N. 450 ORDINANZA 18 - 24 ottobre 1995

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Misure  di  sicurezza - Custodia cautelare in carcere - Presupposti e
 criteri di applicazione -  Discrezionalita'  legislativa  -  Richiamo
 alla  giurisprudenza  della Corte in materia (v. sentenze nn. 1/1980,
 64/1970, 101/1993 e 407/1992) - Manifesta infondatezza.
 
 (C.P.P., art. 275, terzo comma).
 
 (Cost., artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma).
(GU n.45 del 2-11-1995 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Vincenzo CAIANIELLO;
 Giudici:  avv.  Mauro  FERRI,  prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI,
    dott. Renato GRANATA, prof.  Giuliano  VASSALLI,  prof.  Francesco
    GUIZZI,  prof.  Cesare  MIRABELLI, avv. Massimo VARI, dott. Cesare
    RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY;
 ha pronunciato la seguente
                               ORDINANZA
 nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3,
 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa  il  12
 aprile  1995  dal  giudice  per  le  indagini  preliminari  presso il
 Tribunale  di  Firenze  sull'istanza  proposta  da  Pataro   Luciano,
 iscritta  al  n.  350  del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella
 Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  25,  prima  serie  speciale,
 dell'anno 1995;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio del 28 settembre 1995  il  Giudice
 relatore Vincenzo Caianiello.
    Ritenuto  che  con  ordinanza del 12 aprile 1995 il giudice per le
 indagini preliminari presso il  Tribunale  di  Firenze  ha  sollevato
 questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, del
 codice di procedura penale, in riferimento agli articoli 3, 13, primo
 comma, e 27, secondo comma, della Costituzione;
      che il giudice rimettente, dovendo deliberare sulla richiesta di
 revoca  della  misura  della  custodia  cautelare  in   carcere,   in
 precedenza disposta nei confronti di persona sottoposta alle indagini
 per  taluni  delitti  aggravati  dalla  finalita'  di agevolazione di
 associazioni di tipo mafioso ( ex art. 7 del decreto-legge 13  maggio
 1991, n. 152, convertito dalla legge 12 luglio 1991, n. 203), solleva
 l'incidente  di  costituzionalita'  muovendo  dall'esposizione  della
 vicenda oggetto del procedimento penale a quo;
      che le concrete  evenienze  di  detta  vicenda,  ad  avviso  del
 giudice,  sono tali da far emergere la sussistenza dei presupposti di
 applicazione di una misura cautelare, sia quanto ai gravi  indizi  di
 colpevolezza  sia  quanto  all'esigenza cautelare, rappresentata, nel
 caso specifico, dal pericolo di fuga;
      che il rimettente ritiene che l'esigenza cautelare  sopra  detta
 potrebbe,   in  ipotesi,  trovare  adeguata  salvaguardia  attraverso
 l'applicazione di una misura diversa dalla  custodia  in  carcere,  e
 precisamente  attraverso  gli  arresti  domiciliari  e  il divieto di
 espatrio, ma  rileva  che  una  tale  possibilita'  e'  preclusa  dal
 disposto dell'art. 275, comma 3, del codice di procedura penale (come
 modificato  dapprima dall'art. 5 del gia' citato decreto-legge n. 152
 del 1991, convertito dalla legge n. 203 del 1991, e poi  dall'art.  1
 del  decreto-legge 9 settembre 1991, n. 292, convertito dalla legge 8
 novembre 1991, n.  356),  giacche'  la  norma,  in  presenza  di  una
 imputazione   quale   quella   sopra   accennata,   rientrante  nella
 elencazione della norma stessa, stabilisce una presunzione legale  di
 adeguatezza della sola misura coercitiva carceraria;
      che  la  riferita disciplina e', per un primo profilo, censurata
 di irragionevolezza, in quanto, derogando al principio di adeguatezza
 espresso nella prima parte della disposizione impugnata  e  imponendo
 una  misura  piu'  afflittiva in tutti i casi previsti dalla medesima
 disposizione, si porrebbe in contrasto con l'esigenza di disporre  la
 custodia carceraria solo come extrema ratio;
      che,    sempre    in    relazione   al   profilo   di   asserita
 irragionevolezza, la norma e' censurata in quanto sottrae al  giudice
 il  potere  di  adeguare  la  misura al caso concreto, pur affidando,
 incoerentemente, al medesimo giudice il compito di apprezzare appieno
 l'esistenza stessa delle esigenze cautelari;
      che  all'anzidetto  profilo il giudice a quo ricollega altresi',
 in rapporto al medesimo parametro dell'art. 3 della Costituzione,  il
 sospetto  di  violazione  del  principio  di eguaglianza, giacche' la
 norma "appiattirebbe" situazioni obiettivamente e soggettivamente di-
 verse, sia in astratto che in  concreto,  cosi'  determinando  eguale
 "risposta cautelare" per casi diversi tra loro;
      che,  inoltre,  la  disposizione  e' impugnata dal rimettente in
 riferimento agli articoli 13, primo comma, e 27, secondo comma, della
 Costituzione; parametri, questi ultimi, dalla cui  lettura  combinata
 emerge  l'esigenza  di  circoscrivere allo strettamente necessario le
 misure limitative della liberta' personale, per cui  la  custodia  in
 carcere  ne  risulta  connotata  come  rimedio  estremo, come modo di
 "autotutela" dell'ordinamento  al  quale  ricorrere  soltanto  quando
 nessun'altra  misura  risulti  idonea  a tutelare le esigenze sottese
 alla cautela personale;
      che, viceversa, ad  avviso  del  giudice  a  quo  la  disciplina
 denunziata  collide  con  quel  principio,  stabilendo un automatismo
 applicativo che rende inoperanti  i  criteri  di  proporzionalita'  e
 adeguatezza  (pur  enunciati  in  generale  dallo stesso articolo 275
 c.p.p.); criteri dai quali deriverebbe - conclude il rimettente -  la
 necessita'  che  siano  sempre  affidati  al  giudice il "governo dei
 valori  in  giuoco"  e  la  determinazione  in  concreto  del  minimo
 sacrificio possibile per la liberta' personale;
      che  e'  intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
 Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato,  che,  sottolineando  in  particolare  la  riferibilita' della
 disposizione all'esercizio della discrezionalita' del legislatore,  e
 dunque  alla  scelta  di questi circa la tutela da accordare anche ad
 altri beni di rilievo costituzionale diversi da quello della liberta'
 personale, ha concluso per una declaratoria di non  fondatezza  della
 questione;
    Considerato,  preliminarmente,  che  le  modifiche alla disciplina
 codicistica delle misure  cautelari  e,  segnatamente,  all'impugnato
 art. 275, comma 3, c.p.p., quali recate dalla legge 8 agosto 1995, n.
 332   (Modifiche   al   codice   di   procedura  penale  in  tema  di
 semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di
 difesa), approvata ed entrata in vigore successivamente all'ordinanza
 di rinvio, non spiegano effetti  sul  piano  della  -  persistente  -
 rilevanza  della  questione ne' sui profili con quest'ultima dedotti:
 da un lato permane, sia in sede  di  adozione  che  di  revoca  della
 cautela,  la preclusione all'applicazione di misure diverse da quella
 carceraria,  quanto  ai  procedimenti  per  delitti  aggravati  dalla
 finalita'   di  agevolare  l'attivita'  delle  associazioni  previste
 dall'art. 416- bis del codice  penale,  che  e'  l'ipotesi  di  reato
 dedotta   nel  procedimento  a  quo;  dall'altro  resta  immutata  la
 formulazione  normativa  dell'esigenza  cautelare  rappresentata  dal
 pericolo  di fuga (art. 274, comma 1, lett. b) c.p.p., non modificato
 dalla nuova legge), che e', a termini dell'ordinanza  di  rinvio,  la
 ragione   del   provvedimento   coercitivo   adottato   nel  medesimo
 procedimento;
      che,  nel  merito,  la  previsione "legale" di adeguatezza della
 sola misura in  argomento,  per  certi  reati  di  spiccata  gravita'
 indicati  nella  norma  impugnata,  non  puo'  in  primo  luogo dirsi
 incoerente sul piano del raffronto con il potere affidato al  giudice
 di  valutare  l'esistenza  delle  esigenze  cautelari:  un raffronto,
 istituito dal giudice a quo,  fra  elementi  del  tutto  disomogenei,
 giacche'  la  sussistenza  in  concreto  di una o piu' delle esigenze
 cautelari prefigurate dalla legge (l' an della cautela) non puo', per
 definizione,  prescindere  dall'accertamento  della  loro   effettiva
 ricorrenza di volta in volta; mentre la scelta del tipo di misura (il
 quomodo  di  una  cautela,  in concreto rilevata come necessaria) non
 impone, ex  se,  l'attribuzione  al  giudice  di  analogo  potere  di
 apprezzamento,  ben potendo essere effettuata in termini generali dal
 legislatore, nel rispetto della ragionevolezza  della  scelta  e  del
 corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti;
     che,  del  resto,  sempre  per  questo profilo la sovrapposizione
 argomentativa, da parte del  rimettente,  di  elementi  eterogenei  e
 percio'   inidonei   a   sorreggere  la  censura  e'  rivelata  dalla
 qualificazione della statuizione che impone la misura  coercitiva  in
 carcere  come  "  ..presunzione  iuris  tantum superabile solo con la
 prova positiva dell'insussistenza delle esigenze cautelari ..";
      che, diversamente, cio' che e' presunto fino a  prova  contraria
 e'  il  presupposto  (di  sussistenza delle esigenze cautelari) e non
 anche la scelta della misura che ne consegue;
      che, inoltre,  si  deve  ribadire  che  compete  al  legislatore
 l'individuazione  del  punto  di  equilibrio tra le diverse esigenze,
 della  minore  restrizione  possibile  della  liberta'  personale   e
 dell'effettiva  garanzia  degli  interessi  di rilievo costituzionale
 tutelati attraverso  la  previsione  degli  strumenti  cautelari  nel
 processo penale (sentt. n. 1 del 1980; n. 64 del 1970);
      che  la  delimitazione  della  norma  all'area  dei  delitti  di
 criminalita' organizzata di  tipo  mafioso  (delimitazione  mantenuta
 nella  recente  novella)  rende  manifesta  la  non  irragionevolezza
 dell'esercizio  della   discrezionalita'   legislativa,   atteso   il
 coefficiente  di  pericolosita'  per  le  condizioni  di  base  della
 convivenza e della sicurezza collettiva che  agli  illeciti  di  quel
 genere e' connaturato (sentt. n. 103 del 1993; n. 407 del 1992);
      che,   quindi,   la  predeterminazione  in  via  generale  della
 necessita'  della  cautela  piu'  rigorosa  (salvi,  ovviamente,  gli
 istituti   specificamente   disposti   a  salvaguardia  di  peculiari
 situazioni soggettive, quali l'eta',  la  salute  e  cosi'  via)  non
 risulta in contrasto con il parametro dell'art. 3 della Costituzione,
 non  potendosi ritenere soluzione costituzionalmente obbligata quella
 di  affidare  sempre  e  comunque  al   giudice   la   determinazione
 dell'accennato   punto   di   equilibrio  e  contemperamento  tra  il
 sacrificio della  liberta'  personale  e  gli  antagonisti  interessi
 collettivi, anch'essi di rilievo costituzionale;
      che,  poi, la censura di disparita' di trattamento, per l'eguale
 "risposta cautelare" a fronte di ipotesi delittuose tra loro  diverse
 non  puo'  trovare  accoglimento una volta che si consideri il comune
 denominatore di quei reati, cio' che costituisce la ragione  fondante
 della scelta del legislatore, vale a dire l'individuazione di un'area
 di  reati  che,  per  comune sentire, pone a rischio, come si e' gia'
 osservato, beni primari individuali e collettivi (secondo  una  linea
 gia' scrutinata da questa Corte: sent. n. 1 del 1980 citata);
      che  il rilievo che precede vale anche alla luce della ulteriore
 selezione qualitativa operata attraverso la recente legge n. 332  del
 1995;
      che,  una  volta  rilevato  il rispetto della riserva di legge a
 norma  dell'art.  13  della  Costituzione,  il  residuo   riferimento
 dell'ordinanza di rinvio alla presunzione di non colpevolezza ex art.
 27  della  Costituzione si rivela manifestamente non conferente, data
 l'estraneita'  di   quest'ultimo   parametro   all'assetto   e   alla
 conformazione  delle  misure restrittive della liberta' personale che
 operano sul piano cautelare, che  e'  piano  del  tutto  distinto  da
 quello  concernente  la  condanna  e  la  pena (ord. n. 339 del 1995;
 sentt. n. 342 del 1983, n. 15 del 1982);
      che,  in  conclusione,  la  questione  deve  essere   dichiarata
 manifestamente  infondata  sotto  ogni profilo e in relazione ad ogni
 parametro invocato;
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo  1953,  n.
 87  e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti
 alla Corte costituzionale.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara la manifesta infondatezza della questione di  legittimita'
 costituzionale  dell'art.  275,  comma  3,  del  codice  di procedura
 penale, sollevata, in riferimento agli articoli 3, 13, primo comma, e
 27, secondo comma, della Costituzione, dal giudice  per  le  indagini
 preliminari  presso il Tribunale di Firenze, con l'ordinanza indicata
 in epigrafe.
    Cosi' deciso in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 18 ottobre 1995.
                 Il Presidente e redattore: CAIANIELLO
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 24 ottobre 1995.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
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