N. 509 ORDINANZA (Atto di promovimento) 8 febbraio 1996

                                N. 509
 Ordinanza  emessa  l'8  febbraio  1996  dal  giudice  per le indagini
 preliminari presso il Tribunale di Genova nel procedimento  penale  a
 carico di Mejri Marhez (alias Miheres Mejjr) ed altro
 Processo   penale  -  Giudizio  immediato  -  Richiesta  di  giudizio
 abbreviato - Termini di decadenza di giorni  sette  decorrenti  dalla
 notificazione   all'imputato   del  decreto  di  giudizio  immediato,
 anziche'  di  giorni  quindici  come  previsto  per  il  procedimento
 pretorile (art. 555, primo comma, lettera e), del c.p.p.) - Lamentata
 esiguita'  di  detto termine per gli imputati detenuti, con incidenza
 sul diritto di difesa  -  Ingiustificata  disparita'  di  trattamento
 rispetto  agli  imputati  liberi  -  Lesione  del  principio  di buon
 andamento dell'amministrazione della giustizia.
 (C.P.P. 1988, art. 458, primo comma).
 (Cost., artt. 3, 24 e 97).
(GU n.23 del 5-6-1996 )
                IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
   Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale contro
 Sghairi Lamjed + 3 iscritta al n. 3718 del rg. nr. 1995.
   Con decreto del 7 dicembre 1995  questo  giudice  per  le  indagini
 preliminari    disponeva  il  giudizio  immediato a carico di quattro
 cittadini extracomunitari, tra i quali Mejri Marhez e Koumenji  Karim
 (in  precedenza  individuati  come  Miheres  Mejjr  e Mizouri Sahbi),
 imputati della detenzione in concorso tra loro  di  70,52  grammi  di
 sostanza stupefacente contenente gr. 44,8 di prodotto puro, destinata
 all'illecito consumo di terzi, in Genova il 24 ottobre 1995.
   All'udienza  camerale  del  19 dicembre 1995 convocata per decidere
 sulla richiesta di rettifica delle  generalita'  degli  indagati  per
 successiva  espulsione  a  loro  richiesta in base all'art. 7-ter del
 decreto-legge n. 489/1995, si verificava che  entrambi  gli  indagati
 avevano  nel  frattempo  fatto  richiesta  di giudizio abbreviato: il
 Mizouri/Koumenji il 18 dicembre 1995;  il  Miheres/Mejiri  nel  corso
 della  stessa  udienza  camerale.  Il  pubblico  ministero, presente,
 opponeva tuttavia il proprio  dissenso  alla  conversione  del  rito,
 rilevando  la  tardivita' della richiesta degli imputati, intervenuta
 dopo la scadenza di sette giorni decorrenti dalla  notificazione  del
 decreto di giudizio immediato, eseguita il 7 dicembre 1995.
   Preso  atto  del  diniego  del  pubblico  ministero cosi' motivato,
 malgrado la palese definibilita' del procedimento  allo  stato  degli
 atti  atteso l'arresto dei due indagati nella flagranza di reato e la
 piena confessione di entrambi resa nell'udienza di convalida, ritiene
 questo  giudice  per  le  indagini  preliminari   rilevante   e   non
 manifestamente   infondato   il  dubbio  circa  la  costituzionalita'
 dell'art. 458.1 c.p.p.
   La questione di costituzionalita' sottoposta  d'uffcio  alla  Corte
 riguarda  la  conformita'  con  i  precetti  degli  artt.  3, 24 e 97
 Costituzione dell'art. 458.1 c.p.p. nella parte  in  cui  prevede  la
 decadenza  dalla  facolta'  per  l'imputato di richiedere il giudizio
 abbreviato, ove la relativa richiesta non sia  intervenuta  entro  il
 termine  di sette giorni dalla notifica all'imputato stesso (e non al
 suo difensore:  vedi sent. Corte costituzionale n. 588 del 1990)  del
 decreto che dispone il giudizio immediato.
   Il   dubbio   di   costituzionalita'  e'  limitato  alla  peculiare
 situazione in cui versano  gli  imputati  ristretti  in  carcere  (in
 regime di custodia cautelare, o per espiazione di pena); il dubbio e'
 anche  piu' consistente per tali soggetti, ove ristretti in strutture
 lontane  dai  luoghi  di  abituale  dimora.  Il  livello  minimo   di
 effettivita'  delle  garanzie  difensive vale infine, in questi casi,
 per i detenuti extracomunitari.
   Pare necessaria una premessa. E'  bensi'  vero  che  la  scelta  di
 ricorrere   al   giudizio   abbreviato   e'   rimessa  esclusivamente
 all'imputato: non al suo difensore, che puo'  solo  trasmettere  tale
 volonta' all'A.G.
  se  munito  di  apposita procura; e tuttavia e' altrettanto evidente
 che la decisione in questione - che postula  non  facili  valutazioni
 circa  la  convenienza  di  accedere  al  rito  speciale, rispetto al
 prevedibile  esito  dibattimentale  del  processo,  dal  momento  che
 l'imputato nel giudizio abbreviato perde il diritto alla prova, e non
 puo'  contare  su  integrazione d'ufficio delle prove (si richiama in
 proposito la decisione di codesta Corte n. 92 del 1992)  -  esige  un
 pregnante intervento della difesa tecnica.
   Solo  il  difensore  ha,  di  fatto,  il completo accesso agli atti
 processuali; solo lui e' in  possesso  delle  indispensabili  nozioni
 tecniche  e dell'esperienza necessaria (che comprende, ad esempio, la
 conoscenza della giurisprudenza del giudicante) per poter valutare  i
 delicati  profili  circa la convenienza del rito speciale, e pertanto
 per poter compiutamente orientare la scelta  del  suo  assistito.  In
 pratica,  l'imputato-tipo, che per solito ignora gia' che cosa sia il
 giudizio  abbreviato,  non  puo'  decidere  consapevolmente,  se  non
 adeguatamente assistito dal difensore.
   Se  cosi'  e', puo' anche ammettersi che il termine di decadenza in
 esame  sia  congruo  rispetto  ai   precetti   dell'art.   24   della
 Costituzione  per  gli  imputati  che  possono  disporre  della  loro
 liberta' personale,  pur  se  la  presenza  nel  sistema  processuale
 dell'art.  555  lett.  e)  c.p.p. ingenera non poche perplessita'. Lo
 stesso termine  diventa  pero'  eccessivamente  ed  irragionevolmente
 breve  per  gli  imputati ristretti in carcere per qualsiasi causa, i
 quali  non  hanno  modo  di  disporre  a  loro  piacimento  dei  loro
 movimenti:  quindi  non  possono  recarsi dall'avvocato scegliendo il
 momento,  ne'  possono  "convocarlo"  in  carcere  secondo  le   loro
 necessita'. Inoltre, quasi sempre i difensori apprendono del rinvio a
 giudizio  immediato  dopo  i loro assistiti, per cui il loro lasso di
 tempo per l'assistenza difensiva del cliente detenuto diventa  ancora
 piu' ristretto.
   Tali  ostacoli di fatto al compiuto esercizio del diritto di difesa
 (ed alla piena esplicazione del mandato defensionale) sono anche piu'
 evidenti in altre due situazioni, cui si e' gia' accennato:    quando
 il detenuto sia custodito in luogo diverso dalla sua abituale dimora;
 e  quando  sia cittadino extracomunitario. In quest'ultimo caso, alle
 "ordinarie"  difficolta'  che  incontra  il  detenuto  per  il  pieno
 esercizio   del   diritto   di  difesa,  si  sommano  le  difficolta'
 linguistiche e culturali note alla Corte che, con la nota sentenza n.
 10 del  1993  relativa  all'art.  143  c.p.p.,  ha  mostrato  di  ben
 conoscerle.    La  questione  che si discute non e' risolta - cio' si
 dice in riferimento alla sentenza 276 del 1992 di codesta Corte - con
 il rilievo che la comunicazione fatta con l'apposita modulistica  dal
 carcere  vale quale notifica: il problema non e' infatti quello delle
 modalita' di trasmissione della  volonta'  dell'imputato,  ma  quello
 della  disponibilita'  di  un  termine  congruo  per  poter ricorrere
 all'assistenza  del   difensore   tecnico,   e   quindi   per   poter
 consapevolmente accedere o meno al rito speciale.  I termini di fatto
 del  problema sono tali, che nemmeno una piu' capillare "informazione
 giuridica" nelle carceri potrebbe risolverli.  Si prenda  ad  esempio
 la  recente  -  e condivisibile - norma introdotta con l'art. 94-1bis
 disp. attuaz. c.p.p.: essa prevede che  l'amministrazione  carceraria
 spieghi  al  detenuto  il  contenuto  dell'ordinanza  che  dispone la
 custodia  cautelare.  E'  meglio  di  niente,  ma  e'  chiaro  che il
 direttore del carcere non potra' mai surrogarsi  al  difensore  nello
 spiegare  le  possibilita' difensive offerte dal sistema processuale.
 La disposizione, in ogni caso, prende unicamente in esame i titoli di
 custodia cautelare; e certamente non  puo'  essere  l'amministrazione
 penitenziaria  ad  interessarsi della specifica posizione processuale
 del detenuto raggiunto da  decreto  di  giudizio  immediato.    Fatte
 queste  premesse sull'effettivita' del diritto di difesa nei due casi
 considerati,  si  pongono  di   seguito   i   seguenti   rilievi   di
 costituzionalita' dell'impugnata disposizione:
     la  norma  dell'art. 458.1 c.p.p. si pone in contrasto con l'art.
 24 della Costituzione dal  momento  che  riduce  la  possibilita'  di
 effettivo  esercizio  della  difesa tecnica entro spazi che risultano
 eccessivamente angusti per gli imputati detenuti; tanto piu' angusti,
 se custoditi al di fuori del luogo di abituale dimora o se  cittadini
 extracomunitari;
     la  medesima  norma  si  pone  in  contrasto  con  l'art. 3 della
 Costituzione, da  apprezzarsi  in  una  con  l'art.  24  della  legge
 fondamentale,  dal  momento  che  prevede  l'identica comminatoria di
 decadenza dall'esercizio di una  facolta'  processuale  sia  per  gli
 imputati   liberi   che  per  quelli  detenuti;  omettendo  cosi'  di
 considerare che ai secondi non e' consentito conferire  a  piacimento
 con i propri difensori.
   Un  ulteriore  e  non  meno  macroscopico  profilo di disparita' di
 trattamento e' apprezzabile in  relazione  all'art.  555.1  lett.  a)
 c.p.p.:   norma  che  prevede,  per  il  procedimento  pretorile,  la
 comminatoria  di  decadenza  dalla  possibilita'  di  richiedere   il
 giudizio  abbreviato entro il diverso e piu' favorevole termine di 15
 giorni dalla notificazione del decreto che dispone il giudizio.    La
 nota  diversita'  tra  il  procedimento  per  reati di competenza del
 Tribunale  e  quello   di   competenza   del   Pretore,   consistente
 nell'assenza  in  quest'ultimo dell'udienza preliminare, non ha alcun
 rilievo ai fini  che  qui  interessano:  esso  attiene  unicamente  i
 "filtri"  giudiziari  a  monte  del dibattimento, non certo i termini
 entro cui vanno esercitate  talune  attivita'  difensive  a  pena  di
 decadenza.  Anzi, il grado di affinita' tra il decreto che dispone il
 giudizio  immediato  in  Tribunale,  e  quello  che  apre   la   fase
 dibattimentale  nanti  il pretore, anche piu' marcata visto che anche
 nel procedimento di cui  agli  artt.  453  e  ss.  c.  p.p.,  difetta
 l'udienza preliminare.  Dunque, l'attuale sistema processuale prevede
 -  a  fronte  dell'identica  facolta'  di  scegliere di adire il rito
 speciale del giudizio abbreviato nel procedimento "ordinario"  ed  in
 quello   pretorile   -   un  termine  addirittura  doppio  per  tutti
 indistintamente gli imputati (siano essi liberi, o detenuti) citati a
 giudizio per i reati di minore gravita'.  Cio' si desume dal semplice
 raffronto tra l'art. 456 ed il  successivo  art.  555  c.p.p,  ma  la
 disparita'  di  trattamento  che  ne consegue in danno degli imputati
 detenuti  (massime,  se  stranieri)  per  reati  di  competenza   del
 Tribunale,  appare  a  questo  punto  non tanto irragionevole, quanto
 davvero assurda.  La presenza della disposizione "speciale" dell'art.
 555.1 lett.  e) c.p.p. nel giudizio pretorile consente di evitare  il
 rinvio  alla  discrezionalita' del legislatore: se la norma impugnata
 confligge con i parametri  costituzionali  indicati,  allora  non  e'
 dubbio  che  la  sua eliminazione dal diritto positivo per effetto di
 una  pronuncia  della  Corte  adita  non  determinerebbe  alcun vuoto
 normativo, dal momento che lo stesso Giudice costituzionale  potrebbe
 indirizzare  gli  interpreti  verso  il termine di decadenza previsto
 dallo stesso art. 555 c.p.p..  Termine che, malgrado la  collocazione
 sistematica,  solo  in  apparenza puo' definirsi "speciale", dato che
 dovrebbe riguardare l'85% dei processi  penali  (tanto  lata  essendo
 l'odierna  competenza pretorile), per cui e' piuttosto l'attuale art.
 458.1 c.p.p. a porsi in rapporto di eccezione rispetto alla  generale
 disciplina dell'art. 555.1 lett.  s) c.p.p.;
     la  disposizione  in esame si pone infine in contrasto con l'art.
 97 Costituzione: norma che, nella  consolidata  giurisprudenza  della
 Corte,  risulta  riferibile  a  tutte  le  attivita' disimpegnate dai
 pubblici poteri (compreso la funzione  giurisdizionale)  e  non  solo
 all'attivita'  amministrativa  in  senso proprio (v. sentenze 177 del
 1973; 86 del 1982; 18 del 1989).
   Ora, non vi e' dubbio che l'attuale congegno normativo disincentiva
 ed assurdamente penalizza molte situazioni - come il caso di specie -
 in cui il presupposto della "pronta definibilita'"  del  processo  e'
 "evidente":  con  il che si va a gravare il giudice dibattimentale di
 un ulteriore carico  processuale  che,  invece,  sarebbe  prontamente
 definibile  da  parte  del giudice monocratico in tempi infinitamente
 piu' celeri, senza provocare il noto  andirivieni  di  testimoni  che
 accompagna  le  forme  del  giudizio  ordinario.   Tra i soggetti che
 vengono cosi' inutilmente sottratti  alle  ordinarie  incombenze,  vi
 sono  principalmente  ufficiali ed agenti di p.g., i quali vengono in
 tal modo  distolti  dall'attivita'  investigativa,  con  apprezzabile
 compromissione  dell'accertamento  dei  reati  e ricerca dei relativi
 responsabili.   Sia  detto  senza  infingimenti.  Le  discriminazioni
 assicurate dalla norma impugnata non hanno nessun fondamento logico e
 rispondevano ad una sola esigenza: evitare che il Tribunale avesse ad
 apprendere  della  celebrazione del giudizio abbreviato richiesto nel
 caso di giudizio immediato, ormai a ridosso dell'udienza gia' fissata
 per il giudizio. Ma questa  esigenza  di  "buon  governo"  del  ruolo
 processuale  avrebbe  ancora  senso  se  i  tempi  di  fissazione dei
 processi al  dibattimento  fossero  quelli  normativamente  dati  (20
 giorni   dall'udienza   preliminare).      Invece,  si  e'  assistito
 nell'ultimo quinquennio alla progressiva dilatazione di tali tempi, a
 causa dell'"ingolfamento" dei Tribunali per la cattiva  riuscita  del
 giudizio  abbreviato, per la scarsa efficacia deflattiva dell'udienza
 preliminare pur  dopo  la  legge  n.  105/1993  e  per  l'assenza  di
 preclusioni   al   patteggiamento   entro  la  stessa  udienza.    La
 disposizione  censurata  ha  non   poca   responsabilita'   nell'aver
 determinato   tale   congestione,   proprio   quando   il  magistrato
 monocratico del giudice per le indagini preliminari  -  a  monte  del
 Collegio  -  era  investito  della  decisione  di  un  caso  a "prova
 evidente".   Dunque, non solo l'esigenza  pratica  che  si  e'  sopra
 individuata  a spiegazione della sopravvivenza della norma censurata,
 non ha piu' pratica ragion d'essere, tanto piu' se  a  scapito  della
 reale  possibilita'  di  piena  esplicazione della difesa tecnica. Ma
 anzi,  tale  disposizione  -  contribuendo  in  non  piccola   misura
 all'inutile  congestione  dei ruoli delle udienze dibattimentali - e'
 divenuta essa stessa  un  fattore  di  malfunzionamento  del  sistema
 processuale.    Non  ignora  lo  scrivente  giudice  per  le indagini
 preliminari che questioni per larghi tratti affini a quella  in  oggi
 sottoposta  ai  vaglio  della  Corte sono gia' state disattese con le
 citate sentenze n. 588 del 1990 e 59 del 1992.  Per  vero,  tuttavia,
 non  pare che tutti i profili di incostituzionalita' segnalati con la
 presente ordinanza siano stati presi  in  esame  in  tali  decisioni;
 cio', principalmente, in rapporto con la generale disciplina prevista
 dall'art.  555.1 lett.   e) c.p.p., la quale puo' agevolmente colmare
 ogni e qualunque vuoto normativo ingenerato da un'eventuale pronuncia
 di accoglimento della Corte.   Inoltre  vi  e'  da  rilevare  che  le
 precedenti  sentenze  si muovevano all'interno di un quadro normativo
 ancora in sperimentazione, nel quale  si  credeva  realmente  ad  una
 pronta  celebrazione della fase dibattimentale, sul presupposto di un
 buon funzionamento dei riti speciali in chiave  di  "deflazione"  del
 rito  ordinario. Per le ragioni sopra dette, l'esperienza "sul campo"
 ha totalmente  sconfessato  tale  previsione:  di  talche'  la  norma
 impugnata  non  e'  piu'  presidio  alla  celerita' della trattazione
 dibattimentale  dei  processi,  ma  e'  anzi  concausa   di   inutile
 congestione  della  giustizia penale.   Osservato che la questione di
 costituzionalita' cosi'  enunciata  e'  rilevante  nell'odierno  caso
 perche', a seguito della richiesta presentata dagli imputati oltre il
 termine  dell'art.  458.1  c.p.p.,  questo  giudice  per  le indagini
 preliminari dovrebbe pronunciare ai  sensi  del  successivo  comma  2
 l'inammissibilita'  della  richiesta conversione del rito, con il che
 rimarrebbe efficace la citazione a giudizio  nanti  la  sez.  II  del
 Tribunale  di  Genova  per la data del 21 febbraio 1996. L'accesso al
 rito speciale  non  ha  avuto  il  consenso  del  pubblico  ministero
 sull'esclusivo   rilievo   della  tardivita'  della  richiesta  degli
 imputati e non certo per la non immediata decidibilita' del  processo
 (v. anche l'odierna puntualizzazione resa all'udienza camerale).
   Ora,  ove  l'impostazione  del  remittente  giudice per le indagini
 preliminari  fosse  condivisa,  entrambi   gli   imputati   avrebbero
 interposto per tempo (entro 15 giorni dalla notificazione del decreto
 di  giudizio immediato) la richiesta di conversione del rito, per cui
 potrebbe nei loro confronti  procedersi  a  giudizio  abbreviato.  Il
 procedimento  a  loro  carico,  giova ripetere, ampiamente definibile
 allo stato degli atti posto che gli elementi di prova sono costituiti
 dall'arresto degli imputati nella flagranza di reato e nell'immediata
 confessione degli addebiti, da entrambi gli imputati resa all'udienza
 di convalida dell'arresto.
   Rilevato che ai sensi della legge costituzionale n. 87 del 1953, il
 procedimento  penale  e'  sospeso;  e'   sospesa,   in   particolare,
 l'efficacia  della  citazione  a giudizio per la data del 21 febbraio
 1996 inscindibilmente  connessa  con  la  decisione  della  questione
 pregiudicante  circa  la  legittimita'  costituzionale del termine di
 decadenza dell'art. 458 c.p.p.; di cio',  va  dato  immediato  avviso
 alla Sez. II Penale del locale Tribunale.
                               P. Q. M.
   Visti gli artt. 23 e segg. legge costituzionale n. 87 del 1953;
   Dichiara  rilevante  e non manifestamente infondata la questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 458.1 c.p.p. in relazione  agli
 artt.  3,  24 e 97  della Costituzione, nella parte in cui prevede la
 decadenza dalla facolta' di richiedere il giudizio  abbreviato  entro
 il  termine  di  giorni  sette  dalla  notificazione  del  decreto di
 giudizio immediato anche nei confronti degli  imputati  ristretti  in
 carcere, anziche' nel termine di giorni quindici desumibile dall'art.
 555.1 lett. e) c.p.p.;
   Dispone  la  sospensione  del  presente giudizio (ed in particolare
 della citazione a giudizio  degli  imputati  Mejri  e  Koummenji  per
 l'udienza  del  21  febbraio  1996  nanti la sez. II del Tribunale di
 Genova) e la trasmissione di copia autentica degli  atti  alla  Corte
 costituzionale in Roma;
   Dispone  che  copia  della  presente  ordinanza  sia  notificata al
 Presidente del  Consiglio  dei  Ministri  in  Roma  e  comunicata  ai
 Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica in
 Roma.
     Genova, addi' 8 febbraio 1996
                        Il giudice: Braccialini
 96C0734