N. 11 RICORSO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE 10 aprile 1995
N. 11 Ricorso per conflitto di attribuzioni depositato in cancelleria il 10 aprile 1995 (dei promotori e presentatori dei referendum in materia di commercio, elezioni comunali e contributi sindacali) Decreto-legge 20 marzo 1995, n. 83, e provvedimento del Garante per la radiodiffusione e l'editoria 22 marzo 1995 - Disciplina dell'accesso ai mezzi di comunicazione di massa (cd. par condicio) - Previsione delle modalita' della propaganda elettorale e conseguente divieto delle modalita' non previste - Divieto della pubblicita' elettorale a pagamento - Comminazione per l'inosservanza dei divieti di sanzioni pecuniarie e, nei casi piu' gravi, oscuramento dell'emittente televisiva - Applicazione della normativa sulla par condicio anche alla campagna di pubblicita' sui referendum mediante il divieto di utilizzare gli strumenti della pubblicita' elettorale non solo nei trenta giorni precedenti ai referendum, ma anche a tutto il periodo precedente che si viene eventualmente a sovrapporre con gli ultimi trenta giorni di un'altra e diversa campagna elettorale - Lamentata violazione del diritto di referendum, a causa dei predetti limiti e divieti che ne ostacolano l'esercizio impedendone la pubblicita' - Abuso e cattivo uso dello strumento del decreto-legge per insussistenza dei requisiti di necessita' ed urgenza e per la possibilita' di produzione di effetti dannosi irreversibili nelle more della conversione in legge pur nell'ipotesi di mancata conversione - Istanza di sospensione. (D.-L. 20 marzo 1995, n. 83; provvedimento del Garante per la radiodiffusione e l'editoria 22 marzo 1995). (Cost., artt. 75 e 77).(GU n.17 del 26-4-1995 )
Ricorso per conflitto di attribuzioni dei signori on. Giuseppe Calderisi, Lorenzo Strik Lievers, Elio Vito, promotori e presentatori dei referendum in materia di commercio, di elezioni comunali e di contributi sindacali, ammessi dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 3, 4, 10 e 13 del 1995, rappresentati e difesi, come da delega in calce al presente atto, dal prof. avv. Beniamino Caravita di Toritto, e presso lo stesso elettivamente domiciliati, in Roma, via T. Taramelli, 22, contro il Presidente del Consiglio dei Ministri, in persona del presidente pro-tempore, e il Garante per la radiodiffusione e l'editoria, in persona del Garante pro-tempore per l'annullamento, previa sospensione, del d.-l. 20 marzo 1995, n. 83, recante "Disposizioni urgenti per la parita' di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie" e del provvedimento 22 marzo 1995 del Garante per la radiodiffusione e l'editoria. F A T T O 1. - In una data che dovra' essere fissata in una domenica prima del 15 giugno si terranno dieci referendum dichiarati ammissibili dalla Corte costituzionale nel gennaio 1994 e nel gennaio 1995; i firmatari del presente ricorso sono presentatori e promotori di quattro dei dieci referendum che dovranno tenersi prima dell'inizio dell'estate. La giurisprudenza unanime e consolidata della Corte costituzionale ritiene che i promotori godano dello status di poteri dello Stato, almeno fino al momento dell'effettuazione del referendum (v. per tutte sent. n. 69/1978); ai promotori e' altresi' garantito dalla giurisprudenza costituzionale e dalla legislazione ordinaria un ruolo affatto peculiare per quanto attiene allo svolgimento di una corretta campagna referendaria, in cui i cittadini possano essere raggiunti da informazioni congrue e corrette circa il quesito referendario. La stessa giurisprudenza costituzionale, nel sottolineare con intelligente anticipazione che il quesito referendario deve essere chiaro e omogeneo per far si' che sia garantita la liberta' del voto dell'elettore, ha implicitamente riconosciuto che la campagna referendaria debba svolgersi permettendo ai promotori e ai soggetti ad essi dialetticamente e politicamente contrapposti di far giungere al corpo elettorale tutte le informazioni necessarie per poter decidere ex deliberata coscientia. Le modalita' con cui tali informazioni possono essere fatte giungere al corpo elettorale non sono in realta' - nonostante tutti gli sforzi di fantasia possibili - predeterminabili a priori: innovazione tecnologica e mutamenti del costume possono via via modificare le tecniche, le modalita' che possono essere scelte per ottenere i ricercati risultati di raggiungimento del consenso. Non v'e' dubbio che sempre maggior rilievo assumano le modalita' di comunicazione delle informazioni che utilizzano i mezzi di comunicazione di massa. Il problema dell'utilizzazione dei mezzi di comunicazione di massa (oltre a quello di una disciplina del regime proprietario, che deve garantire trasparenza e pluralismo) si pone sia per le campagne elettorali politiche e amministrative, sia per le campagne referendarie. Va pero' tenuto presente che queste ultime si svolgono secondo modelli di minore complicazione rispetto alle campagne elettorali politiche e amministrative: per le campagne referendarie il carattere binario della richiesta referendaria permette di rappresentare con maggiore facilita' le posizioni in lizza, garantendone - senza soverchi problemi organizzativi - la cd. par condicio; anche per le campagne elettorali politiche e amministrative il principio della Chancengleichheit (la parita' delle chances, principio che pare piu' comprensivo di quello sintetizzato nel latinetto della par condicio) rende necessaria una qualche forma di garanzia della parita' di accesso ai mezzi di informazione di massa (altro problema - che non viene in rilievo in questa occasione - e' poi il quomodo di tale disciplina, che nel nostro paese e' complicato dal quadro frammentario del pluralismo politico, dalla grave situazione di reciproca sfiducia delle parti politiche e da altrettanto gravi sintomi di scollamento tra corpo elettorale e soggetti politici). Da queste brevi premesse sono facilmente deducibili le ragioni per cui il comitato promotore ritiene violati i suoi poteri, di rilievo costituzionale, nella fase del procedimento refendario che porta al momento dell'espressione della volonta' popolare sul quesito dall'applicazione del recentissimo decreto-legge sulla par condicio anche alla disciplina delle campagne referendarie. 2. - Circa la legittimazione attiva del comitato dei promotori. La giurisprudenza e' pacifica sul punto, sin dalla decisione n. 17/1978: la vicenda qui dedotta in giudizio appare si' diversa da quelle in cui tradizionalmente i promotori hanno sollevato conflitto di attribuzione (decisioni dell'Ufficio centrale di cessazione delle operazioni referendarie), ma tale differenza non pare assumere un rilievo problematico. Anche qui, come negli altri casi, i promotori sono garantiti e difensori del diritto costituzionalmente garantito ai cittadini di esprimersi attraverso lo strumento referendario: cio' che attraverso gli atti contestati viene messo in pericolo e' la correttezza della campagna referendaria e del processo di formazione della volonta' referendaria. 3. - Circa i requisiti soggettivi ed oggettivi del conflitto. Fermo rimanendo il rango costituzionale del soggetto ricorrente e il sicuro tono costituzionale del conflitto, non pare nemmeno possano essere avanzati dubbi sull'ammissibilita' del conflitto in relazione agli atti impugnati, ambedue facenti capo ad organi competenti a dichiarare definitivamente la volonta' del potere a cui appartengono. 3.1. - Per quanto riguarda il decreto-legge, la dottrina dominante aveva sempre ritenuto che oggetto del conflitto di attribuzione potesse essere ogni atto (o comportamento) caratterizzato dalla invasione della sfera di competenza costituzionalmente garantita di altro soggetto o dal cattivo uso di potere, pur spettante al soggetto emanante, che si riverbera in violazione della sfera di potere altrui; e cio' a prescindere dalla natura dell'atto, tant'e' che si era sempre ipotizzato che un conflitto di attribuzione potesse rivolgersi contro una legge (ad es., lamentando l'avvenuta promulgazione da parte del Capo dello Stato). D'altra parte, il decreto-legge mantiene la sua natura precaria e provvisoria di provvedimento emanato sotto la responsabilita' del Governo, destinato comunque a scomparire dall'ordinamento e passibile anche di disapplicazione (altro non e' stata se non un caso di disapplicazione la decisione del 1993 dell'Ufficio centrale per il referendum che ha ritenuto che un decreto-legge non potesse far cessare le operazioni referendarie su di una legge sottoposta a referendum abrogata dal decreto-legge): di talche' ben e' esperibile il rimedio del conflitto di attribuzione contro un decreto-legge, pur in presenza della precedente decisione della Corte costituzionale n. 406/1989, che aveva - con una motivazione tutta basata sulla peculiare forza della legge - ritenuto inammissibile il conflitto nei confronti di una legge. D'altra parte, proprio il carattere precario e provvisorio dei decreti-legge fa si' che rispetto ad essi il problema del coordinamento tra disciplina dei giudizi incidentali e disciplina dei conflitti debba porsi in modo diverso, se non opposto, rispetto a quanto ritenne la Corte in occasione della sentenza n. 406/1989. E' evidente infatti che per i decreti-legge il problema e' l'inverso: quello cioe' di individuare strumenti processuali che permettano una maggiore ampiezza delle modalita' con cui essi possono essere sottoposti al giudizio della Corte costituzionale. Nel caso in questione, cosi' come in tutti i casi in cui viene utilizzato un decreto-legge, il risultato avuto di mira potrebbe essere ottenuto limitandosi all'emanazione di un primo decreto-legge, senza poi nemmeno cercare di convertirlo o di reiterarlo: cosicche' lo strumento del giudizio incidentale rimarrebbe assolutamente spuntato ed inefficace. La verita' e' che in tutti i casi - sempre piu' frequenti - in cui un decreto-legge puo' essere usato in fraus Constitutionis, facendo leva sul carattere precario per ottenere risultati non piu' modificabili, il decreto assume sempre piu' marcatamente quel carattere - previsto dalla Costituzione - di provvedimento provvisorio adottato sotto la responsabilita' del Governo. Proprio una situazione di questo tipo si creerebbe in questo caso per le campagne referendarie, che sarebbero irrimediabilmente pregiudicate anche se il decreto non venisse convertito; una situazione simile si sarebbe potuta creare in occasione dei procedimenti referendari del 1993, in cui Presidente della Repubblica e Ufficio centrale per il referendum hanno invece bloccato il tentativo di utilizzare la decretazione di urgenza per mettere nel nulla il potere sovrano del popolo di esprimersi per via referendaria: v. infra sub n. 6). Insomma: anche a non voler riconsiderare la sentenza n. 406, le stesse rationes sottese all'inammissibilita' del conflitto in quel caso (la forza della legge; la necessita' di conciliare il giudizio sui conflitti con il giudizio incidentale; la possibilita' comunque che il provvedimento legislativo giunga al controllo della Corte; il carattere stabile della riforma introdotta con l'atto legislativo) dovrebbero spingere nel senso dell'ammissibilita' del conflitto - almeno prima facie - nei confronti del decreto-legge, proseguendo e rafforzando una meritevole linea giurisprudenziale della Corte costituzionale tesa a limitare il ricorso alla decretazione d'urgenza, anche sminuendo la collocazione nell'ordinamento e la sua concreta capacita' operativa. Come argomento favorevole all'ammissibilita' del conflitto su di un decreto-legge, i promotori sottolineano infine come proprio il decreto-legge si presti, in ragione del suo carattere provvisorio e precario, ad essere lo strumento piu' adatto per porre in essere atti e comportamenti lesivi della sfera di attribuzioni costituzionalmente garantite. Proprio la natura costituzionale del decreto-legge fa si' che esso sia solo precariamente "atto", ma sempre potenzialmente nella condizione di divenire mero "comportamento", fonte di una lesione di poteri costituzionalmente garantiti che si troverebbero ad essere violati e lesi sulla base di cio' che - dopo qualche settimana - si rivelerebbe essere un mero "comportamento" imputato al Governo. In alcune situazioni particolarmente sensibili (come tutte quelle che riguardano i diritti politici ed elettorali), la semplice decadenza ex tunc del decreto-legge non convertito non e' sufficiente a ripristinare una situazione costituzionalmente corretta. La violazione dell'ordine costituzionale rimane e non e' (o lo e' molto difficilmente) piu' reintegrabile; la fonte della violazione e' un "non atto", un "comportamento" imputato al Governo: proprio la natura precaria del decreto-legge, "atto" per soli sessanta giorni, ma poi - se non convertito - "comportamento", fonte pero' di violazioni di situazioni soggettive o di sfere di potere, potrebbe essere la chiave per ritenere ammissibile - impregiudicata rimanendo la precedente giurisprudenza - il conflitto di attribuzioni sul decreto-legge. 3.2. - Per quanto riguarda il provvedimento del Garante, il problema risiede tutto nella qualificazione delle cd. autorita' amministrative indipendenti, se cioe' ad esse vada riconosciuto il rango di potere dello Stato. Sul punto i ricorrenti si rimettono alla valutazione della Corte, sottolineando pero' come la posizione delle autorita' indipendenti, cosi' come sono andate concretamente configurandosi nel sistema politico italiano, e' quella della loro immediata subordinazione alla Costituzione e ai principi generalissimi, di attuazione della Costituzione, contenuti nelle leggi che li prevedono (leggi che hanno in larga misura un compito organizzatorio): di talche' in numerose situazioni - come in quella che qui viene in considerazione - il Garante, cosi' come altre autorita' indipendenti, si trova ad applicare ed attuare direttamente e immediatamente la Costituzione, fornendo indirizzi ed interpretazioni che danno al suo ruolo un tono sostanzialmente costituzionale (e.g.: ai sensi dell'art. 13 del d.-l., il Garante puo' adottare atti cautelari innominati per ripristinare la disciplina dell'accesso ai mezzi di comunicazioni di massa cosi' come fornita nella legislazione, nelle deliberazioni della commissione parlamentare o delle disposizioni da esso dettate, e cio' al fine "di ripristinare l'equilibrio delle competizioni elettorali", finalita' di sicuro rango costituzionale dal Garante autonomamente interpretata e attuata). Cio' premesso, i ricorrenti ritengono che gli atti contro cui e' rivolto il presente ricorso violino le sfere di attribuzioni loro costituzionalmente garantite sotto i seguenti profili: 4. - Violazione dell'art. 75 della Costituzione da parte degli artt. 1, 2, 3 e 14 del d.-l. n. 83/1995. L'applicazione alle campagne referendarie della rigida disciplina dell'accesso ai mezzi di informazione di massa (v. in particolare art. 2 laddove irregimenta le modalita' della propaganda elettorale implicitamente vietando quelle in esso non elencate; art. 3 che vieta la pubblicita' elettorale a pagamento; nonche' le disposizioni che prevedono un rigidissimo apparato sanzionatorio e di controllo) non trova alcuna ragionevole giustificazione nella struttura delle campagne referendarie. Nessuna delle ragioni che da parte dei sostenitori della par condicio vengono elencate per giustificare l'applicazione di norme rigide alla campagna elettorale puo' trovare applicazione nel caso delle campagne referendarie. In esse non si tratta di garantire parita' di accesso ad una pluralita' di soggetti politici tesi alla conquista di percentuali marginali del consenso; in esse l'eventuale disparita' delle forze in campo e', sempreche' esistente, controllabile con estrema facilita'; in esse ben si puo' chiedere ai mezzi di comunicazione di massa di disciplinare la loro attivita' di informazione politica rispettando la parita' delle posizioni fra il si' ed il no all'abrogazione referendaria. Il carattere binario del quesito referendario rende cosi' piu' lineare e meno problematico - tranne quelle vicende di evidente parzialita' di testate o conduttori che fanno parte di un malcostume giornalistico che difficilmente interventi repressivi del legislatore potranno estirpare - lo svolgimento della campagna referendaria. Sull'altro versante, il carattere puntuale e non sempre di immediata apprensione del quesito referendario richiede e impone uno sforzo per far giungere al corpo elettorale quella messe di informazione necessaria per deliberare in modo consapevole. Il coordinamento, allora, delle due esigenze rende irragionevole la pedissequa applicazione alle campagne referendarie della rigida disciplina che il decreto-legge sulla par condicio riserva alle ben diverse campagne elettorali politiche e amministrative: per tali ragioni, l'applicazione alle campagne referendarie della disciplina degli artt. 2 e 3 lede i diritti costituzionalmente garantiti ai promotori. 5. - Violazione dell'art. 75 della Costituzione da parte dell'art. 3, sesto comma, del d.-l. n. 83/1995; violazione dei principi di congruenza, ragionevolezza e proporzionalita'. Il Governo, nell'emanare l'art. 6, terzo comma, deve essersi rifatto a quella "convenzione antireferendaria" che ha spesso ispirato il comportamento del nostro sistema politico, in cui l'utilizzazione di uno strumento di democrazia diretta che impone al corpo elettorale di schierarsi per contenuti difficilmente veniva accettata. Se cosi' non fosse, non si spiegherebbe la logica perversa sottesa all'art. 3, sesto comma. Con tale disposizione, infatti, viene vietato ai promotori del referendum, nonche' a chi all'abrogazione della norma si oppone, di utilizzare gli strumenti della pubblicita' elettorale non solo nei trenta giorni precedenti al referendum, ma anche per tutto quel periodo precedente che si venisse a sovrapporre con gli ultimi trenta giorni di un'altra e diversa campagna elettorale. Per rendere piu' comprensibile l'effetto della disposizione in questione si puo' far riferimento alla situazione attuale. Poniamo il caso che i dieci referendum, per il momento ancora lasciati in una piazzola di sosta, siano infine indetti per domenica 11 giugno: sara' vietata la pubblicazione e la trasmissione di messaggi pubblicitari nei trenta giorni precedenti al giorno delle votazioni, vale a dire a partire dal 12 maggio. Il caso vuole che per il 23 aprile siano indette le elezioni dei consigli regionali, provinciali e comunali, essendo gia' fissato per la domenica 7 maggio il ballottaggio per le elezioni comunali e provinciali; in applicazione dell'art. 3, sesto comma, e' vietata la pubblicazione e la trasmissione di messaggi pubblicitari inerenti i referendum a partire dai trenta giorni precedenti e quindi dal 24 marzo. Insomma, messaggi pubblicitari relativi ai referendum - che potrebbero svolgersi l'11 giugno - potrebbero essere pubblicati o trasmessi dall'8 maggio all'11 maggio oppure fino al 24 marzo, con la conseguenza di imporre in sostanziale black out a quella necessaria attivita' di informazione del corpo elettorale richiesta per un corretto svolgimento dei referendum (cio' e' tanto piu' grave se il divieto di pubblicita' riguarda anche gli annunci di dibattiti o altre iniziative politiche, cosi' come si stanno orientando giornali ed emittenti). L'evento della sovrapposizione parziale della campagna referendaria con una campagna elettorale politica o amministrativa imporrebbe cosi' una sorta di clamoroso silenzio stampa sulle iniziative politiche dei favorevoli (e dei contrari) alla richiesta abrogativa. Ma l'evento della sovrapposizione, di per se' non significativo ai fini della campagna referendaria, potrebbe in realta' essere cercato e voluto proprio per ridurre al silenzio il dibattito referendario. Cosicche' mentre la pubblicita' elettorale e referendaria (a pagamento) e' lecita fino a trenta giorni dall'evento elettorale, la stessa attivita' finirebbe per essere vietata solo perche' il referendum e' preceduto da una diversa tornata elettorale. Ne' il divieto del ricorso alla pubblicita' relativa a consultazioni referendarie successive trova una ragionevole giustificazione nel fatto che i messaggi pubblicitari referendari potrebbero assumere contenuti, solo apparentemente relativi ai referendum, ma in realta' utilizzati indirettamente e surrettiziamente per influenzare il corpo elettorale in relazione alle consultazioni elettorali immediatamente precedenti, per le quali e' gia' operante il divieto di pubblicita' a pagamento. In questa ansia di evitare scappatoie e di disciplinare (e severamente sanzionare) ogni aspetto delle campagne elettorali, questo ragionamento proverebbe troppo e potrebbe essere posto a base anche di conclusioni piu' drastiche. I divieti - specie i divieti in una societa' liberale e democratica| - sono retti dal principio di ragionevolezza e di proporzionalita'. Posto allora il divieto di pubblicita' elettorale nei trenta giorni immediatamente precedenti una data elezione, l'uso distorto della pubblicita' referendaria per intervenire sullo svolgimento della campagna elettorale dovra' trovare e (puo' gia' trovare) strumenti adeguati e congrui rispetto allo scopo, senza necessariamente penalizzare un'attivita' di per se' lecita. La misura interdittiva della pubblicita' referendaria, anche nei trenta giorni precedenti elezioni diverse, e' eccessiva, irragionevole e sproporzionata: e pertanto lesiva dei diritti costituzionalmente spettanti ai promotori, ai firmatari e al corpo elettorale. 6. - Cattivo uso del potere di cui all'art. 77 della Costituzione. La materia dei diritti politici e' estremamente delicata e su di essa l'uso della decretazione di urgenza deve avvenire con estrema prudenza e attenzione. Nel caso di specie, cosi' non e' successo e, senza che ricorressero gli estremi della necessita' e dell'urgenza (requisiti che la Corte ben puo' valutare, ai sensi della recente sentenza n. 29 del 1995: si tenga presente, al fine di valutare la sussistenza di tali requisiti, che i referendumancora non sono stati indetti), il Governo ha inciso con un decreto-legge sulla materia referendaria, utilizzando uno strumento il cui uso era stato gia' condannato, sia pur in un diverso contesto, sia dal Presidente della Repubblica (quando - proprio in ragione di cio' - rifiuto' di firmare un decreto-legge, approvato dal Governo Amato, che incideva su di una legge, quella sul finanziamento pubblico dei partiti, soggetta a referendum), sia dall'Ufficio centrale per il referendum. Con l'ordinanza 23 marzo del 1993, l'Ufficio centrale ritenne che "il blocco delle operazioni referendarie non potra' scattare .. quando, per lo strumento legislativo utilizzato, sia comunque mancata un'abrogazione certa e definitiva". Nel caso di specie (che riguardava il referendum per l'abrogazione del Ministero delle partecipazioni statali) l'Ufficio centrale concordava con i promotori sul fatto che l'utilizzazione della decretazione d'urgenza ai fini dell'abrogazione di norme oggetto di proposte referendarie poneva nelle mani del Governo uno strumento con il quale avrebbe potuto impedire lo svolgimento della consultazione popolare; successivamente, in realta', sarebbe stato sufficiente provocare la decadenza del decreto-legge, affinche' potessero dispiegarsi gli effetti della normativa cosi' strappata all'abrogazione popolare. In frode alla Costituzione, la decretazione d'urgenza avrebbe potuto essere utilizzata per evitare il referendum abrogativo. La ratio della decisione del 1993 dell'Ufficio centrale consisteva, quindi, proprio nell'evitare che attraverso la decretazione d'urgenza fosse sottratta al popolo la possibilita' di utilizzazione del fondamentale istituto di democrazia diretta previsto all'interno del nostro ordinamento: una simile ratio ben puo' sorreggere la valutazione della Corte costituzionale (anche per quanto riguarda il profilo dell'ammissibilita' del conflitto avente ad oggetto un decreto-legge). 7. - Il provvedimento del Garante. Il provvedimento 22 marzo 1995 del Garante per la radiodiffusione e l'editoria trova applicazione alle campagne elettorali regionali, provinciali e comunali: tuttavia disciplina anche le sanzioni che possono essere irrogate dal Garante ai sensi del decreto-legge; tra tali sanzioni devono ritenersi applicabili anche quelle che derivano dalla violazione dell'art. 3, sesto comma. Ne risulta la necessita' di annullare, in parte qua, per le ragioni finora esposte, il provvedimento del Garante. ISTANZA DI SOSPENSIVA E' difficile negare in questo quadro che il decreto-legge e il provvedimento del Garante ledono le competenze costituzionalmente spettanti ai promotori. D'altra parte, i promotori non possono esimersi dal chiedere (in applicazione analogica dell'art. 40 della legge n. 87/1953, non esclusa dalle sentenze nn. 302/1988 e 406/1989) l'applicazione della misura cautelare della sospensione, in parte qua, dei provvedimenti impugnati. E' evidente infatti che se si dovessero attendere gli ordinari tempi di decisione della controversia il diritto costituzionalmente garantito di cui si chiede a codesta ecc.ma Corte tutela e protezione verrebbe irrimediabilmente leso: i tempi, pur rapidi, della giustizia costituzionale non permetterebbero al comitato promotore di poter svolgere una corretta campagna di informazione sul referendum in presenza delle vincolanti disposizioni di cui al decreto-legge; ricorrono pertanto i requisiti del periculum in mora, sia sotto il profilo della irrimediabilita', sia sotto il profilo della gravita' del danno.
P. Q. M. I signori Calderisi, Strik Lievers e Vito, come sopra rappresentati e difesi, chiedono che la Corte costituzionale, dichiarata l'ammissibilita' del conflitto ai sensi dell'art. 37 della legge n. 87/1953, accolga il ricorso e annulli, previa sospensiva, gli atti indicati in epigrafe. Roma, addi' 29 marzo 1995 Prof. avv. Beniamino CARAVITA DI TORITTO AVVERTENZA: Conflitto gia' dichiarato, in sede di deliberazione, ammissibile nei confronti del Governo della Repubblica in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri e inammissibile nei confronti del Garante per la radiodiffusione e l'editoria (v. l'ordinanza n. 118/1995, gia' pubblicata nella Gazzetta Ufficiale - 1a serie speciale - n. 15 del 12 aprile 1995). 95C0447