del Tribunale;
 i   creditori   accettano,   votando  a  favore  dell'amministrazione
 controllata, la moratoria sui propri crediti e cosi' mostano  fiducia
 nel  debitore;  sopraggiunge  infine  il  fallimento  e Tizio si vede
 revocato il pagamento perche' la sua conoscenza in allora dello stato
 d'insolvenza  appare  dimostrata  dagli   stessi   fatti   ampiamente
 conosciuti   ed   analizzati   successivamente   dal  Tribunale,  dal
 commissario  giudiziale  e  dall'adunanza  dei  creditori,  che  pure
 avevano  escluso  l'insolvenza  fallimentare. E' il caso di segnalare
 che la vicenda sopra descritta trova puntuale  riscontro  negli  atti
 della presente causa.
    Orbene,   se   il   presupposto   di   fatto  dell'amministrazione
 controllata  e'  diverso  da  quello  del   fallimento,   sovrapporre
 presuntivamente  e  retroattivamente  la  condizione  fallimentare  a
 quella propria della procedura minore significa fatalmente, non  solo
 omologare  cio'  che  e'  diverso,  ma  anche  impedire di contestare
 l'omologazione sotto il profilo della  valutazione  soggettiva.  Ecco
 perche'  la  vicenda  sopra  esemplificata costituisce uno stereotipo
 riproducibile in  tutte  le  cause  analoghe,  dove  la  prova  della
 scientia  decoctionis  viene  immancabilmente  offerta  ricorrendo  a
 quegli stessi elementi  (notizie  di  stampa,  esistenza  di  decreti
 ingiuntivi,  procedure  esecutive, solleciti di pagamento, ecc.) gia'
 espressamente considerati dagli organi giudiziali e dalla  massa  dei
 creditori,  che  avevano  a loro tempo ammesso, condiviso e votato la
 procedura di amministrazione  controllata,  ritenendo  temporanea  la
 crisi   economica   dell'impresa  e  comprovate  le  possibilita'  di
 risanamento, con cio' implicitamente riconoscendo,  tra  l'altro,  la
 non lesivita' dei pagamenti anteriori.
    In  sostanza,  la  conoscenza  di  quei  fatti  che  all'epoca del
 pagamento non potevano per definizione rendere l'accipens consapevole
 della lesione alla par condicio, viene  successivamente  intesa  come
 consapevolezza  della  lesione,  trasfigurando per mezzo di una nuova
 valutazione puramente  normativa  la  stessa  condizione  psicologica
 fatturale.  L'interversone  a  posteriori  del semplice disvalore del
 fatto, anziche' la prova di una percezione conoscitiva effettivamente
 diversa  e  piu'  grave  di  quella  originariamente  connessa   alla
 situazione dell'amministrazione controllata, rende del tutto fittizia
 e  minorata  la  difesa  in  punto di elemento soggettivo dell'azione
 revocatoria.
    c) In relazione all'art. 41 della Cost.
   Per      affrontare     l'ultimo,     forse     tenue,     sospetto
 d'incostituzionalita'  della  disciplina  della  consecutio,  occorre
 esaminare  gli  effetti  indiretti  che  si  innescano  con  le prime
 avvisaglie  di  difficolta'  dell'impresa   nei   comportamenti   dei
 creditori,  i  quali, normalmente, sono a loro volta imprenditori. E'
 facile immaginare che il timore di revoca degli atti e dei  pagamenti
 agisce  come  un  deterrente  al  compimento  dello scambio economico
 secondo la pura convenienza di  mercato,  inducendo  l'operatore  che
 fornisce   beni   o  servizi  all'impresa,  se  non  a  rinunciare  o
 interrompere del  tutto  il  rapporto,  a  restringere  anzitempo  il
 credito  concesso all'impresa in crisi, con cio' contribuendo a farla
 prematuramente  collassare  verso  il  fallimento.  L'operatore   che
 avverte  di poter al momento concludere positivamente uno scambio, ma
 teme che questo possa essere successivamente reso  inefficace  a  suo
 danno,   presumibilmente   evitera'   tale  rischio  astenendosi  dal
 contratto: l'efficienza del mercato viene  in  tal  modo  compromessa
 dall'esistenza  di  una  regola  giuridica,  che indubbiamente indice
 sulla liberta' di scelta dei consociati.
    Si tratta ora di stabilire se  tale  inibizione  sia  giustificata
 dall'esistenza  di  altri  interessi  meritevoli  di tutela. Torna al
 riguardo in considerazione, ancora una volta, la differenza tra stato
 d'insolvenza e condizione  di  temporanea  difficolta'  dell'impresa,
 quale  presupposto  dell'amministrazione  controllata. E' noto che il
 pagamento rappresenta un atto doveroso, che puo'  essere  omesso  dal
 debitore  e  rifiutato  dal  creditore  unicamente in un contesto del
 tutto straordinario: quello  della  impotenza  economica  complessiva
 dell'impresa;   viceversa,   cio'   costituirebbe   un  illecito,  un
 turbamento delle regole della negoziazione. Il comportamento di colui
 il quale riceve un pagamento non puo' dunque essere contrassegnato da
 disvalore davanti alla semplice difficolta' temporanea del  debitore,
 situazione che, sia sul piano della legittimita', sia sul piano della
 opportunita',  non giustifica, da un lato, l'astensione dai pagamenti
 e, dall'altro, la restrizione totale del credito.
    Non sussiste pertanto un interesse giuridicamente  apprezzabile  a
 dilatare  a  ridosso  dell'amministrazione  controllata  l'incertezza
 sulla sorte dei rapporti anzitempo  definiti  dall'imprenditore,  con
 cio' alterando prematuramente e dannosamente i comportamenti dei suoi
 interlocutori.  Se,  in  una  lettura  sufficientemente  aperta degli
 interessi  tutelati   dall'art.   41   della   Cost.,   si   vogliono
 ricomprendere  nella  sfera  di  protezione  di  tale  norma tutte le
 liberta' d'azione volte ad  ottimizzare  l'efficienza  dello  scambio
 economico,  la cui compressione non risulta razionalmente necessitata
 da una ben individuata utilita' sociale, appare legittimo il sospetto
 che la disciplina della  revocatoria  in  caso  di  consecuzione  tra
 amministrazione  controllata  e  fallimento si ponga in contrasto con
 detta norma costituzionale.
    In presenza dei vari dubbi di costituzionalita' sopra evidenziati,
 che attengono  alla  regola  di  diritto  determinante  ai  fini  del
 presente giudizio, si impone la sospensione del medesimo in attesa di
 una  decisione  in  proposito da parte della Corte costituzionale. La
 presente ordinanza va notificata  alle  parti  e  al  Presidente  del
 Consiglio dei Ministri, nonche' comunicata al Presidente del Senato e
 al Presidente della Camera dei deputati.
                               P. Q. M.
    Il  tribunale  di  Milano,  sezione  seconda  civ., nella causa in
 epigrafe indicata, ritenuta non manifestamente infondata la questione
 di   legittimita'   costituzionale   della   disciplina   dell'azione
 revocatoria  (art.  67  della  l.f.)  in  caso  di  consecuzione  tra
 amministrazione controllata e fallimento, per violazione degli  artt.
 3, 24 e 41 della Costituzione dispone:
      1) la sospensione del presente giudizio;
      2)  la  rimessione  degli  atti alla Corte costituzionale per la
 risoluzione della questione;
      3) la notificazione della presente ordinanza  alle  parti  e  al
 Presidente del Consiglio dei Ministri;
      4)  la  comunicazione della presente ordinanza ai Presidente del
 Senato e della Camera dei deputati.
       Milano, addi' 6 ottobre 1994
                          Il presidente: MELI
 
 95C0236