N. 775 ORDINANZA (Atto di promovimento) 24 aprile 1995

                                N. 775
 Ordinanza  emessa  il  24  aprile  1995  dal  pretore  di  Milano nei
 procedimenti penali riuniti a carico di Chilla' Maria
 Reato  in  genere  -  Reati  previdenziali  -  Omesso  versamento  di
    contributi  all'I.N.P.S.  da parte del datore di lavoro ed obbligo
    dell'imprenditore    di    immediato    arresto     dell'attivita'
    imprenditoriale    all'attivazione    di   meccanismi   istruttori
    prefallimentari poi sfocianti nella dichiarazione di fallimento  -
    Mancata  previsione  della  non applicabilita' di dette previsioni
    normative (tra l'altro confliggenti tra loro  secondo  il  giudice
    rimettente)  ad  imprenditori  o  amministratori  le  cui  imprese
    versino in una situazione economica tale da rendere necessaria, ai
    sensi degli artt. 1 e seguenti, del r.d. 16 marzo  1942,  n.  267,
    l'apertura  della procedura fallimentare - Violazione dei principi
    di non contrarieta' della  pena  al  senso  di  umanita'  e  della
    finalita'  rieducativa  della  stessa - Incidenza sul principio di
    liberta' dell'iniziativa economica privata.
 (Legge 11 novembre 1983, n.  638,  art.  2,  comma  1-bis;  legge  24
    novembre 1981, n. 689, art. 37, primo comma).
 (Cost., artt. 27, terzo comma, e 41).
(GU n.47 del 15-11-1995 )
                                IL PRETORE
   Letti  gli atti, all'esito dell'istruttoria dibattimentale, osserva
 quanto segue.
   Il momento  dibattimentale  celebratosi  nell'ambito  del  presente
 procedimento,  instaurato  nei confronti di Chilla' Maria per i reati
 di cui agli artt. 2, legge n. 683/1983 e 37  legge  n.  689/1981,  in
 relazione  ad  omissioni  di carattere contributivo per vari periodi,
 dal marzo 1990 al maggio 1992,  omissioni  effettivamente  realizzate
 dall'odierna  giudicanda,  ha  permesso  di  appurare  come la R.C.S.
 s.a.s., societa' della quale la Chilla'  era  legale  rappresentante,
 sia  stata dichiarata fallita in data 29 ottobre 1992. In particolare
 l'esame testimoniale del curatore  fallimentare,  disposto  a  motivo
 della  ritenuta  rilevanza di un approfondimento avente ad oggetto il
 rapporto tra le perpetrate omissioni e la dichiarazione di fallimento
 cui si e' fatto teste' riferimento, ha condotto  ad  accertare  come,
 all'epoca  dei fatti portati al vaglio del giudice dibattimentale, la
 situazione patrimoniale aziendale, vista nel suo complesso,  a  causa
 del  crearsi  di  uno  sbilancio  in  negativo tra poste patrimoniali
 attive e  poste  patrimoniali  passive,  fosse  tale  da  legittimare
 l'apertura  di  una  procedura  concorsuale,  e  nello  specifico, in
 assenza  di  altre  "prospettive"   procedurali,   l'apertura   della
 procedura concorsuale fallimentare.
   Giova, a tale proposito, ricordare che in una situazione del genere
 teste'  descritto,  l'ordinamento giuridico statuisce imperativamente
 la necessita' di una tutela della  par  condicio  creditorum,  intesa
 come  necessita' di un'equa distribuzione - fatte salve le deroghe di
 legge - tra i creditori, dei pregiudizi derivanti dalla irrimediabile
 situazione economica.
   E  che  esistano  delle statuizioni imperative sia sotto il profilo
 dell'obbligo dell'imprenditore di bloccare, in  ipotesi  di  assoluta
 negativita'  della  situazione economica aziendale, il divenire della
 vicenda  imprenditoriale,  sia  sotto  il  profilo  dell'obbligo   di
 rispetto  della  citata  par  condicio,  si  palesa  evidenziato vuoi
 dall'esistenza della disposizione, di cui all'art.  217  n.  4  legge
 fallimentare,  la  quale  assoggetta  a  censura  penale  l'operatore
 economico che "ha aggravato  il  proprio  dissesto,  astenendosi  dal
 richiedere   la   dichiarazione   del   proprio   fallimento",   vuoi
 dall'esistenza della disposizione di cui al terzo comma dell'art. 216
 della medesima legge, la  quale  assoggetta  a  censura  penale,  tra
 l'altro,  "il  fallito,  che,  prima  della procedura fallimentare, a
 scopo di favorire, a danno dei  creditori,  taluno  di  essi,  esegue
 pagamenti".
   Apparentemente, quindi, in sostanza, in ipotesi di esistenza di uno
 stato  di  insolvenza in capo ad un soggetto economico, sembrerebbero
 sussistere, con particolare riferimento alla questione che ci occupa,
 due  distinti  imperativi:   uno,   rappresentato   dall'obbligo   di
 versamento  dei  contributi previdenziali, previa presentazione della
 dichiarazione di cui all'art.  37,  legge  n.  689/1981,  l'altro  di
 immediato    arresto    dell'attivita'    imprenditoriale,   generato
 dall'attivazione  dei  meccanismi  istruttori   prefallimentari   poi
 sfocianti  nella  dichiarazione  di  fallimento,  arresto comportante
 l'estromissione dell'imprenditore dalla  gestione  imprenditoriale  e
 l'inefficacia  di qualsiasi pagamento fuori dall'iter della procedura
 concorsuale dominata dalle figure pubblicistiche  del  curatore,  del
 giudice delegato e del tribunale fallimentare.
   A  ben  considerare, pero', la coesistenza di due statuizioni cosi'
 intimamente  confliggenti,  non  puo'  che  essere,   appunto,   solo
 apparente:    e'  pur  vero  che  l'ordinamento  giuridico  dimostra,
 giustamente,   una   particolare   attenzione   per   gli   interessi
 previdenziali dei lavoratori e per l'interesse alla regolare gestione
 degli enti deputati all'erogazione delle prestazioni di detta natura,
 attribuendo   carattere   di   credito  privilegiato  alle  posizioni
 giuridiche attive, aventi ad oggetto la ricezione di somme di  denaro
 dai datori di lavoro, esistenti a favore degli enti previdenziali, ma
 una  logica  ermeneutica  da  genus  a species non puo' che portare a
 ritenere  che  l'obbligo  contributivo,  nel   senso   di   materiale
 versamento   del   quantum   dovuto,   debba  "cedere  il  campo"  al
 confliggente obbligo  dell'attivazione  del  proprio  fallimento,  in
 situazione  di  insolvenza,  e  quindi in una situazione, patologica,
 rappresentante, in una logica insiemistica, un cerchio di proporzioni
 piu'  ridotte  rispetto  al  cerchio  piu'   generale   riconducibile
 all'insieme indifferenziato delle possibili situazioni economiche.
   Un'interpretazione  sistematica, in buona sostanza, con riferimento
 al problema del coordinamento tra le nonne contestate all'imputata  e
 le  disposizioni  fallimentari di cui si e' detto, e specificatamente
 la norma di cui all'art. 217 n. 4 legge fallimentare,  dettata,  come
 gia'  accennato,  per  "limitare  i  danni" connessi a fattispecie di
 decozione di soggetti economici, non puo' che condurre a ritenere che
 eventuali censure a Chilla' Maria - anche se non e'  questa  la  sede
 per  approfondire  detto profilo posto che non e', appunto, questa la
 censura elevata a livello di  ipotesi  accusatoria  alla  medesima  -
 potrebbero  essere  elevate  in  relazione  ad  un  eventuale ritardo
 nell'attivazione  delle procedure a tutela della massa dei creditori,
 atteso che, sulla  base  di  tutto  quanto  esposto  in  merito  alla
 situazione   economica  dell'impresa  nel  periodo  cui  il  presente
 procedimento  si  riferisce,  tale  attivazione  doveva  considerarsi
 l'unico imperativo obbligo esistente in capo alla predetta.
   Una  lettura  organica  delle  disposizioni  di  cui si discute, in
 definitiva, deve, ad opinione dello scrivente, far propendere per una
 lettura delle stesse in chiave di operativita'  di  quelle  statuenti
 l'obbligo  di  soddisfazione  degli  oneri contributivo-previdenziali
 nell'ipotesi in cui la situazione economico-finanziaria del  soggetto
 economico  si  trovi  ancora,  se cosi' puo' dirsi, in bonis, laddove
 invece, in fattispecie economiche  irrimediabilmente  compromesse  si
 deve  ritenere  che  detti  obblighi  vadano ad estinguere la propria
 operativita' per lasciare spazio  all'alternativo  obbligo  da  parte
 dell'imprenditore,  di  - usando un termine poco tecnico giuridico ma
 probabilmente esauriente a livello di immagine - "fermare il  giuoco"
 iniziato con la creazione dell'impresa
   Se  tutto  cio' e' vero, ben si comprende come le condotte previste
 dalle norme citate nel formale assetto accusatorio, nelle  situazioni
 di  decozione  legittimanti  una  pronuncia  di  fallimento, vadano a
 perdere il loro coefficiente  di  illiceita',  tenuto  conto  che  il
 mancato  versamento  di  quanto  teoricamente  dovuto non puo' essere
 letto in chiave di inadempimento.
   Di fatto, in uno stato di insolvenza  del  soggetto  economico,  le
 eventuali censure che potranno essere elevate all'imprenditore o, nel
 caso di societa', ai soggetti allo stesso sostanzialmente parificati,
 saranno  quelle  assai  pesanti  di  cui  agli  artt. 216 o 223 legge
 fallimentare in ipotesi  di  sottrazione  delle  risorse  economiche,
 corrispondenti ai contributi previdenziali, dal patrimonio societario
 o  dell'impresa, per il solo lucro dell'imprenditore o amministratore
 - concretandosi in detta ipotesi la grave fattispecie  di  bancarotta
 per  distrazione - o quella di cui al gia' piu' volte citato art. 217
 legge  fallimentare  nel  caso  che  le  risorse  in   parola   siano
 reindirizzate,   con   non   saggia   insistenza,  verso  l'attivita'
 dell'impresa, pur  in  presenza  di  un  panorama  privo  di  sbocchi
 migliorativi.
   Taluno  potrebbe sostenere che proprio a motivo della continuazione
 dell'attivita'  da  parte  dell'impresa,  nell'ambito   della   quale
 generalmente  vengono  pagati  fornitori  e soprattutto, i lavoratori
 dipendenti, l'imprenditore avrebbe l'obbligo  di  adempiere  comunque
 agli obblighi di natura previdenziale.
   A tale osservazione ipotetica ritiene lo scrivente non si possa che
 contrapporre,  in  via  immediata,  come  anche  il  pagamento  degli
 stipendi ai lavoratori dipendenti, in  una  situazione  di  decozione
 dell'impresa,  sia da considerarsi non conforme al dettato normativo,
 prospettandosi anche detto pagamento come soddisfacimento di  diritti
 di   credito   non   aventi   piu'   una  tutela  assoluta  da  parte
 dell'ordinamento, ma difesi, seppure in un'ottica privilegiata,  alla
 condizione di un'effettiva capienza della massa attiva fallimentare.
   Dall'altra  parte, che la dichiarazione di fallimento abbia una sua
 operativita' non solo ex nunc ma apra uno scenario,  sotto  un  certo
 profilo, di retroattivita', e' dimostrato dall'esistenza delle azioni
 revocatorie,   esperibili  dopo  la  dichiarazione  di  cui  sopra  e
 intuitivamente  funzionalizzate   a   ricostituire   una   situazione
 patrimoniale ritenuta, sulla base di una presunzione, quella creatasi
 nell'immediatezza del concretarsi di uno stato di decozione.
   Pertanto,  per  riportarci alla possibile obiezione cui si e' fatto
 teste'  riferimento,  non  pare  possibile  ritenere  legittima   una
 condotta,  quale il pagamento regolare dei contributi previdenziali -
 che sulla  scorta  di  tutto  quanto  sin  qui  esposto  va  reputata
 collocarsi  fuori  dalla  corretta  operativita'  -, sulla base della
 consuetudinaria realizzazione di altro comportamento, vale a dire  il
 pagamento  degli  stipendi, anch'esso non in linea con il complessivo
 spirito della normativa fallimentare.
   La  suddetta  perdita  di  valenza  illecita  delle   condotte   di
 inadempimento   degli   obblighi   contributivi   si   deve  reputare
 verificarsi anche in relazione a quanto statuito dall'art. 37,  legge
 n.  689/1981, fattispecie di reato che parrebbe essere caratterizzata
 da un taglio maggiormente formale, individuando, secondo la soluzione
 ermeneutica prevalentemente accolta, gia' nella sola omissione  delle
 dichiarazioni  la  condotta  illecita,  con  la  subordinazione della
 concreta punibilita', con il meccanismo della condizione obiettiva di
 punibilita', all'esistenza di un'omissione contributiva non inferiore
 ai cinque milioni mensili.
   Bisogna  a  tale  proposito  considerare   che   la   ratio   della
 disposizione  va  individuata  nella tutela dell'interesse degli enti
 previdenziali  all'accertamento  delle  posizioni  contributive   dei
 datori   di   lavoro,   con   specifico  riferimento  a  imprenditori
 caratterizzati da un certo  "peso  contributivo";  in  questo  senso,
 mantenendo   come  pilastro  logico  del  nostro  iter  argomentativo
 l'esistenza,  in  ipotesi  di   situazioni   economiche   compromesse
 irrimediabilmente,   di   un   obbligo  di  attivazione  del  proprio
 fallimento, ci  si  puo'  rendere  conto  di  come  nel  caso  teste'
 accennato  l'interesse in parola verrebbe comunque tutelato posto che
 tra gli obblighi incombenti sugli organi fallimentari vi e' anche  la
 presentazione delle varie dichiarazioni di legge di carattere fiscale
 e  previdenziale,  presentazione  che e' assai piu' raro venga omessa
 dagli organi di natura pubblicistica in discorso  rispetto  a  quanto
 puo'   accadere   in   una   situazione   di  normalita'  della  vita
 dell'impresa.
   Ancora una volta si profila evidente come, in  una  situazione  del
 genere  sopra  descritto,  l'obbligo  esistente, la cui violazione e'
 "assorbente" rispetto alla violazione  di  altri  obblighi  in  linea
 astrattamente  teorica  coesistenti, sia l'attivazione dei meccanismi
 fallimentari e la "consegna" dell'impresa ai relativi organi.
   Anche  l'esistenza  di  una  condizione  obiettiva  di  punibilita'
 relativa  all'omesso  versamento  dei  contributi, il cui verificarsi
 "apre la via" all'instaurazione del procedimento, con l'inoltro della
 domanda punitiva, deve comunque rapportarsi - per poter consentire di
 leggere la condotta di  reato  in  un'ottica  di  illiceita'  -  alla
 liceita'  del fatto commissivo speculare all'omissione costituente la
 detta condizione obiettiva: in concreto nel caso di cui  si  discute,
 se  e'  vero  che l'omissione contributiva si e' verificata, e' pero'
 vero, per quanto si e' fin qui detto, che  l'ente  previdenziale  non
 era  titolare, data la situazione economica del debitore, del diritto
 a ricevere le somme formalmente dovute da quest'ultimo, fatto  salvo,
 comunque,  il  diritto in argomento in ipotesi, attivata la procedura
 fallimentare, di capienza della massa  attiva.  (artt.  2751  e  s.s.
 codice civile, richiamati dalla normativa fallimentare all'art. 111).
   D'altro  canto,  la  sostenibilita'  del  percorso  logico  sin qui
 seguito, con l'affermazione dell'obbligo, prevalente  ed  assorbente,
 nella  situazione di fatto di cui si e' detto, dell'attivazione delle
 procedure concorsuali, con contestuale perdita  di  rilevanza  penale
 degli  inadempimenti  per cui e' processo, a motivo del nascere della
 censurabilita' penale  della  violazione  dell'obbligo  della  teste'
 citata  attivazione,  sembra  evidenziata  dalla  seguente, intuitiva
 considerazione: non si palesa conforme a giustizia la possibilita' di
 simultanea esistenza da un canto di un'eventuale sanzione ex art. 217
 legge fallimentare, per non avere bloccato l'attivita' dell'impresa e
 quindi, tra l'altro, per non aver  bloccato  gli  atti  estintivi  di
 debiti  che in tale attivita' rientrano, e dall'altro di una sanzione
 penale per non aver adempiuto, seppure in stato  di  decozione,  agli
 obblighi contributivi rappresentati proprio dalle dichiarazioni e dal
 versamento  a titolo di contributi, da leggersi chiaramente in chiave
 di  estinzione  di  un  debito,  seppure  speculare  ad  un   credito
 privilegiato.
   Sulla  scorta  di  tutto  quanto  sin qui esposto, e della ritenuta
 perdita di illiceita' penale delle  condotte  per  cui  e'  processo,
 nelle   circostanze   gia'   indicate  di  tempo,  condotte  peraltro
 pacificamente poste in essere, si dovrebbe emettere, ad  opinione  di
 questo  pretore,  una pronunzia assolutoria a favore di Chilla' Maria
 perche' il fatto non costituisce reato.
   Il panorama interpretativo,  pero',  concernente  le  omissioni  di
 natura  previdenziale  in  ipotesi di imprese che versino in stato di
 decozione,   non   risulta   finora   avere    accolto,    in    sede
 giurisprudenziale,  la  linea  che,  per  quanto sin qui detto, si e'
 reputato in questa  sede  di  delineare,  affermando  in  realta'  la
 giurisprudenza   assolutamente   prevalente,  sinora,  una  sorta  di
 assolutezza dell'obbligo, in capo all'imprenditore, di versamento  di
 contributi  previdenziali,  qualunque  sia la situazione patrimoniale
 dell'impresa prima di una formale dichiarazione di fallimento.
   Tale linea  assolutamente  prevalente,  ormai  cristallizzatasi  ed
 apparentemente immune da qualunque travaglio in relazione ai problemi
 suesposti,  provoca  a  parere  dello  scrivente, un contrasto tra le
 disposizioni contestate nel presente procedimento  e  quelle  di  cui
 all'art.  27,  terzo  comma  della  Costituzione e di cui all'art. 41
 della medesima  Carta  costituzionale,  se  rapportate,  dette  norme
 contestate,  alle  disposizioni, nella presente ordinanza menzionate,
 di carattere penale fallimentare:  con  riguardo  al  primo  dei  due
 profili  di  incostituzionalita',  il  contrasto con il teste' citato
 art. 27, terzo comma si produrrebbe, evidenziando in tal modo un dato
 di irragionevolezza dell'ordinamento,  posto  che  l'imprenditore  in
 stato  di  decozione,  pur  avendo in ipotesi gia' perpetrato, in una
 species facti esaurientemente ed in via organicamente esclusiva presa
 in  esame  e  disciplinata  dalla  normativa  fallimentare,  condotte
 illecite che valgono al medesimo la successiva punibilita' quantomeno
 a  mente  dell'art.  217  di detta normativa (punibilita' subordinata
 esclusivamente alla declaratoria di fallimento, da molti ritenuta una
 mera condizione oggettiva  di  punibilita'),  verrebbe  a  rispondere
 contemporaneamente  ed  inevitabilmente,  come  gia' sopra accennato,
 sulla base di due presupposti tra loro contraddittori.
   In  primo  luogo, infatti, verrebbe a rispondere sulla scorta delle
 disposizioni contestate nel  presente  procedimento,  per  non  avere
 versato  i  contributi  e  pertanto per non avere perpetuato seppure,
 appunto, in stato di decozione, le attivita' di pagamento di, come e'
 quello   verso   l'INPS,   un   debito,   ed   in   secondo    luogo,
 contraddittoriamente,    si    troverebbe    assoggettato    ad   una
 responsabilita'  penale  sulla   base   delle   disposizioni   penali
 fallimentari,  quantomeno  per  avere  aggravato  il proprio dissesto
 ritardando l'apertura  del  proprio  fallimento  (o  addirittura,  si
 potrebbe  in  linea  teorica ipotizzare, per bancarotta preferenziale
 avuto riguardo all'ipotetica censurabilita' dei versamenti effettuati
 in favore dell'INPS anziche' effettuati - a titolo  di  esempio  -  a
 titolo di accantonamenti per le indennita' di fine rapporto spettanti
 ai   lavoratori   che     -  sempre  esemplificativamente     -  sono
 contraddistinte  da  un  grado  piu'  avanzato  di  privilegio  nella
 graduatoria  dei crediti privilegiati), e per avere quindi continuato
 l'attivita' di impresa estinguendo debiti, come quello verso  l'INPS,
 e  soddisfacendo  pertanto  crediti  non  aventi, come quello in capo
 all'ente   pubblico   medesimo   una   tutela   assoluta   da   parte
 dell'ordinamento,  ma  bensi'  una  tutela  relativa, privilegiata ma
 subordinata a quella di altri crediti, "piu' privilegiati".
   Si verrebbe, in definitiva, a creare in capo  all'imprenditore  una
 pesante  responsabilita'  penale, a titolo di delitto, in relazione a
 due diverse ipotesi di illecito basate sui  presupposti,  logicamente
 tra  se'  contraddittori,  cui  si  e' fatto sopra riferimento, cosi'
 verificandosi   un'ingiustificata,   sproporzionalita'   e   pertanto
 irragionevole  reazione  da  parte dell'ordinamento giuridico penale.
 Un'ulteriore  considerazione  sembra  suffragare   quanto   sin   qui
 sostenuto:  come  puo'  ritenersi  sussistente una condotta di penale
 rilevanza, caratterizzata, quindi, dal  massimo  grado  di  disvalore
 conosciuto   dall'ordinamento,  in  una  situazione  nella  quale  il
 versamento all'INPS, che varrebbe  ad  evitare  la  sanzione  penale,
 potrebbe   essere   successivamente   giudicato   inefficace,  merce'
 l'instaurazione  ed   il   successivo   accoglimento   di   un'azione
 revocatoria,  azione  casomai  esercitata  allo scopo di rientrare in
 possesso delle risorse indirizzate su tale ente pubblico  ma  che  si
 intenderebbero  destinate  al  soddisfacimento  di  crediti che, come
 quello dei lavoratori sulle indennita' di fine rapporto, hanno tutela
 maggiormente privilegiata rispetto a quello dell'INPS?
   Con riferimento, poi, all'art. 41 della  Carta  costituzionale,  il
 profilo  di  illegittimita'  poggia,  secondo lo scrivente, sul fatto
 che, in caso di pagamento dei contributi previdenziali, in  stato  di
 decozione,  l'attivita' dell'impresa non verrebbe posta in essere nel
 rispetto dei suoi fini sociali, posto che, anche con il pagamento  in
 questione,   verrebbe   lesa   la   par   condicio  creditorum,  bene
 quest'ultimo primariamente tutelato dall'ordinamento  in  ipotesi  di
 decozione  dell'impresa,  ed unico bene da reputarsi, in detta ultima
 situazione, principale strumento per  la  difesa  dei  predetti  fini
 sociali.
   Tutto  cio' premesso, ritenuto che la questione sin qui prospettata
 sia rilevante ai fini del decidere,  dato  che  l'accoglimento  della
 medesima  condurrebbe  alla  emissione  di una pronuncia assolutoria,
 soluzione   non   adottabile   seguendo   la   linea   interpretativa
 assolutamente   univoca   allo  stato  esistente,  che  si  considera
 dall'attuale giurisprudenza fondata sul  dato  normativo,  reputa  lo
 scrivente    che,   allo   scopo   di   riequilibrare   organicamente
 l'ordinamento giuridico-penale, con riguardo al coordinamento tra  le
 norme  contestate  nel  presente  procedimento  e la normativa penale
 fallimentare,   ed   alla   stregua   dei   summenzionati    principi
 costituzionali, si renda necessaria la declaratoria di illegittimita'
 costituzionale  degli  artt.  2,  comma 1-bis legge n. 638/1983 e 37,
 primo comma, legge n. 689/1981, nella  parte  in  cui  non  escludono
 dalla  propria  area di applicazione imprenditori o amministratori le
 cui imprese o societa' versino in una situazione  economica  tale  da
 rendere  necessaria, a mente degli artt. 1 e segg. r.d. 16 marzo 1942
 n. 267, l'apertura della procedura fallimentare.
                               P. Q. M.
   Visto l'art. 23, terzo comma, della legge 11 marzo 1953,  n.  87  e
 ritenuta  la  rilevanza  della  proposta  in  questione ai fini della
 decisione;
   Dispone la  trasmissione  degli  atti  alla  Corte  costituzionale,
 previa,  a  cura della cancelleria, notifica della presente ordinanza
 al Presidente del Consiglio dei Ministri ,nonche'  comunicazione  del
 provvedimento  medesimo ai Presidenti della Camera dei deputati e del
 Senato della Repubblica.
   Milano, addi' 24 aprile 1995
                                              Il pretore:  Montingelli
 95C1416