N. 404 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 marzo 1995

                                N. 404
 Ordinanza  emessa  il  29  marzo  1995  dal  pretore  di Macerata nel
 procedimento penale a carico di Ottavi Giammario ed altri
 Paesaggio (tutela del) - Divieto di modificazione del territorio in
    zone di valore paesaggistico ed ambientale,  senza  la  prescritta
    autorizzazione  -  Previste  sanzioni  penali  -  Lamentato  egual
    trattamento   in   caso   di   autorizzazione    sopravvenuta    -
    Irragionevolezza  -  Ritenuta  indeterminatezza  della fattispecie
    penale - Unicita' della  norma  penale  incriminatrice  con  varie
    (ovariamente  interpretabili)  sanzioni  -  Conseguente  possibile
    egual trattamento per situazioni diverse o diverso trattamento per
    eguali situazioni - Estensione della tutela paesaggistica  a  beni
    privi  di  tale  carattere  -  Possibile  incidenza sulla liberta'
    personale, in funzione promozionale del diritto penale.
 (Legge 8 agosto 1985, n. 431, art. 1-sexies).
 (Cost., artt. 3, 13, 25 e 27).
(GU n.27 del 28-6-1995 )
                              IL PRETORE
    Ha  pronunciato  la  seguente ordinanza nella pubblica udienza del
 giorno 22 marzo 1995 nel procedimento  penale  a  carico  di:  Ottavi
 Giammario, nato il giorno 8 settembre 1949 a Cessapalombo (Macerata),
 ivi  residente  in frazione Villa n. 58, elettivamente domiciliato in
 Macerata, presso e  nello  studio  legale  del  dott.  proc.  Stefano
 Migliorelli,  del  Foro  di  Macerata;  libero  - presente; Francucci
 Luigi, nato il giorno 21 maggio 1954 a Cingoli (Macerata),  residente
 in   Treia  (Macerata),  via  Giovanni  XXIII  n.  27,  elettivamente
 domiciliato in Macerata, presso e nello studio legale del dott. proc.
 Stefano Migliorelli, del Foro di Macerata; libero - presente; Virgili
 Mauro, nato il giorno 14 aprile 1938 a Monte San Martino  (Macerata),
 ivi residente in via Crivelli n. 6; libero - assente; imputati:
       a)  del  reato  previsto e punito dagli artt. 110 del c.p. e 1,
 lettera g), e 1-sexies della legge 8 agosto 1985, n. 431, perche', in
 concorso fra loro, nelle  rispettive  qualita'  di  presidente  della
 Comunita'  montana  committente  -  Virgili -, direttore dei lavori -
 Ottavi  -  e  di  esecutore  dei  lavori   -   Francucci   -,   senza
 autorizzazione,  in  territorio  coperto  da  boschi hanno ripulito e
 spianato ml 426  di  pista  all'interno  di  un  bosco  ceduo,  hanno
 effettuato  sensibili  movimenti  di  terra  ed  hanno effettuato uno
 sbancamento  di  terreno  violando  altresi'  le  norme   del   Piano
 paesistico regionale;
       b)  del  reato previsto e punito dagli artt. 110 del c.p. e 20,
 lettera c), della legge 28 febbraio 1985, n. 47, perche' in  concorso
 fra loro, nelle rispettive qualita' sopraindicate, senza concessione,
 hanno  eseguito  i  lavori sopraindicati; accertati a San Ginesio fra
 Monastero e Montalto il 6 agosto 1992.
    Con l'intervento  del  p.m.  in  persona  dell'ispettore  Giuliano
 Gigli,  ufficiale di p.g. in servizio presso la sezione di p.g. della
 procura della Repubblica presso la pretura circondariale di Macerata,
 aliquota  Polizia  di  Stato,  vice  procuratore  onorario,  all'uopo
 delegato.
                            FATTO E DIRITTO
    In  data  22 agosto 1992, l'ufficio della procura della Repubblica
 presso la pretura  circondariale  di  Macerata  emetteva  decreto  di
 citazione a giudizio, recante il n. 11407/1992 r.g. Notizie di reato,
 con  cui  Ottavi  Giammario,  Francucci Luigi e Virgili Mauro, meglio
 qualificati in epigrafe, venivano convocati dinanzi a questa a.g. per
 rispondere delle  fattispecie,  meglio  individuate  in  rubrica.  In
 particolare,  si contestava ai tre, il terzo dei quali in qualita' di
 committente, il primo, invece, in veste di esecutore dei lavori ed il
 secondo in qualita' di  direttore  dei  lavori,  di  aver  realizzato
 un'opera  di  ripulitura e spianamento di una pista, per la lunghezza
 di ml 426 circa, in un territorio boscato tra le localita'  Monastero
 e   Montalto   del   comune  di  Cessapalombo,  senza  le  preventive
 autorizzazioni a fini  edilizi  ed  a  fini  ambientali.  All'odierna
 udienza,  avuta  la  presenza  dei  soli imputati Ottavi e Francucci,
 veniva aperto il dibattimento. In esito all'esposizione introduttiva,
 si procedeva all'espletamento dell'istruttoria dibattimentale, che si
 compendiava nell'esame dei testi indotti  dal  p.m.  e  dalla  difesa
 degli   imputati   Ottavi   e  Francucci  e  nell'acquisizione  della
 documentazione prodotta dalla pubblica accusa e  dalle  difese  degli
 imputati.    Terminata   l'istruttoria   dibattimentale,   le   parti
 concludevano come da separato  verbale.    L'esame  delle  risultanze
 dell'istruttoria    dibattimentale    dovra'    prendere   le   mosse
 dall'imputazione ascritta agli odierni prevenuti sub lettera a) della
 rubrica.    Si  consideri,  a  tal  proposito,   che   le   emergenze
 dell'esperita    istruttoria    dibattimentale    hanno    consentito
 l'apprezzamento delle seguenti circostanze: in data  6  agosto  1992,
 Luciani  Pietro,  comandante  della  stazione  di  Sarnano  del Corpo
 forestale  dello  Stato,  compiva  un'ispezione  tra   le   localita'
 Monastero  e  Montalto  del comune di Cessapalombo, nell'ambito della
 zona boscata cola' esistente, ove si stavano svolgendo dei lavori  di
 costruzione  dell'acquedotto  rurale,  interessante la zona, condotti
 dalla ditta del Francucci e sotto la direzione dell'Ottavi: i  lavori
 erano  stati  commissionati  alla ditta summenzionata dalla Comunita'
 montana zona L, all'epoca presieduta dal Virgili. Secondo gli atti in
 possesso del Corpo forestale  dello  Stato,  il  Ministero  dei  beni
 ambientali  aveva  rilasciato  apposita concessione, per l'esecuzione
 dei  lavori  summenzionati,  la  quale  prevedeva  che  il   percorso
 dell'acquedotto  avrebbe  dovuto  seguire  la traccia della strada di
 collegamento tra le frazioni  Monastero  e  Montalto  del  comune  di
 Cessapalombo;  viceversa,  il milite operante accerto' che, nel corso
 dei lavori, si era proceduto alla ripulitura ed allo  sbancamento  di
 una  pista  sita  al di fuori del percorso indicato nel provvedimento
 autorizzatorio, secondo quanto  aveva  formato  oggetto  di  apposita
 domanda di concessione in variante, presentata dai responsabili della
 ditta   summenzionata   ed   intrapresa   ben   prima   di  qualsiasi
 provvedimento di concessione della variante  stessa.  Le  circostanze
 storiche  or  ora  riferite sono state narrate con estrema precisione
 dal teste Luciani Pietro (v. in  atti).    D'altro  canto,  e'  stata
 acquisita  anche la copia del provvedimento di autorizzazione reso in
 data 2 giugno 1992 dal Ministero dell'ambiente (v. in atti):  con  lo
 stesso,  al punto 1), si statuiva in maniera ben chiara che "I tratti
 di acquedotto ( ..) devono seguire il tracciato  dell'attuale  strada
 di  collegamento  tra  le  frazioni di Monastero e Montalto.". Subito
 dopo, al punto n. 2), il provvedimento autorizzatorio  statuisce  che
 "Durante  l'esecuzione  delle  opere si devono utilizzare le piste di
 servizio esistenti non procedendo all'ampliamento  delle  stesse  per
 una  larghezza  totale  massima di mt 2,50 ed il materiale di risulta
 dovra'  essere  depositato  in  un   luogo   idoneo   non   vincolato
 idrogeologicamente.".   Orbene, quanto precede fonda il convincimento
 di questo giudicante circa la sussistenza  della  materialita'  della
 fattispecie  contestata  agli  odierni  imputati:  nessun dubbio puo'
 nutrirsi che i lavori intrapresi, relativi alla  ripulitura  ed  allo
 sbancamento  della  pista, corrente in localita' diversa dalla strada
 di collegamento tra le frazioni di Montalto e di Monastero del comune
 di  Cessapalombo,  non   formava   oggetto   del   provvedimento   di
 autorizzazione,   rilasciato  dal  Ministero  dell'ambiente:  con  lo
 stesso, infatti, era stata concessa la possibilita' di procedere alla
 ripulitura delle piste  "  ..di  servizio  ..":  nessun  dubbio  puo'
 ragionevolmente  nutrirsi  in  relazione  alla  circostanza  che tali
 fossero soltanto le piste, correnti all'interno della  zona  boscata,
 esistenti lungo il tracciato indicato nella autorizzazione (strada di
 collegamento  fra  le  frazioni  sopra indicate), apparendo chiaro il
 riferimento alla  strumentalita'  delle  piste  stesse  al  tracciato
 oggetto    dell'autorizzazione,   che',   altrimenti   opinando,   si
 giungerebbe alla conclusione  che,  nell'esecuzione  dei  lavori,  la
 ditta  operante sarebbe stata libera di utilizzare qualsivoglia pista
 esistente nei pressi delle localita' indicate nel  provvedimento  del
 Ministero   dell'ambiente   ad   libitum,  secondo  meri  calcoli  di
 convenienza e senza nulla chiedere alle competenti autorita'  il  che
 appare in insanabile conflitto con le finalita' di tutela ambientale,
 sottese  al  controllo  amministrativo,  effettuando  dai  competenti
 organi. Si consideri che la pista ripulita ricadeva in zona  boscata,
 sita  all'interno del perimetro del Parco dei Sibillini (v., in atti,
 dichiarazioni,  rese  dal  teste  Luciani  Pietro).  L'autorizzazione
 ambientale,  di  cui  all'art.  7  della  legge  n. 1497/1939, ha per
 oggetto, a seguito delle innovazioni apportate con legge n. 431/1985,
 tutti gli interventi effettuati nelle zone vincolate,  oggetto  della
 peculiare   tutela   predisposta   dal  legislatore:  nessun  dubbio,
 pertanto, che la ripulitura della pista summenzionata dovesse  essere
 oggetto  di nuova autorizzazione e che senza l'apposito provvedimento
 amministrativo i lavori di ripulitura e di sbancamento  si  sarebbero
 presentati  come  illegittimi,  senza  che  a nulla possa rilevare la
 circostanza che la pista preesistesse agli stessi e fosse, in  epoche
 precedenti,  utilizzata nei lavori di esbosco ed agricoli, essendosi,
 comunque,  verificato  intervento  soggetto  al  controllo  ed   alla
 preventiva  autorizzazione della competente autorita' amministrativa.
 La  sussistenza  dell'elemento  subbiettivo  della   fattispecie   in
 disamina  appare  desumibile dalla circostanza che i responsabili dei
 lavori  si  attivarono  per  ottenere  dalla   competente   autorita'
 (amministrazione  provinciale  di  Macerata) l'autorizzazione, di cui
 all'art. 7 della legge  n.  1497/1939,  relativa  ai  lavori  oggetto
 dell'imputazione  (intrapresi, lo si rammenti, prima del rilascio del
 provvedimento   autorizzatorio):    cio'    appare    indice    della
 consapevolezza  della  necessita'  del provvedimento surrichiamato al
 fine del compimento  dei  lavori,  sicche'  non  puo'  dubitarsi  che
 l'inizio  degli stessi in assenza di autorizzazione sia comportamento
 ascrivibile alla volontarieta'  dei  prevenuti,  dovendosi  ravvisare
 nella  condotta  degli  stessi,  quanto meno, un profilo di colpevole
 leggerezza. A nulla rileva che,  in  epoca  successiva  al  controllo
 operato   dal   Corpo   forestale   dello   Stato,  l'amministrazione
 provinciale di Macerata ebbe a rilasciare l'autorizzazione richiesta,
 relativa alla variante in corso d'opera (v., in atti, delibera n. 564
 del 14 aprile 1993) e che il  competente  Servizio  decentrato  opere
 pubbliche  e  difesa del suolo di Macerata ebbe a valutare come nullo
 l'impatto ambientale dei lavori effettuati (v., in atti, nota n.  896
 del  27 gennaio 1993 del Servizio decentrato opere pubbliche e difesa
 del suolo di Macerata, ove si afferma che "I  lavori  eseguiti  dalla
 Comunita' montana di S. Ginesio in violazione delle norme di cui alla
 legge  n.  1497/39,  a  parere di questo ufficio, considerata la loro
 natura e consistenza non hanno arrecato  alcun  danno  dal  punto  di
 vista   ambientale.").   Si   consideri,  a  tal  proposito,  che  la
 fattispecie preveduta dall'art. 1-sexies della legge 8  agosto  1985,
 n.  431,  costituisce,  secondo  le  acquisizioni  della  consolidata
 giurisprudenza di legittimita' e della maggioritaria dottrina,  reato
 di  pericolo  e  non  di  danno,  tendendo la normativa in disamina a
 vietare   tutti   gli   interventi   tout   court,  i  quali  abbiano
 potenzialita' di immutazione dello stato dei  luoghi,  oggetto  della
 protezione  legislativa.  Proprio quanto precede, peraltro, impone di
 valutare la  questione  concernente  l'illegittimita'  costituzionale
 dell'art.  1-sexies  della  legge  8  agosto 1985, n. 431.   La norma
 incriminatrice contestata  infatti,  l'art.  1-sexies  del  d.-l.  27
 giugno  1985,  n. 312 (convertito nella legge 8 agosto 1985, n. 431),
 nell'interpretazione che di  essa  da  il  cosiddetto  droit  vivant,
 colpisce  con le sanzioni penali previste dall'art. 20 della legge n.
 47/1985 la violazione delle disposizioni introdotte  dalla  legge  n.
 431/1985,  indipendentemente  dalla  circostanza che, nell'ipotesi in
 cui l'opera  eseguita  non  sia  stata  preventivamente  autorizzata,
 l'autorizzazione  -  e  con  essa l'accertamento della inesistenza di
 qualsivoglia minaccia all'integrita' del bene tutelato  -  intervenga
 successivamente.    Tale  e'  infatti la conclusione ricavabile dalla
 norma   in   esame,   siccome   oggetto   dell'ormai   cristallizzata
 interpretazione  fornitane  dalla  suprema  Corte  (v., in proposito,
 Cass., Sez. III penale, 5 maggio-11 giugno 1992, Ferrero:  "la  legge
 n.   431   del   1985   ha   dettato  un  complesso  di  disposizioni
 particolarmente restrittive, dirette a tutelare in modo rigoroso  non
 soltanto  l'aspetto  paesistico  del  territorio,  in coincidenza con
 l'interesse  garantito  dalla  Carta  fondamentale  all'art.  9,   ma
 l'intero  assetto ambientale, sia pure sotto il prevalente profilo de
 quo"; v. Cass., 3 gennaio 1991, Francucci; "In questa prospettiva  la
 costruzione  del  reato  di  violazione  della  legge  de  qua  ( ..)
 prescinde  completamente  dall'accertamento  di  un  reale  danno  al
 tessuto  preesistente.  (  ..)  In  siffatto quadro la sopravvenienza
 dell'atto da luogo ad una sanatoria  soltanto  amministrativa  e  non
 anche  penale.  Questa  interpretazione  ha  anche  una  sua coerenza
 coincidente con la ratio della legge. Si vuole stimolare il cittadino
 al  rispetto  dell'ambiente  e  delle  regole  all'uopo  predisposte,
 inducendolo  a  far  transitare  ogni  sua  piu' rilevante iniziativa
 attraverso il vaglio dell'autorita' competente".  Cass., 5  maggio-11
 giugno 1992, Ferrero, cit.).  Si consideri, ancora che il legislatore
 non  ha  espressamente  attribuito  efficacia  estintiva del reato al
 provvedimento amministrativo favorevole sopravvenuto, a differenza di
 quanto ha fatto in materia urbanistica con l'art. 22 della  legge  n.
 47/1985.    Cio' costituirebbe il chiaro indice di una voluntas legis
 improntata a disfavore nei confronti di provvedimenti di  "sanatoria"
 post operas in materia paesaggistica.  La legittimita' costituzionale
 di questa disposizione, nell'interpretazione ora riferitane, e' stata
 sottoposta   al  vaglio  della  Consulta  in  piu'  occasioni  e  con
 riferimento a diversi profili,  onde  appare  opportuno  -  oltreche'
 metodologicamente  doveroso  -  ripercorrerne  brevemente la vicenda.
 L'ordinanza  n.  431  del  1991,  affrontando   il   problema   della
 difformita'  del  trattamento  sanzionatorio delle diverse, possibili
 violazioni della disciplina di tutela del paesaggio  (nel  senso  che
 l'art. 1-sexies sarebbe applicabile soltanto alle violazioni relative
 ai  beni  individuati  per  categorie  astratte dalla stessa legge n.
 431/1985, e non anche a quelle  relative  a  beni  la  cui  rilevanza
 paesaggistica   e'   stata   in   concreto  accertata  dall'autorita'
 amministrativa come previsto dal sistema introdotto  dalla  legge  n.
 1497/1939),  ha  giustificato l'indicata difformita' sulla base della
 considerazione che la legge n. 431/1985 ha introdotto  un  regime  di
 tutela  paesaggistica  completamente  diverso  - quanto ai criteri di
 individuazione dei beni tutelati ed alle caratteristiche della tutela
 - rispetto a quello stabilito dalla  legge  n.  1497/1939,  per  cui,
 trattandosi  di  "violazioni  operanti  su  piani  diversi",  ben  si
 giustifica la difformita' del trattamento  sanzionatorio.    Peraltro
 l'ordinanza in esame, pur affermando la radicale diversita' del nuovo
 regime  di  tutela  sotto il profilo dei meccanismi di individuazione
 dei beni tutelati ex art. 9 della Costituzione, non si e' discostata,
 quanto al fondamento costituzionale di detta tutela ed ai conseguenti
 criteri  valutativi  che  consentono  al  legislatore  ordinario   di
 vincolare   questo  o  quel  bene,  dalla  precedente  giurisprudenza
 costituzionale  in  materia:  l'esplicito   riconoscimento,   operato
 mediante rinvio alla precedente sentenza n. 151 del 1986, del "valore
 estetico-culturale"  quale fondamento costituzionale della tutela del
 paesaggio, e' perfettamente  coerente  con  l'impostazione  culturale
 fatta propria dalla Corte costituzionale in materia di individuazione
 dei  caratteri  differenziali delle tutele, ad un tempo differenziate
 ed interferenti, insistenti sul  medesimo  ambito  territoriale,  nel
 senso  che  tra  i possibili regimi di tutela quello che trova il suo
 fondamento  nell'art.  9,  secondo  comma,  della   Costituzione   si
 caratterizza  per il fatto di avere ad oggetto la cura dell'interesse
 estetico-culturale (cosi' Corte cost.,  26  aprile  1971,  n.  79;  6
 luglio  1972,  n.  142; e, in particolare, 29 dicembre 1982, n.  239,
 dove l'affermazione che la Costituzione " ..accomuna  la  tutela  del
 paesaggio a quella del patrimonio storico ed artistico e detta il suo
 precetto,  come  gia'  rilevato  da  parte della dottrina, ai fini di
 proteggere e migliorare i beni  (culturali)  suddetti  e  contribuire
 cosi'  all'elevazione  intellettuale della collettivita'.").   Questa
 ricostruzione,  pertanto,  prende  posizione  nel  dibattito  fra  le
 contrapposte  tesi,  tendenti rispettivamente a qualificare come beni
 paesaggisticamente   rilevanti   -   e   come   tali   legittimamente
 assoggettabili  alla  relativa  disciplina  -  soltanto i c.d. quadri
 naturali, ovvero a ritenere imprescindibile l'azione della  comunita'
 nella  definizione di una nozione di paesaggio individuata nella c.d.
 forma del Paese: il superamento  di  queste  posizioni,  mediante  la
 valorizzazione  del  profilo  dell'interesse posto a fondamento della
 tutela, consente di affermare che il dato  materiale  costituito  dal
 suolo  assume  rilevanza paesaggistica (e diviene pertanto meritevole
 dell'apposita  tutela)  a  seguito  di  un  giudizio   di   carattere
 estetico-culturale,  che  nel  sistema  della  legge n. 1497/1939 era
 rimesso alla competente autorita' amministrativa.
    Nella successiva sentenza n. 67 del 1992, la Corte  costituzionale
 precisa ulteriormente tale profilo: il criterio di individuazione dei
 beni  paesaggisticamente  rilevanti introdotto dalla legge n. 431 del
 1985,  e  basato  non  sull'effettivo  accertamento  della  rilevanza
 estetico-culturale  ma sulla indicazione di una serie di categorie di
 beni che in via astratta e presuntiva dovrebbero avere tali caratteri
 (che ne giustificano l'assoggettamento al regime  di  tutela  siccome
 previsto  dall'art.  9  della  Costituzione);  ha  il  suo necessario
 presupposto   nel   completamento   della   disciplina    ad    opera
 dell'attivita'  di  pianificazione demandata alle regioni, sulla base
 della quale " ..possono essere disposte  discipline  differenziate.".
 Questa  impostazione  e'  stata  poi  coerentemente  sviluppata nelle
 successive pronunzie  relative  alla  disposizione  in  esame.  Nella
 sentenza  n.  122  del 1993, con riferimento al fatto che il richiamo
 operato quoad poenam  dall'art.  1-sexies  della  legge  n.  431/1985
 all'art.  20  della  legge n. 47/1985 non consente di individuare con
 esattezza quale delle sanzioni contemplate dalla norma richiamata  si
 applichi  alla  violazione del precetto, si e' affermato che, in ogni
 caso, " ..l'accentuata severita' di trattamento, che puo'  aversi  in
 taluni  casi  per  effetto  del  carattere  non  differenziato  della
 disciplina, trova giustificazione  nella  entita'  sociale  dei  beni
 protetti  e  nel  carattere  generale,  immediato  e interinale della
 tutela che la legge ha inteso apprestare.".   Nella sentenza  n.  269
 del  1993, che affronta direttamente l'ipotesi di costruzione in zona
 vincolata   in   assenza   dell'autorizzazione   paesaggistica,   poi
 sopravvenuta, nell'estendere - peraltro con motivazione assolutamente
 tautologica   -  le  ragioni  poste  a  fondamento  delle  precedenti
 dichiarazioni di infondatezza all'indicata  fattispecie,  si  afferma
 che  in  dette  pronunzie la Corte " ..non ha mancato di precisare di
 riconoscere congruita' e  ragionevolezza  alla  disciplina  anche  in
 relazione  al  suo  palese  carattere  interinale.  Non  puo' negarsi
 infatti  che  l'applicazione   della   normativa   sulla   protezione
 ambientale  abbia  posto  in  evidenza alcuni problemi, segnalando in
 particolare l'opportunita' di definire le previsioni sanzionatorie in
 modo che consentano di discriminare meglio il trattamento punitivo in
 relazione alla effettiva gravita' dei fatti.  E'  dunque  auspicabile
 che,  tenuto  conto dell'ormai prolungata vigenza della disciplina il
 legislatore provveda ad un adeguato riesame della  stessa  alla  luce
 delle  questioni  che  via via si sono andate ponendo.".  Orbene, non
 essendo   intervenuto,   nel   frattempo,   l'auspicato    intervento
 legislativo,   e   permanendo   pertanto   gli  indicati  profili  di
 incongruita' della normativa in esame, sono venute meno, ad avviso di
 questo giudicante, le ragioni poste a fondamento della giurisprudenza
 costituzionale  fin  qui  riportata.    Il  primo  dei   profili   di
 incostituzionalita'  e'  relativo  al  principio  di legalita' di cui
 all'art. 25, secondo comma, della  Costituzione,  ed  in  particolare
 alla  sua  proiezione  in termini di sufficiente determinatezza della
 fattispecie penale, con riferimento al richiamo operato quoad  poenam
 dall'art.    1-sexies   all'art.   20   della   legge   n.   47/1985.
 Nell'escludere il contrasto con tale principio della norma in  esame,
 la  Corte  costituzionale, nella richiamata sentenza n. 122 del 1993,
 ha  motivato  sulla  base  del  richiamo  al  diritto  vivente,   con
 riferimento  al  fatto che il carattere univoco della giurisprudenza,
 nel senso di ritenere applicabile la sanzione  di  cui  all'art.  20,
 lettera  c),  "  ..fuga  ogni  preoccupazione  di incertezza circa le
 conseguenze  penali  della  violazione   della   norma   impugnata.".
 L'affermazione  surriportata  non ha evidentemente tenuto conto della
 sentenza 5 maggio-11 giugno 1992 della  terza  sezione  penale  della
 Corte  di  cassazione (ricorrente Ferrero), la quale ha affermato che
 il richiamo de quo non riguarda  la  sola  lettera  c)  ma  tutte  le
 ipotesi  contemplate  nell'art. 20 della legge n. 47/1985, giacche' "
 ..il legislatore non ha voluto inserire alcun puntuale richiamo  alle
 varie  lettere  dell'art.  20,  lasciando  tale compito all'attivita'
 interpretativa del giudice.".  La conseguenza e' che giudici  diversi
 potrebbero  applicare  a  fatti  diversi  le  stesse sanzioni ed agli
 stessi  fatti  sanzioni  diverse,  unica  essendo  la  norma   penale
 incriminatrice   contenente  il  precetto,  ma  varie  (e  variamente
 interpretabili:  la  decisione  citata ne e' un esempio) le sanzioni.
 Il secondo profilo attiene al contrasto fra la disposizione in  esame
 e  l'art.  9,  secondo comma, della Costituzione.  La sentenza n. 239
 del 1982 della Corte costituzionale, di cui si e' riportato un  passo
 significativo,  aveva  con  chiarezza  evidenziato come il fondamento
 costituzionale della tutela paesaggistica implicasse la  legittimita'
 esclusivamente  di  quei  regimi  di  tutela  che  di tale fondamento
 estetico-culturale  tenessero  conto,  o,   meglio,   che   ad   esso
 preordinassero  il  loro  contenuto  ed il loro scopo.  Ora, non puo'
 dirsi che l'art. 1-sexies della legge n. 431/1985, nel colpire con la
 sanzione penale anche gli interventi di cui sia stata accertata - con
 autorizzazione  sopravvenuta  -  la  compatibilita'  con   i   valori
 estetico-culturali  del bene su cui insistono, persegua una finalita'
 di tipo paesaggistico, nel senso ora visto.  L'equivoco di fondo  che
 consente  la  sopravvivenza  di  questa palese violazione della Carta
 fondamentale nasce, forse, per effetto  dell'aggiunta  dell'aggettivo
 ambientale   alla   nozione   di   tutela  paesaggistica:  il  metodo
 generalizzante utilizzato dal legislatore della legge n. 431/1985 per
 individuare  i  beni  paesaggisticamente  rilevanti   avrebbe   avuto
 l'effetto,  secondo  tale prospettazione, di mutare i connotati (e la
 natura) della tutela in questione,  consentendo  l'utilizzazione  dei
 relativi  strumenti  (anche)  per  la  protezione  di  una non meglio
 definita nozione di ambiente.
    Questa conclusione non puo' essere accolta.
    In primo luogo perche' la nozione di  ambiente,  da  un  punto  di
 vista  giuridico,  ha  valore  puramente  convenzionale, indicando il
 fenomeno della compresenza in un medesimo spazio  fisico  di  diversi
 elementi  materiali,  a  ciascuno  dei  quali  corrisponde una tutela
 giuridica differenziata in  ragione  non  gia'  (o  non  solo)  delle
 caratteristiche  ontologiche  di  ogni singolo elemento, ma piuttosto
 del  profilo  dell'interesse   ad   esso   afferente   (la   riferita
 impostazione  della  dottrina  e' accolta da Corte costituzionale, n.
 239 del 1982).  In secondo luogo, perche' mai una legge ordinaria che
 modificasse i criteri di individuazione dei  beni  tutelati  potrebbe
 mutare l'oggetto della tutela siccome individuato dalla Costituzione.
 L'accertamento   del  carattere  estetico-culturale  puo',  in  altre
 parole, essere condotto in tutte le forme che la discrezionalita' del
 legislatore ritenga di individuare, ma deve pure  esserci,  affinche'
 siano   legittimamente  esercitate  le  potesta'  -  compresa  quella
 punitiva  -  finalizzate  (soltanto)  alla  tutela  di  tale  valore.
 L'estensione,  operata  dal  legislatore ordinario sul presupposto di
 una temporaneita' rimasta ormai lettera  morta,  degli  strumenti  di
 tutela  paesaggistica  a beni (e ad interventi su beni) privi di tale
 carattere, e per finalita' ad esso estranee  (il  controllo  dell'uso
 del  territorio,  o di parti di esso), non autorizza ad affermare una
 pretesa evoluzione della materia del paesaggio verso gli  incerti  (e
 in  realta' inesistenti) confini della nozione giuridica di ambiente,
 implicando semmai - ove si ritenesse, appunto, che  i  vincoli  e  le
 sanzioni    dettati   dalla   disciplina   paesaggistica   colpiscano
 fattispecie   in   cui   difetta,    rispettivamente,    il    pregio
 estetico-culturale  ovvero  la  lesione  di  esso  - l'illegittimita'
 costituzionale, per violazione  dell'art.  9,  secondo  comma,  della
 Costituzione delle relative disposizione della legge ordinaria.
    Il profilo di illegittimita' costituzionale ora indicato determina
 una  importante  conseguenza.    Chiarita la natura del bene tutelato
 dalla norma  incriminatrice,  che  non  e'  dunque  l'integrita'  del
 tessuto  ambientale  (tutelata,  nelle  sue diverse componenti, dalla
 disciplina urbanistica, da  quella  sull'inquinamento,  ecc.)  ma  il
 patrimonio   estetico-culturale  del  paese,  occorre  verificare  le
 implicazioni della ricostruzione giurisprudenziale della  fattispecie
 criminosa  in  esame nei termini descritti dalle richiamate decisioni
 della  Corte  di  cassazione.      Non   puo'   non   rilevarsi   una
 irragionevolezza  della  disposizione  in  esame,  nella parte in cui
 sottopone alla medesima  sanzione  sia  l'ipotesi  di  esecuzione  di
 un'opera  priva di autorizzazione (perche' non richiesta o per essere
 l'opera medesima non assentibile), sia quella in cui l'opera eseguita
 sia stata successivamente autorizzata.   La precedente  pronunzia  di
 rigetto  non  presenta,  sul  punto,  una motivazione particolarmente
 approfondita.   La giurisprudenza della Corte  di  cassazione  citata
 allega  invece  motivazioni  del  tutto  formalistiche, fondate su un
 parallelo fra autorizzazione paesaggistica e concessione edilizia che
 pare improponibile, attesa la  profonda  differenza  strutturale  dei
 vincoli  che  ciascuno  di tali provvedimenti e' chiamato a rimuovere
 (Corte costituzionale, sentenza n. 56 del 1968), e  prima  ancora  la
 diversita'  delle  materie  -  e  dei  relativi  principi - cui detti
 provvedimenti afferiscono (" ..diversita' di scopi, di presupposti  e
 di  oggetto  .."  evidenziata peraltro nella sentenza n. 269 del 1993
 della Corte costituzionale).  La sopravvenienza  dell'autorizzazione,
 se  non  e'  tale da escludere la messa in pericolo del bene tutelato
 (sia pure con tutte le  riserve  fin  qui  espresse  in  ordine  alla
 sussistenza di questo), purtuttavia ne esclude certamente la lesione.
 Ne consegue che il trattamento sanzionatorio risulta il medesimo, pur
 in  presenza  di  una  cosi' rilevante difformita' delle modalita' di
 aggressione al bene tutelato. Se cio' si riveli ancora giustificato e
 giustificabile in considerazione dell'asserito  carattere  temporaneo
 della    disciplina,    ovvero    della    fiducia    nell'intervento
 riequilibratore  del  legislatore,  e'  questione  ormai  di  agevole
 soluzione.    La  configurazione  del  reato  in  esame come reato di
 pericolo, e precisamente di pericolo astratto o  presunto,  anche  in
 considerazione   delle   argomentazioni   fin   qui   sviluppate  con
 riferimento alle difficolta' di  individuazione  del  bene  tutelato,
 pone  un  problema  di  compatibilita' con il principio di necessaria
 offensivita' del reato, desumibile dal  plesso  normativo  costituito
 dagli  artt.  3,  25,  27  e  13  della  Costituzione.    La  teorica
 dell'offensivita' del reato  si  fonda,  come  e'  noto,  su  diversi
 percorsi  ermeneutici.    Da un lato si ritiene che gli artt. 25 e 27
 della Costituzione, nel prevedere come conseguenze  della  violazione
 della legge penale una duplice tipologia di sanzioni, in funzione del
 tipo  di violazione (nel senso di escludere l'applicazione della pena
 ai fatti di mera disubbidienza), impedirebbero la punibilita' (ma non
 l'irrogazione di misure di sicurezza) dei fatti inoffensivi.  D'altro
 canto  si  sostiene  che  il  sacrificio  della  liberta'  personale,
 garantita  dall'art.  13  della Costituzione, non possa ammettersi se
 non per l'esigenza di tutelare un concreto interesse.  Quale che  sia
 l'impostazione  preferibile,  la dottrina concorda su di un punto: il
 principio di necessaria offensivita' del reato puo'  subire  deroghe,
 laddove  sia  necessario  anticipare la tutela sino alla soglia della
 astratta pericolosita' in considerazione della natura del bene, salvo
 pero'  a recuperare sul piano della tipicita' il deficit di lesivita'
 delle condotte incriminate.  Al contrario la normativa  in  esame  si
 rivela estremamente carente sotto questo profilo, sia con riferimento
 al  precetto che alla sanzione.  Il rischio e' che la limitazione del
 bene inviolabile della liberta' personale non avvenga, nella  materia
 de   qua  agitur,  in  un'ottica  di  bilanciamento  degli  interessi
 costituzionalmente protetti, ma piuttosto nella  prospettiva  di  una
 funzione    promozionale    del   diritto   penale,   evocata   dalla
 giurisprudenza della cassazione citata in precedenza al punto che, al
 di la' dell'affermazione o meno della sua  incostituzionalita',  v'e'
 da  chiedersi  quanto  tale  regime  sia di effettivo giovamento alla
 tutela del bene protetto.   Si consideri  che,  in  tale  ottica,  si
 finirebbe   per   punire   in  maniera  sproporzionata  all'effettiva
 lesivita' della condotta criminosa, con lesione anche  del  finalismo
 rieducativo  della  sanzione criminale, che impone la comminatoria di
 pene  adeguate  al  disvalore  sociale  delle  fattispecie  illecite.
 Inoltre,  si  ponga  mente  alla  circostanza  che,  laddove un danno
 ambientale si sia verificato e risulti applicabile la  norma  di  cui
 all'art.  734  del c.p., il soggetto verrebbe sanzionato con una pena
 che potrebbe risultare inferiore a  quella  comminabile  al  soggetto
 che, come nella fattispecie concreta sottoposta all'odierno vaglio di
 questo  giudicante,  ha  posto  in  essere  una  condotta che, seppur
 formalemente priva dei  requisiti  di  legge,  appare,  in  concreto,
 tutt'affatto  sfornita  delle  caratteristiche  lesive dell'interesse
 giuridico tutelato, proprie del  comportamento  sanzionato  dall'art.
 734  del c.p., con evidente conflitto con il principio di eguaglianza
 sostanziale di cui al secondo comma dell'art. 3 della Costituzione.
                               P. Q. M.
    Visti gli artt. 3, 13, 25 e 27  della  Costituzione,  23  e  segg.
 della legge 11 marzo 1953, n. 89;
    Dichiara  non manifestamente infondata e rilevante la questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 1-sexies della legge  8  agosto
 1985,  n. 431, per conflitto della predetta normativa con i parametri
 meglio sopra specificati e nei sensi di cui in motivazione;
    Manda alla cancelleria per la trasmissione degli atti  processuali
 alla Corte costituzionale e per gli ulteriori incombenti di rito.
      Macerata, addi' 29 marzo 1995
                         Il pretore: SEMERARO
 
 95C0793