N. 469 ORDINANZA (Atto di promovimento) 24 febbraio 1995

                                N. 469
 Ordinanza emessa il 24 febbraio 1995  dal  pretore  di  Grosseto  nel
 procedimento penale a carico di Campione Dante ed altro
 Ambiente (tutela dell') - Inquinamento - Scarichi senza la prescritta
    autorizzazione  - Possibilita' di ottenere la stessa entro novanta
    giorni dalla data di conversione in legge del decreto-legge de quo
    con   conseguente   estinzione   dei   reati   gia'   commessi   -
    Irragionevolezza-   Lesione   del   principio   di  eguaglianza  -
    Violazione del diritto all'ambiente salubre -  Omesso  adeguamento
    con le norme di diritto internazionale, in particolare, con quelle
    CEE (direttiva n. 271/1991).
 (D.-L. 16 gennaio 1995, n. 9, art. 7).
 (Cost., artt. 3, 9, 10 e 32).
(GU n.36 del 30-8-1995 )
                              IL PRETORE
    Ha  pronunciato  la  seguente ordinanza nel procedimento penale n.
 2018/95 reg. dibattimento a  carico  di  Campione  Dante  e  Campione
 Italo,  imputati  del  reato di cui agli artt. 21, primo comma, della
 legge n. 319/1976, osserva che gia' in precedenza questo  pretore  si
 e'  pronunciato  in  ordine all'ipotesi di non manifesta infondatezza
 della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3 del  d.-l.
 17  settembre  1994,  n.  537, con trasmissione degli atti alla Corte
 costituzionale, argomentando che detto  articolo  che  modificava  il
 terzo   comma  dell'art.  21  legge  Merli  prevedeva  una  manifesta
 disparita' di trattamento tra coloro che scaricando non osservavano i
 limiti di accettabilita' previsti dalle  tabelle,  e  coloro  che  ai
 sensi del primo comma dell'art. 21 legge Merli scaricavano in difetto
 di prescritta autorizzazione, fattispecie per la quale il legislatore
 aveva  previsto  l'obbligatorieta'  della  sanzione  penale. A parere
 dello scrivente la norma citata si poneva in contrasto con  l'art.  3
 della   Costituzione   per   manifesta   disparita'   di  trattamento
 sanzionatorio che il legislatore prevedeva per  fattispecie  analoghe
 ed  anzi  di  maggiore gravita' sostanziale per quanto in particolare
 concerneva la modifica del terzo comma dell'art. 21 legge Merli  come
 novellato dal decreto-legge citato.
    In contrasto altresi' con l'art. 9 della Costituzione in relazione
 al   secondo   comma   dell'articolo  stesso  in  quanto  la  mancata
 applicazione  della  sanzione  penale  nella   fattispecie   prevista
 dall'art.   3  del  decreto-legge  citato  appariva  insufficiente  a
 tutelare il paesaggio nell'accezione piu' lata che recenti  pronuncie
 delle  Corti supreme hanno dato alla nozione del paesaggio; infine la
 norma in questione appariva in contrasto altresi' con l'art. 10 della
 Costituzione che impone allo Stato italiano di conformarsi alle norme
 del diritto internazionale generalmente riconosciute  laddove  omette
 la  sostanziale  applicazione  e  attuazione  delle  direttive CEE in
 materia di inquinamento ambientale.
    Osserva  il  pretore  che  le  argomentazioni  richiamate  possono
 riproporsi  con  riferimento  all'art. 7 del decreto-legge 16 gennaio
 1995, n. 9 e si ritiene, pertanto, di dover  dichiarare  rilevante  e
 non   manifestamente   infondata,   la   questione   di  legittimita'
 costituzionale dell'art. 7 del decreto-legge 16 gennaio 1995, n. 9.
    La valutazione del caso in questione  richiede  un  riesame  degli
 aspetti  giuridici  della  tutela ambientale, cosa non agevole per la
 vastita' dei problemi sollevati dalle due fondamentali leggi che sono
 state promulgate in merito, e  precisamente  dalla  legge  10  maggio
 1976, n. 319, meglio conosciuta sotto il nome di legge Merli, e della
 successiva  legge  24  dicembre  1979, n. 650, comunemente denomianta
 Merli-bis.
    La citata legislazione  speciale  non  si  inseriva  in  un  vuoto
 normativo,  poiche'  gia' prima della legge Merli, e della successiva
 legge 24 dicembre 1979, n. 650, comunemente denominata Merli-bis.
    La citata legislazione  speciale  non  si  inseriva  in  un  vuoto
 normativo,  poiche'  gia'  prima  della  legge Merli esistevano degli
 scarichi inquinanti, anche se il bene giuridico protetto era il  piu'
 vario.  Basti  pensare  alle  norme del testo unico delle leggi sulla
 pesca  del  1931,  che nell'art. 9 prescrivevano l'autorizzazione del
 Presidente  della  giunta  provinciale  per   l'effettuazione   degli
 scarichi  industriali  in  acque  pubbliche, conferendo alla predetta
 autorita' il potere di imporre prescrizioni atte  ad  impedire  danni
 all'ittio   fauna   e   ad  obbligare  chi  determinava  fenomeni  di
 inquinamento ad eseguire opere di ripopolamento ittico.
    L'art. 6 della stessa legge, poi, vietava, tra l'altro di  gettare
 o  di  infondere nelle acque materie atte ad intorpidire, stordire od
 uccidere i  pesci,  con  la  conseguenza  che  attraverso  la  tutela
 dell'ittiofauna     veniva    preservato    il    corso    dell'acqua
 dall'inquinamento  o  comunque  da  forme  di  inquinamento  che  non
 consentissero la vita dei pesci.
    Le  norme del testo unico sanitario che diciplinavano direttamente
 l'igiene e la salubrita' dell'ambiente svolgevano parimenti un  ruolo
 importante,  ad  esempio  in  relazione  allo smaltimento delle acque
 immonde, delle materie escrementizie e di altri rifiuti che ai  sensi
 dell'art.   218  dovevano  avvenire  in  modo  da  non  inquinare  il
 sottosuolo, o in relazione al divieto di immissione nei corsi d'acqua
 che attraversavano l'abitato di fogne o canali di raccolta  di  acque
 immonde,   tra   cui  le  acque  inquinate  provenienti  da  scarichi
 industriali, previsto dall'art. 227.
    Il codice penale, infine sotto il titolo VI  dedicato  ai  delitti
 contro  l'incolumita'  pubblica sanzionava penalmente l'avvelenamento
 doloso o colposo di acque destinate  all'alimentazione  umana,  prima
 che  fossero  attinte  o  distribuite per il consumo (vedi i problemi
 collegati all'uso di atrazina).
    Altre norme del codice penale che  non  sembrano  disciplinare  il
 fenomeno  dell'inquinamento, neanche indirettamente, furono applicate
 dai  pretori  cosiddetti  di  "assalto",  attraverso  una  opera   di
 intelligente   interpretazione   giurisprudenziale,   sostanzialmente
 recepita dalla suprema Corte di cassazione.
    Fu cosi ritenuto applicabile l'art.  635  del  codice  penale  che
 sanziona  la  condotta  di  chiunque  distrugge, disperde deteriora o
 rende, in tutto o in parte inservibili come mobili o immobili altrui,
 con la contestazione frequente dell'aggravante di cui al n. 3,  comma
 secondo,  della  norma,  in  relazione all'ipotesi prevista dall'art.
 625, n. 7 del c.p., per la natura pubblica, la  destinazione  ad  uso
 pubblico  o  per  la esposizione alla pubblica fede del corso d'acqua
 inquinata.
    Fu la stessa giurisprudenza di merito a ritenere applicabile anche
 l'art. 674 del c.p. che unisce il  getto  pericoloso  di  cose  e  in
 particolare  la  condotta  di  colui che getta o versa in un luogo di
 pubblico transito o in luogo privato ma di comune o  di  altrui  uso,
 cose  atte ad offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei
 casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di  vapori
 o  di  fumo,  atti  a  cagionare tali effetti, in tutti i casi in cui
 dallo svernamento  delle  sostanze  inquinanti  potesse  derivare  un
 pericolo  per  la  salute  o anche per la decorosa parvenza esteriore
 della persona umana.
    Ora appare evidente che tutte  le  norme  richiamate,  la  maggior
 parte  delle  quali  devono ritenersi ancora vigenti, non assolvevano
 pero' all'esigenza, da piu' parti sentita, di  disciplinare  in  modo
 organico   la   materia   degli  scarichi  per  una  migliore  tutela
 dell'ambiente.
    Questo  obiettivo  risulta  appunto  consacrato  nell'art. 1 della
 legge 10 maggio 1976, n. 319, il quale alla lettera  A,  testualmente
 recita "la presente legge ha per oggetto la disciplina degli scarichi
 di qualsiasi tipo, pubblici e privati diretti e indiretti in tutte le
 acque  superficiali e sotterranee interne e marine, sia pubbliche che
 private, nonche' in fognature, sul suolo e nel sottosuolo".
    Occorre subito chiarire che la legge non fornisce  la  nozione  di
 scarico   e  che,  contrariamente  a  quanto  potrebbe  apparire,  il
 significato del termine non e' riferibile a tutti i tipi  di  scarico
 in senso assoluto.
    La  giurisprudenza e la dottrina, attraverso lo studio sistematico
 della normativa,  compresa  la  legge  di  parziale  modifica  dell'8
 ottobre  1976, n. 690, e la delibera del comitato dei Ministri per il
 rilevamento delle caratteristiche dei  corpi  idrici  e  dei  criteri
 metodologici  per  la  formazione e l'aggiornamento dei catasti del 4
 febbraio 1977, hanno precisato il concetto nei seguenti  termini:  a)
 deve  trattarsi  innanzitutto di sostanze di scarto, cioe' di rifiuti
 derivanti dall'utilizzazione di altre sostanze, b) in secondo  luogo,
 le  sostanze devono essere liquidate o quanto meno solubili in acqua,
 poiche'  solo  in  tali  condizioni  e'   possibile   realizzare   la
 misurazione   dei   limiti   di  accettabilita'  degli  scarichi  con
 riferimento alle tabelle allegate alla legge  cosi'  come  prescritto
 dall'art. 9.
    Cio'  che viene misurato infatti, e' l'acqua la quale non puo' che
 essere l'acqua di rifiuto dell'insediamento.
    Cio' risulta evidente dalla lettura del titolo IV della  legge  ed
 in particolare dagli artt. 9, 10, 12 e 15.
    Il  primo  stabilisce,  in  proposito,  che  la  misurazione degli
 scarichi si intende effettuata subito a monte del punto di immissione
 nei corpi ricettori di cui all'art. 1, lettera A), che  gli  scarichi
 devono   essere  resi  accessibili  per  il  campionamento  da  parte
 dell'autorita'   autorizzata   ad   effettuare   all'interno    degli
 insediamenti   produttivi   tutte   le  ispezioni  che  essa  ritenga
 necessarie per l'accertamento delle condizioni che danno  luogo  alla
 formazione degli scarichi.
    Le  altre norme poi, nel disciplinare le modalita' per il rilascio
 dell'autorizzazione allo  scarico  degli  insediamenti  produttivi  e
 civili,  esistenti  o  di nuova realizzazione presuppongono tutte che
 via  sia  un  impianto  di  scarico,  funzionante   con   una   certa
 continuita'.  Cio'  viene  anche confermato dal contenuto dell'art. 5
 della legge che attribuisce alle province il compito di effettuare il
 catasto di tutti gli scarichi pubblici e privati  nei  corsi  d'acqua
 superficiali.
    La legge, pertanto, secondo taluni non trova applicazione nei casi
 di  scarico  di  sostanze  solide non solubili in acqua e nei casi di
 scarichi occasionali non  ricollegabili  immediatamente  ad  impianti
 stabili.  Tali  ipotesi  sarebbero  applicabili  altre  norme, sia di
 natura amministrativa, quali ad esempio la legislazione regionale  in
 materia di rifiuti solidi, sia di natura penale qualora ne sussistono
 i  presupposti  (ad  es.  l'art. 674 del c.p. nel caso di pericolo di
 imbrattamento o comunque di offesa alla persona, gli artt. 439 e  452
 c.p., qualora dal fatto derivi l'avvelenamento delle falde acquifere,
 e  secondo  taluni,  l'art.  6 del testo unico sulla pesca, se ne sia
 derivato un pericolo per la vita dei pesci e cosi' via).
    Secondo  altri  per  definire  il  concetto  di  scarico   occorre
 riconsiderare  la  nozione di scarichi che compare nella norma di cui
 all'art. 21 della legge n. 319, onde realizzare il superamento  della
 definizione    restrittiva   prevalente   in   dottrina   sino   alla
 promulgazione della legge n.  650/1979.  In  effetti  all'art.  1  il
 legislatore  ha  disciplinato, come si e' detto, gli scarichi ma tale
 previsione va collegata con quella contenuta nell'art. 26, che abroga
 ogni  altra  norma  che  disciplina  la  materia  in  questione,  sia
 direttamente  che  indirettamente.  Il  precetto  comune e' contenuto
 nell'art. 9, secondo il  quale  "tutti  gli  scarichi  devono  essere
 autorizzati".
    Dalla  modifica  operata da parte della legge 29 dicembre 1979, n.
 650, all'art. 11 possono ricavarsi concreti elementi a sostegno della
 posizione che si sta  illustrando,  imponendosi  una  interpretazione
 lata  dalla  nozione di scarico, e quindi dell'ambito di applicazione
 della intera normativa dell'inquinamento idrico.
    La modifica in questione  ha  determinato  la  soppressione  della
 espressione "immissione diretta di rifiuti di lavorazioni industriali
 o provenienti da servizi pubblici o da insediamenti di qualsiasi spe-
 cie" con quella innicomprensiva di "scarichi".
    Ove  si  sia  d'accordo  nel ritenere che la nozione soppressa sia
 compresa nel termine con il quale si e' operata la  sostituzione,  la
 conseguenza  sul  piano  pratico  sara'  che  nel concetto di scarico
 andra' compreso anche quello derivante da singoli episodi  isolati  o
 periodici, oltre quello proveniente da insediamento.
    Tutto  cio'  comporta  la  positiva conseguenza di un allargamento
 della sfera di applicazione delle norme antinquinamento, dotando  gli
 operatori di sempre maggior strumenti.
    Quanto  alla  disciplina  degli  scarichi,  la  legge prescrive in
 particolare che: a) gli scarichi degli insediamenti produttivi  (art.
 12  e  art.  13)  devono  rispettare  direttamente  le tabelle. Fanno
 eccezione i soli scarichi gia' esistenti al 13 giugno 1976  (data  di
 entrata  in  vigore  della  legge)  immessi  in  pubbliche  fognature
 provviste di impianto di depurazione funzionante.   In  tal  caso  il
 comune   che   gestisce   l'impianto  puo'  prescrivere  limiti  piu'
 permissivi; b) gli scarichi degli insediamenti  civili  in  pubbliche
 fognature   sono  sempre  ammessi  purche'  osservino  i  regolamenti
 comunali (art.  14,  primo  comma);  c)  gli  scarichi  da  pubbliche
 fognature  (art. 14, secondo comma) sono disciplinanti dalle regioni,
 le quali devono tener  conto  delle  direttive  statali  (emesse  con
 delibera  del  30  dicembre  1980),  dei limiti delle tabelle e delle
 situazioni locali.  In  particolare,  le  citate  direttive  statali,
 mentre  sono  molto  elastiche  e  nulla  di  preciso  prescrivono in
 relazione a questi insediamenti civili (salvo la  predisposizione  di
 incentivi per favorirne l'allaccio in fogna), stabiliscono invece per
 le  pubbliche  fognature  che  le regioni non possono mai derogare ai
 limiti piu'  restrittivi  previsti  dalle  tabelle  in  relazione  ai
 parametri   di   natura   tossica,   persistente   e  bioaccumulabile
 (specificati in un  elenco)  e  che,  quanto  agli  altri  parametri,
 deroghe  (permissive)  alle  tabelle  sono consentite solo quando "la
 presenza degli scarichi provenienti da  insediamenti  produttivi  non
 sia  tale  da  conferire  al  liquame  in  ingresso  all'impianto  di
 depurazione  caratteristiche  qualitative  sostanzialmente diverse da
 quelle attribuibili agli scarichi provenienti  da  soli  insediamenti
 civili". Solo quando, cioe', gli scarichi industriali siano di minima
 entita' o siano stati efficacemente pretrattati a monte.
    Quanto  alle  sanzioni,  la  omessa richiesta di autorizzazione e'
 punita alternativamente con l'ammenda da L. 1.500.000 a L. 10.000.000
 o con l'arresto da due mesi a due anni  (art.  21,  primo  e  secondo
 comma),  mentre,  per  il  superamento  dei  limiti, l'art. 21, terzo
 comma, prevede che "si applica sempre la pena  dell'arresto  (da  due
 mesi  a  due anni) se lo scarico supera i limiti di accettabilita' di
 cui alle tabelle allegate alla legge, nei rispettivi limiti e modi di
 applicazione", con la ulteriore pena accessoria della incapacita'  di
 contrattare con la pubblica amministrazione.
    In  conclusione,  la  legge  Merli basa la sua operativita' su tre
 ordini di obblighi, tutti penalmente  sanzionati  e  tutti  fra  loro
 connessi,  nei  confronti  dei  titolari  di  scarichi:  l'obbligo di
 richiedere l'autorizzazione, l'obblligo di rispettare le prescrizioni
 dell'autorizzazione e  l'obbligo  di  rispettare  limiti  prefissati,
 direttamente o indirettamente, dalla legge.
    Con  riferimento a tale quadro normativo venivano emessi una serie
 di decreti-legge l'ultimo dei quali redatto dal governo Berlusconi il
 16 settembre 1995 con il n. 9. Le principali modifiche apportate alla
 legge Merli dal citato decreto sono:
       A) in relazione all'obbligo di richiedere  autorizzazione  dopo
 18  anni,  si riaprono i termini per tutti gli inadempienti e, per il
 passato, si riazzera tutto e si  estinguono  i  reati  gia'  commessi
 purche'  i  contravventori presetino, oggi, domanda di autorizzazione
 in sanatoria entro 90 giorni dalla legge di conversione e paghino  da
 500.000 a 3 milioni (art. 7);
       B) quanto ai limiti da rispettare nello scarico, scompaiono una
 serie  di  obblighi  (validi  a  livello  nazionale).  Ad esempio gli
 scarichi da pubbliche fognature e quelli  degli  insediamenti  civili
 non   in  pubbliche  fognature  devono  rispettare  limiti  non  piu'
 prefissati ma rimessi alla discrezionalita' di regioni o comuni,  che
 possono   tranquillamente   derogare   alle  tabelle;  anche  se  per
 l'immediato e fino a nuove direttive, "restano ferme le  prescrizioni
 adottate  anteriormente ed in particolare quelle di cui alla delibera
 del 30 dicembre 1980". Di modo che vengono penalizzate le regioni che
 a  questa  delibera  si  erano  adeguate  e   vengono   premiate   le
 inadempienti;
       C)  la  inosservanza  dei  limiti tabellari e non e' punita, di
 regola, non piu' con l'arresto ma con  sanzione  alternativa.  Quanto
 alle  ulteriori conseguenze per il superamento di limiti, venuta gia'
 meno con il nuovo codice  di  procedura  penale  la  possibilita'  di
 custodia  cautelare  in  caso  di recidiva, il decreto-legge in esame
 cancella della legge Merli anche la pena accessoria della incapacita'
 di contrattare con la pubblica amministrazione;
       D)  analogamente,  la  inosservanza  delle  prescrizioni  delle
 autorizzazioni  allo scarico, sanzionata penalmente dalla legge Merli
 con arresto o ammenda, comporta, con il decreto-legge in  esame  solo
 una sanzione amministrativa da 2 a 24 milioni.
    In  conclusioni, limiti certi vengono sostituiti da limiti rimessi
 alla discrezionalita' quasi  totale  di  regioni  e  comuni,  con  il
 pericolo  di gravi disparita' di trattamento e di vuoti di tutela; in
 piu',  la  inosservanza  di  questi  limiti,   con   il   conseguente
 inquinamento, di regola puo' comportare o una sanzione amministrativa
 pecuniaria  ovvero  una  ammenda  oblabile senza vero rischio penale.
 Questo  rischio,   paradossalmente,   resta   solo   per   violazioni
 soprattutto  formali  e  "burocratiche" (quali la omessa richiesta di
 autorizzazione allo scarico). Ma, comunque, per esse  dopo  18  anni,
 scatta  una  totale  sanatoria  rispetto  al  passato,  premiando gli
 inottemperanti e penalizzando chi ha rispettato la legge.
    Appare evidente che il d.-l. n. 9/1995, scardina,  o  quanto  meno
 depotenzia in modo rilevante, tutti e tre i capisaldi su cui fonda la
 legge   Merli  (obbligo  di  richiedere  autorizzazione,  obbligo  di
 rispettare  le  prescrizioni  dell'autorizzazione   ed   obbligo   di
 rispettare limiti prefissati.
    Per  tutto quanto sopra detto il decreto-legge in esame, come gia'
 rilevato per i precedenti (cfr. l'ord. del pretore di Vicenza  del  2
 agosto  1994, pretore di Terni 27 settembre 1994, pretore di Grosseto
 11 ottobre 1994, pretore di Grosseto 28  ottobre  1994),  pretore  di
 Grosseto  30  gennaio  1995  e  lucidamente  sostenuto in scritti (G.
 Amendola) viola il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della
 legge  fondamentale  dello  Stato.  Appare  evidente  che,  dopo   le
 modifiche  introdotte  dal  decreto  nel  sistema sanzionatorio della
 legge Merli, la  violazione  di  obblighi  "burocratici"  e  formali,
 certamente non ricollegabili ad un danno all'ambiente quali la omessa
 richiesta  di  autorizzazione  allo  scarico,  viene punita, ai sensi
 dell'art. 21, primo comma, come reato  con  la  pena  dell'arresto  o
 dell'ammenda;   mentre   la  fattispecie  di  ben  maggiore  gravita'
 sostanziale, quale  l'inquinamento  dell'ambiente  provocato  con  il
 superamento dei limiti, prevista dall'art. 21, terzo comma, e proprio
 per questo sanzionata fino al decreto-legge in esame con la pena piu'
 severa  di  tutta  la  legge  (solo  arresto, pena accessoria), viene
 punita come  illecito  amministrativo  con  una  sanzione  pecuniaria
 ovvero,  con  la  pena  alternativa  dell'ammenda o dell'arresto (con
 tutte le conseguenze piu' favorevoli che questo  comporta).  Insomma,
 in  tal  modo, fatti gravi vengono illogicamente puniti in modo molto
 piu' benevolo di fatti certamente piu' lievi. Peraltro, in  tal  modo
 si  introduce una disparita' di trattamento anche rispetto al sistema
 complessivo  della  normativa  di  tutela  ambientale   che   si   e'
 rappresentato  in  precedenza  (cfr.  ad esempio, il d.P.R. 24 maggio
 1988, n. 203, sull'inquinamento  atmosferico  da  industrie),  ed  in
 particolare  con  le  altre  leggi che si occupano, come la Merli, di
 inquinamento delle acque (quale la legge a difesa del mare n. 979 del
 31 dicembte 1981 e il decreto legislativo 27 gennaio  1992,  n.  133,
 sugli  scarichi  di  sostanze  pericolose),  le quali prevedono tutte
 sanzioni penali (e non amministrative) per fatti  di  inquinamento  o
 per violazione delle prescrizioni dell'autorizzazione.
    In questo quadro, appare allora sufficiente richiamare la costante
 giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui il principio di
 eguaglianza  consente  al  legislatore di emanare norme differenziate
 riguardo a situazioni obiettivamente diverse solo  a  condizione  che
 tali  norme  rispondano all'esigenza che la disparita' di trattamento
 sia fondata su presupposti logici obiettivi, i quali razionalmente ne
 giustifichino l'adozione (cfr. per tutta la sentenza n. 3 del  1963).
 Per  cui  la Corte ha dichiarato illegittime norme che prevedevano un
 trattamento sanzionatorio irrazionalmente  differenziato  rispetto  a
 quello previsto da altre fattispecie, diminuendo, ad esempio, la pena
 edittale  minima  per  l'oltraggio (n. 341 del 1994); ovvero, con una
 decisione proprio relativa all'art. 21 della legge Merli (ove  si  fa
 espresso  riferimento anche al complesso della normativa ambientale),
 eliminando  il  divieto  di  applicazione  di  sanzioni   sostitutive
 (sentenza n. 254 del 20-23 giugno 1994).
    Orbene,  in  questa  sentenza,  ricorda  la  Corte che si viola il
 principio di eguaglianza qualora con leggi successive si dia vita  ad
 un  "sistema  normativo  assolutamente squilibrato", come avviene, ad
 esempio, quando si  favorisce  "chi  ha  posto  in  essere,  fra  due
 condotte  gradatamente lesive dell'identico bene, quella connotata da
 maggiore gravita', discriminando invece chi ha  realizzato  il  fatto
 che  meno  offende  lo  stesso  valore giuridico (sentenza n. 249 del
 1993)". Esattamente quello che ha fatto il Governo  con  il  decreto-
 legge in esame.
    Ma  l'art.  3 della Costituzione risulta violato anche sotto altri
 profili.  La  nuova  formulazione  dell'art.  14,  concedendo   ampia
 discrezionalita'  alle  regioni per la fissazione di limiti comporta,
 con  ogni  evidenza,  la  possibilita'  che  vi  siano   marcate   ed
 irrazionali disparita' di trattamento da regione a regione.
    In   detto   svuotamento  sanzionatorio  di  uno  dei  reati  piu'
 importanti in materia di  tutela  ambientale  (forse  il  reato  piu'
 importante  in  assoluto  in  materia  di inquinamenti) si profila ad
 avviso dello scrivente pretore, una violazione del disposto dell'art.
 9,  secondo  comma,  della  Costituzione,  laddove  la   tutela   del
 paesaggio,  inteso  secondo  le  piu' recenti pronunce della Corte di
 cassazione e dalla Corte costituzionale, non deve essere inteso  solo
 come  bellezza  estetica  da  cartolina  ma come ambiente naturale in
 senso  lato,  quindi   comprensivo   anche   degli   inevitabili   ed
 inscindibili aspetti bionaturalistici.
    Per  gli  stessi  motivi  esposti  in  relazione  all'art. 9 della
 Costituzione, si ritiene che la norma in esame si ponga in  contrasto
 anche con l'art. 32 della carta costituzionale.
    Infatti,  nel  concetto  di  tutela  della  salute  come principio
 costituzionalmente garantito deve, per forza di cose  ricomprendersi,
 il  piu'  vasto  concetto  della  salute  pubblica  nel  senso  delle
 salubrita' dell'ambiente naturale ed  urbano  ove  ciascun  cittadino
 vive.  Il  diritto alla salute inteso anche come diritto all'ambiente
 salubre e' stato ormai ripetutamente accertato in giurisprudenza  (si
 veda  per  tutte  la famosa sentenza delle sezioni unite n. 517 del 6
 gennaio 1979, nonche' la Corte  costituzionale  in  data  31  gennaio
 1987, n. 641, ed in data 16 marzo 1990, n. 17). E' fuor dubbio che la
 diminuita,  ed  anzi  per  certi  versi  di fatto del tutto caducata,
 possibilita' di intervento deterrente/punitivo in sede di illeciti da
 inquinamento  idrico  crea   i   presupposti   per   una   evoluzione
 incontrollata  del  fenomeno,  incoraggiata  dall'abbassamento  della
 guardia in sede di controlli di P.G.  e  possibilita'  di  intervento
 processuale; e tutto questo si traduce in via diretta in un danno per
 la  salute  e  salubrita'  pubblica  in  un  ambiente che resta cosi'
 maggiormente ed incontrollatamente esposto al degrado inquinante.
    Va ancora rilevato che la norma in  esame  pare  porsi  in  totale
 contrasto   con  gli  obblighi  che  derivano  al  nostro  Paese  per
 l'appartenenza all'Unione europea. Gia' due volte la Corte europea di
 giustizia ha condannato il nostro  Paese  per  il  contrasto  tra  le
 "legge  Merli"  e  le direttive comunitarie, tra l'altro anche per la
 permissivita'  del  sistema  autorizzatorio   previsto   e   per   la
 "insufficienza"  delle  sanzioni  penali  previste  dall'art.  22  in
 relazione alla inosservanza  delle  prescrizioni  dell'autorizzazione
 (Corte  di  giustizia  28 febbraio 1991 e 13 dicembre 1990). La sopra
 esposta generale regressione sanzionatoria creata  dal  decreto-legge
 in  esame  concretizza  di  conseguenza  una ulteriore evoluzione del
 grado di inadempienza italiana verso le  direttive  CEE  e  verso  le
 sentenze della Corte europea.
    Peraltro  il  decreto stesso, si pone in evidente contrasto con la
 direttiva CEE n. 271 del 21 maggio 1991 sul trattamento  delle  acque
 reflue  urbane,  che  lo  Stato italiano avrebbe dovuto gia' recepire
 entro lo scorso giugno  1993  e  che  fissa  obblighi  e  limiti  ben
 precisi,  con  ben  pochi  margini  di discrezionalita' specie per le
 "aree sensibili". E del resto il contrasto e'  apparso  evidentemente
 gia'  in  sede di redazione del testo in esame se il decreto richiama
 espressamente nell'art. 1 la direttiva 91/217/CEE del 21 maggio 1991.
 Dunque da un lato l'Italia non  ha  recepito  la  direttiva  CEE  nei
 termini  stabiliti  e  dall'altro  ha  adottato  un  decreto-legge in
 antitesi ai principi della direttiva stessa, con una  mora  temporale
 applicativa  illogica.  Ove il decreto 9 dovesse essere convertito in
 legge, le sue prescrizioni si applicheranno  dunque  finche'  non  si
 sara'  data attuazione alla citata direttiva; attrazione che dovrebbe
 avvenire, secondo la legge comunitaria 1993, n. 146, del 22  febbraio
 1994,  entro  il  marzo  1995  e,  peraltro,  con  rigidi principi di
 attuazione predeterminati dal Parlamento (art. 37,  primo  comma)  in
 evidente  contrasto  con  la elasticita' e genericita' del decreto in
 esame, il che provochera'  ulteriore  confusione  ed  incertezza  del
 diritto.
    Ed  in  ogni  caso  va  sottolineato  che, secondo la citata legge
 comunitaria, il Governo dovrebbe dare attuazione a  questa  direttiva
 provvedendo allo "adeguamento della normativa vigente alla disciplina
 comunitaria,  apportando  alla  prima  ogni  necessaria  modifica  ed
 integrazione allo scopo di definire un quadro  omogeneo  ed  organico
 delle disposizioni di settore" (art. 36, lett. c)).
    Dato  il carattere regressivo in sede sanzionatoria del decreto n.
 9/1995, ritiene lo scrivente che si appalesa un contrasto con  l'art.
 10 della Costituzione per mancata conformazione alle citate norme del
 diritto internazionale.
     Da  quanto  sopra  esposto  emerge  la  rilevanza della sollevata
 eccezione sul caso in esame, ove risulta  contestato  il  superamento
 dei limiti tabellari, con le differenze normative richiamate e le di-
 verse  strategie  processuali percorribili da parte della difesa, sia
 in caso di rigetto che di accoglimento della eccezione.
                                P. Q. M.
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata, per  violazione
 degli  artt.  3,  9,  10  e  32  della  Costituzione, la questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 7, integrale formulazione,  del
 d.-l. 16 gennaio 1995, n. 9;
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
 costituzionale;
    Ordina  che,  a  cura della cancelleria, la presente ordinanza sia
 notificata agli imputati, al difensore, al pubblico ministero nonche'
 al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata  al  Presidente
 della   Camera  dei  deputati  ed  al  Presidente  del  Senato  della
 Repubblica.
      Grosseto, addi' 24 febbraio 1995
                         Il pretore: MONTAGNA
 
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