N. 7 RICORSO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE 1 aprile 1996

                                 N. 7
  Ricorso per conflitto di attribuzione depositato in cancelleria il 1
 aprile 1996 (della provincia autonoma di Trento)
 Alimenti  e  bevande  (Igiene  e commercio) - Esercizi abilitati alla
    somministrazione al pubblico - Determinazione del numero - Atto di
    indirizzo e coordinamento alle regioni  -  Ricomprensione,  tra  i
    destinatari,  anche  delle province autonome di Trento e Bolzano -
    Lesione delle competenze provinciali in materia  di  commercio  ed
    esercizi  pubblici  -  Violazione dei limiti posti all'attivita' e
    all'esercizio  della  funzione  di  indirizzo  e coordinamento nei
    confronti delle province autonome, nonche' del potere di direttiva
    in materia delegata.
 (D.P.R. 13 dicembre 1995).
 (Statuto regione Trentino-Alto Adige, artt. 9,  nn.  3  e  7,  e  16;
 d.lgs.    16  marzo  1992,  n.  266, art. 3, secondo, terzo e settimo
 comma).
(GU n.24 del 12-6-1996 )
   Ricorso per conflitto di attribuzione della provincia  autonoma  di
 Trento,   in   persona   del   presidente  della  Giunta  provinciale
 pro-tempore dott.  Carlo  Andreotti,  autorizzano  con  deliberazione
 della  Giunta  provinciale  n.  3050  del  15  marzo  1996  (all. 1),
 rappresentata e difesa - come da procura speciale del 19  marzo  1996
 (rep.  n.  61896) rogata dal notaio dott. Pierluigi Mott del Collegio
 notarile di Trento e Rovereto (all. 2)  dagli  avvocati  Giandomenico
 Falcon  di Padova e Luigi Manzi di Roma, con domicilio eletto in Roma
 presso lo studio dell'avv.  Manzi,  via  Confalonieri  5,  contro  il
 Presidente  del  Consiglio  dei Ministri per la dichiarazione che non
 spetta allo Stato di emanare nei confronti della  provincia  autonoma
 di   Trento   il  d.P.R.  13  dicembre  1995,  atto  di  indirizzo  e
 coordinamento alle  regioni  per  la  determinazione  del  numero  di
 esercizi  abilitati  alla  somministrazione al pubblico di alimenti e
 bevande, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 44 del 22 febbraio 1996;
 nonche' per il conseguente annullamento  dello  stesso  decreto,  per
 violazione:
     degli artt. 9, n. 3) e n. 7), nonche' dell'art. 16 dello Statuto;
     dell'art. 3, commi 2, 3 e 7 d-lgs. 16 marzo 1992, n. 266;
     dei principi costituzionali relativi all'esercizio della funzione
 di  indirizzo  e  coordinamento,  nonche'  del potere di direttiva in
 materia delegata;
   per i profili e nei modi di seguito illustrati.
                               F a t t o
   La ricorrente provincia e' titolare di potesta'  legislativa  e  di
 potesta'  amministrativa sia nella generale materia del commercio che
 nella specifica materia degli esercizi pubblici, ai sensi degli artt.
 9, n. 3) e n. 7), nonche' dell'art.  16  dello  Statuto  speciale  di
 autonomia.  Alle competenze statutarie e' stata data piena attuazione
 sin dal d.P.R. n. 686 del 1973, secondo il quale le province autonome
 di Trento e di Bolzano esercitano in materia di esercizi pubblici  le
 funzioni  gia'  spettanti  agli  organi  centrali  e periferici dello
 Stato, mentre analogamente e' disposto per il  commercio  dal  d.P.R.
 n. 1017 del 1978.
   Nell'esercizio  della  propria potesta' legislativa la provincia di
 Trento ha emanato una ampia ed organica legislazione, in  particolare
 con  la legge provinciale 22 dicembre 1983, n. 46, recante disciplina
 del settore commerciale della provincia autonoma di  Trento,  il  cui
 titolo VI disciplina in particolare la somministrazione di alimenti e
 bevande  negli  esercizi  pubblici.  In  attuazione  di tale legge la
 provincia autonoma di Trento ha poi adottato il piano provinciale  di
 politica  commerciale (delib. della giunta provinciale n. 5544 del 12
 giugno 1987 e n.  9320  dell'11  agosto  1988),  nel  quale  sono  in
 particolare  contenuti i criteri per il rilascio delle autorizzazioni
 relative agli esercizi di somministrazione di alimenti e  bevande  al
 pubblico.
   La  materia  del  commercio e degli esercizi pubblici non e' invece
 compresa tra quelle che l'art. 117,  comma primo, della  Costituzione
 assegna  alle  regioni  a  statuto  ordinario,  ma,  nel quadro delle
 disposizioni del d.P.R. n. 616 del 1977, e'  stato  delegato  a  tali
 Regioni  l'esercizio  delle  funzioni  amministrative  relative,  tra
 l'altro, "ai pubblici esercizi di vendita e  consumo  di  alimenti  e
 bevande" (art. 52, primo comma, lett. a).
   Con  la  legge  25 agosto 1991, n. 278, lo Stato ha ora dettato una
 nuova disciplina di aggiornamento della normativa sull'insegnamento e
 sull'attivita' dei pubblici esercizi.
   In tale legge e' tra l'altro previsto che le Regioni, evidentemente
 nell'ambito della delega  ad  esse  affidata,  provvedono  a  fissare
 "periodicamente  criteri  e  parametri  atti  a determinare il numero
 delle autorizzazioni rilasciabili nelle aree interessate", e che cio'
 avvenga  "sulla  base   delle   direttive   proposte   dal   Ministro
 dell'industria,  del commercio e dell'artigianato - dopo aver sentito
 le organizzazioni nazionali di categoria maggiormente rappresentative
 - e deliberate ai sensi dell'articolo 2,  terzo  comma,  lettera  d),
 della legge 23 agosto 1988, n. 400".
   Si  noti  che il riferimento a tale lettera d) appare il frutto, se
 non di un puro errore di  stampa,  almeno  di  un  equivoco,  essendo
 palese,  in  relazione  al  carattere  delegato  delle funzioni delle
 Regioni ordinarie in tale materia ed alla stessa  terminologia  usata
 dal legislatore, che esso andava invece rivolto alla lettera e) dello
 stesso  art.    2,  terzo  comma,  cioe' alle "direttive da impartire
 tramite il commissario del Governo  per  l'esercizio  delle  funzioni
 amministrative delegate alle regioni".
   In ogni modo, poiche' la stessa legge n. 287 del 1991 prevedeva che
 le  proprie  disposizioni  si  applicassero  nelle  regioni a statuto
 speciale "in quanto compatibili con le norme dei rispettivi  statuti"
 le  competenze  e  le  prerogative della Provincia autonoma di Trento
 erano salvaguardate espressamente, senza che vi fosse ragione  alcuna
 di contestare il contenuto della legge.
   E'  percio'  con  sorpresa  che  la provincia autonoma di Trento ha
 dovuto constatare che il qui impugnato    d.P.R.  13  dicembre  1995,
 pubblicato  nella  Gazzetta Ufficiale n. 44 del 22 febbraio 1996, non
 solo si autoqualifica quale atto di indirizzo  e  coordinamento  alle
 regioni  per  la determinazione del numero di esercizi abilitati alla
 somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, ma  espressamente
 include  tra  i  propri  destinatari  anche "le provincie autonome di
 Trento e di Bolzano".
   Non c'e' bisogno di dire,  infatti,  che  se  tale  atto  si  fosse
 considerato  -  come  ad avviso della provincia autonoma di Trento si
 doveva - quale espressione del potere  di  direttiva  delle  funzioni
 delegate  alle  Regioni  a statuto ordinario, esso non avrebbe dovuto
 affatto essere rivolto alla stessa provincia,  titolare  di  funzioni
 proprie.  Ma  se  anche in denegata ipotesi si potesse considerare il
 compito previsto dall'art. 3, comma 4, della legge n.  287/1991  come
 realmente ascrivibile alla funzione di indirizzo e coordinamento, nei
 confronti della provincia autonoma di Trento esso rimarrebbe comunque
 illegittimo   e  lesivo  delle  sue  prerogative  costituzionali  per
 violazione dei principi codificati in materia,  in  attuazione  dello
 statuto di autonomia, dal d.lgs. n. 266 del 1992.
   Pertanto,  sia  considerato  quale direttiva relativa alle funzioni
 delegate alle regioni a  statuto  ordinario,  impropriamente  rivolta
 anche  alla  provincia autonoma di Trento, sia considerato quale atto
 di indirizzo e coordinamento esso risulta  lesivo  delle  prerogative
 costituzionali della ricorrente, per le seguenti ragioni di
                                Diritto
   1.  -  Erronea ed  arbitraria estensione alle autonomie speciali ed
 alla provincia autonoma di Trento del potere  di  direttiva  relativo
 alle funzioni delegate alle Regioni a statuto ordinario.
   Come  detto  in narrativa, le funzioni amministrative in materia di
 pubblici esercizi sono assegnate alle regioni a statuto ordinario  in
 regime  di  delega,  e non quale materia propria. In questo contesto,
 ben si comprende come il legislatore statale, nell'atto di  prevedere
 il  potere  regionale  di  stabilire  "criteri  e  parametri  atti  a
 determinare il numero delle autorizzazioni  rilasciabili  nelle  aree
 interessate"   abbia   tuttavia   subordinato   questo   potere  alle
 "direttive" statali rivolte alle regioni stesse: ovvero alla  regioni
 a statuto ordinario in quanto titolari di funzioni delegate.
   In  altre  parole, ad avviso della provincia autonoma di Trento non
 solo dal tenore letterale del riferimento alle  "direttive",  ma  del
 contesto  della legge, e piu' in generale dell'assetto costituzionale
 dei poteri, risulta chiaro che  si  tratta  di  quelle  direttive  in
 materia  delegata  cui si riferisce la legge n. 400 del 1988, art. 2,
 terzo comma, lett. e), per stabilire  che  la  loro  approvazione  e'
 sottoposta  alla  deliberazione del Consiglio dei Ministri; e risulta
 chiaro altresi' che per mero equivoco la  legge  contiene  invece  un
 riferimento  anziche'  alla lett. e) alla lettera d), ovvero a quella
 che si riferisce agli atti di indirizzo e coordinamento.
   Ma cio' non basta certo a mutare la natura dell'atto, ne' legittima
 lo Stato a  rivolgere  le  proprie  direttive  anche  alla  provincia
 autonoma  di  Trento,  titolare in materia di funzioni legislative ed
 amministrative proprie.  Assurdo  sarebbe  assimilare  la  condizione
 delle regioni meramente delegatarie dell'esercizio della funzione con
 la  condizione  di  diretta titolarita' delle funzioni legislative ed
 amministrative.
   E' chiara di conseguenza l'illegittimita' dell'atto che pretende di
 sottoporre  la  ricorrente  al  potere  statale  di  direttiva  delle
 funzioni delegate.
   2.  -  Illegittimita' del decreto impugnato anche considerato quale
 atto di indirizzo e coordinamento a)  Omissione  della  procedura  di
 consultazione in violazione art. 3, terzo comma, d.lgs. n. 266/1992.
   Come  ricordato  in  narrativa,  il  d.P.R.  13  dicembre  1995  di
 autoqualifica quale atto di indirizzo e coordinamento,  seguendo  (ad
 avviso  della  provincia  erroneamente) l'indicazione proveniente dal
 riferimento della legge n. 287 del 1991 alla lett. d) della legge  n.
 40  del  1988.    Ed  e'  dunque  chiaro  che  in  questi  termini si
 tratterebbe di un atto di indirizzo del  tutto  privo  di  fondamento
 legislativo.
   Ma se anche in denegata ipotesi la legge n. 287/1991 andasse intesa
 nel senso di prevedere un atto di indirizzo e coordinamento rivolto a
 tutte le autonomie regionali, l'atto qui impugnato, in quanto rivolto
 alla  provincia  autonoma di Trento risulterebbe comunque illegittimo
 sotto diversi profili.
   In  primo  luogo risulta palesemente violato l'art. 3, terzo comma,
 delle norme attuazione di cui al d.lgs n. 266 del  1992,  secondo  il
 quale le province autonome di Trento e di Bolzano "sono consultate, a
 cura  della  Presidenza  del  Consiglio dei Ministri, su ciascun atto
 amministrativo di indirizzo e coordinamento per quanto  attiene  alla
 compatibilita'  di  esso  con lo statuto speciale e con le rispettive
 norme di attuazione". Infatti nessuna consultazione  della  Provincia
 e'  avvenuta,  come  d'altronde risulta anche dal preambolo dell'atto
 impugnato.
   Si noti  che  tale  adempimento  ha  nel  sistema  delle  norme  di
 attuazione  un  valore portante. Non solo infatti esso e' finalizzato
 ad un preventivo confronto tra i  rispettivi  punti  di  vista  dello
 Stato  e  della  provincia  -  un  confronto  utile  ad armonizzare i
 contenuti degli atti statali allo Statuto di autonomia, e per  questa
 via  anche a ridurre il contenzioso costituzionale - ma ulteriormente
 esso ha nel sistema delle norme di attuazione  un  ruolo  pratico  ed
 operativo  di  fondamentale  importanza:    dal  momento  che,  nelle
 osservazioni fatte  dalle  province  si  manifesti  l'avviso  di  non
 compatibilita',  l'efficacia  dell'atto  di indirizzo e coordinamento
 rimane, ai sensi del comma 4 dello stesso  decreto,  "sospesa  per  i
 trenta  giorni  successivi  a quello dal quale decorre il termine per
 ricorrere  ai  sensi  dell'art.  98,  comma  secondo,  del   medesimo
 statuto".
   Inoltre,  secondo  il comma ancora successivo, se nei trenta giorni
 in  questione  la  provincia  autonoma  di   Trento,   per   ottenere
 l'accoglimento  del  proprio  punto  di  vista  gia' svolto, notifica
 ricorso per  conflitto  di  attribuzione  in  relazione  all'atto  di
 indirizzo,  l'efficacia di tale atto rimane ancora sospesa "fino alla
 pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale".
   Occorre dunque chiedersi quali siano  sul  piano  dell'operativita'
 gli  effetti della mancata consultazione: perche' se si ritenesse che
 l'atto  opera  ugualmente,  tale  mancata  consultazione,  oltre   ad
 impedire nel merito il confronto di cui si e' detto, precluderebbde e
 vanificherebbe  la  garanzia  della  non  applicazione  dell'atto  di
 indirizzo e coordinamento  tempestivamente  contestato  ed  impugnato
 fino alla conclusione del giudizio costituzionale.
   In realta', la ricorrente provincia ritiene che il meccanismo delle
 norme di attuazione vada inteso nel senso che ogni modo in assenza di
 consultazione  l'atto  di  indirizzo  si  trovi  in una condizione di
 inapplicabilita' per quanto riguarda le autonomie protette dal d.lgs.
 n. 266 del 1992.
   Tuttavia, proprio in quanto rivolto anche (ed  espressamente)  alla
 provincia  autonoma  di  Trento esso manifesta una pretesa statale di
 applicazione di per se' lesiva.
    b) Specifica illegittimita' delle  disposizioni  aventi  contenuto
 dettagliato  e direttamente prescrittivo, in violazione dell'art.  3,
 secondo comma, d.lgs. n. 266/1992.
   Secondo la disposizione di attuazione citata in epigrafe  gli  atti
 di  indirizzo  comunque  "vincolano la regione e le province autonome
 solo al conseguimento degli obiettivi e risultati in essa stabiliti".
 Cio' comporta, come sembra evidente, che tali atti  vadano  concepiti
 in  termini  di  posizione  di  obiettivi  e  risultati,  e  non come
 specifiche prescrizioni vincolanti.
   Ora,  alcune  delle disposizioni del decreto corrispondono a questo
 canone, indicando effettivamente obbiettivi da raggiungere (facilita'
 di accesso al servizio da parte degli  utenti,  assenza  di  ostacoli
 alla  cocorrenza,  facilitazione  dell'apertura e trasferimento degli
 esercizi).  Altre  disposizioni  invece   contraddicono   il   canone
 indicato.
   Cosi',  la  disposizione  del  punto d) dispone che "i criteri ed i
 parametri  regionali  in  materia  debbono  essere     indicati   con
 periodicita'  almeno  triennale,  distintamente per le autorizzazioni
 non  stagionali  e  per  quelle  stagionali".  Cosi'   facendo   tale
 disposizione  impone  un  vincolo  che  non  e'  di  obbiettivo  o di
 risultato, ma e' rivolto  a  porre    una  disciplina  diretta  della
 funzione  amministrativa  regionale.    Inoltre,  essa  appare  anche
 violare la stessa  legge n. 287/1991, che pone alle regioni  il  solo
 obbligo  della  periodicita', riservandone ad esse la determinazione.
 Non pare dubbio  che  se  il  legislatore  avesse  inteso  porre  una
 periodicita' almeno triennale lo avrebbe direttamente stabilito.
   L'atto  statale  si  arroga  qui una funzione che non e' affatto di
 indirizzo, ma di vera integrazione normativa,   che  non  puo'  certo
 essere  esercitata  nei confronti della ricorrente provincia autonoma
 di Trento, la quale  nell'ambito delle sue leggi ha gia' provveduto a
 stabilire che i criteri per il rilascio della autorizzazioni per  gli
 esercizi  pubblici  siano contenuti in un generale (piano provinciale
 di politica commerciale) di durata quinquennale (artt. 4 e 5 1 p.  n.
 46 del 1983).
   Ancora  piu'  gravemente,  la  lett.  f)  del   decreto   impugnato
 stabilisce  perentoriamente che "e' vietato in ogni caso porre limiti
 massimi alle  autorizzazioni  rilasciabili".  E'  evidente  che  tale
 proposizione  non  ha  alcun  contenuto  di  indirizzo, ma stabilisce
 invece in modo diretto una regola di  disciplina  della  materia,  ed
 oltretutto  con  una regola di dettaglio, ma una regola che, se fosse
 contenuta nella legge, avrebbe indubbiamente carattere di  principio.
 Dunque,  anche  ed  ancor  piu'  in  questo caso, il presunto atto di
 indirizzo si arroga in realta' compiti di legislazione,  dando  cosi'
 vita  ad  una  doppia  illegittimita',  sia nei confronti del sistema
 normativo statale  -  nel  quale  l'atto  di  indirizzo  abusivamente
 vorrebbe  penetrare - sia nei confronti delle potesta' riservate alle
 regioni, e limitabili soltanto dai principi di legislazione statale.
   Tra l'altro, nel  suo  contenuto  il  divieto  posto  dall'atto  di
 indirizzo   appare  piuttosto  contraddire  i  principi  legislativi,
 secondo i quali i criteri e  parametri  da  stabilire  devono  essere
 "atti a determinare il numero delle autorizzazioni rilasciabili nelle
 aree interessate".
   Infine,  il comma finale del d.P.R. 13 dicembre 1995 dispone che le
 Regioni "sono tenute ad emanare i criteri ed i parametri  di  cui  al
 comma  primo entro centoventi giorni dalla data di pubblicazione" del
 decreto stesso. Sembra chiaro che anche in questo  caso  l'atto,  ben
 lungi  dal  porre gli obiettivi e gli indirizzi, si arroga un compito
 di integrazione normativa, ponendo  un  vincolo  che  il  legislatore
 avrebbe  - se avesse inteso porlo - certamente posto nella legge.  Ma
 poiche' nella legge tale vincolo  non  e'  posto,  non  spetta  certo
 all'atto  di  indirizzo  di  porlo  in  sostituzione del legislatore;
 quanto meno di fronte alla autonomia  logislativa  ad  amministrativa
 propria,  e  non a mere funzioni delegate, ed in contrasto con quanto
 specificatamente disposto dalla legge provinciale (sulla cui base  la
 provincia   autonoma  di  Trento    ha  gia'  emanato  i  criteri  in
 questione).
   Tra  l'altro,  il  contenuto  del  vincolo  temporale   sfiora   il
 paradosso, se si considera che a partire dall'agosto 1991 lo Stato ha
 impiegato  oltre  quattro  anni  a  produrre  una direttiva che nella
 Gazzetta Ufficiale occupa circa mezza pagina, e pretende  di  imporre
 alle  Regioni  centoventi  giorni per elaborare criteri di necessita'
 ben piu' analitici.
    c) Specifica illegittimita'  per  violazione  dell'art.  3,  comma
 settimo, d.lgs. n. 266/1992.
   Secondo  il  comma  settimo  del  d.lsg.  n.  266/1992  "l'atto  di
 indirizzo e coordinamento emanato in applicazione di principi e norme
 recanti da atto legislativo dello Stato ... non vincola  direttamente
 l'attivita'  amministrativa  della  regione e delle province autonome
 per quanto permangono in vigore le disposizioni legislative regionali
 o provinciali incompatibili con i principi e norme".
   La disposizione si collega al sistema dei rapporti tra legislazione
 statale e legislazione regionale e provinciale precisato dall'art.  2
 dello stesso d.lgs. n. 266/1992, ed in particolare  alla  statuizione
 secondo  la  quale  al  subentrare  di nuova legislazione statale che
 comporti obbligo di adeguamento spetta alla regione ed alle  province
 tale  adeguamento,  con  esclusione  della diretta operativita' della
 legislazione statale. In questo quadro, la disposizione ora riportata
 specifica che  nel  periodo  di  adeguamento  il  sopravvivere  della
 originaria  legislazione  locale comporta che essa sia efficace anche
 nella guida dell'azione amministrativa, persino se incompatibile  con
 i nuovi principi statali.
   Da  tali  previsioni  non  puo'  non  ricavarsi  un  principio piu'
 generale secondo il quale, in definitiva, l'atto di indirizzo statale
 opera  non  in  contrasto  ma  in  conformita'  con  la  legislazione
 regionale   e   provinciale,   e  nei  limiti  di  tale  conformita'.
 Certamente, se sopraggiungono principi  innovativi,  la  legislazione
 locale deve entro certi limiti venire adeguata: ma sin tanto che tale
 adeguamento  non  si  produca  e' pur sempre la legislazione locale a
 guidare l'azione amministrativa locale.
   A maggior ragione la  capacita'  della  legislazione  regionale  di
 guidare  l'azione  amministrativa locale deve ritenersi quando la sua
 corrispondenza  ai  principi  statali  non  sia  neppure   posta   in
 discussione,   come   in   questo  caso.  Cosi'  se  la  legislazione
 provinciale, specificando  la  "periodicita'"  prevista  dalla  legge
 statale,  dispone  la  durata  quinquennale  dei  criteri,  del tutto
 illegittima e comunque ingiustificata e' la pretesa che la  provincia
 si  adegui  (ed entro centoventi giorni) alla "triennalita'" disposta
 con  decreto  presidenziale;  ed  adeguamente  dicasi   per   l'altra
 disposizione  qui contestata, sul divieto del numero massimo (divieto
 non previsto  dalla  legislazione  provinciale,  come  d'altronde  da
 quella statale).
   Tutto  cio'  premesso,  la ricorrente provincia autonoma di Trento,
 come sopra rappresentata e difesa,  chiede  voglia  l'eccellentissima
 Corte  costituzionale dichiarare che non spetta allo Stato di emanare
 nei confronti  della  provincia  autonoma  di  Trento  il  d.P.R.  13
 dicembre  1995, atto di indirizzo e coordinamento alle regioni per la
 determinazione del numero di esercizi abilitati alla somministrazione
 al pubblico di alimenti e bevande, pubblicato in  Gazzetta  Ufficiale
 n.  44  del  22  febbraio  1996 nonche' conseguentemente annullare in
 quanto rivolto alla provincia autonoma di Trento, lo stesso  decreto,
 per violazione:
     degli artt. 9, n. 3) e n. 7), nonche' dell'art. 16 dello Statuto;
     dell'art. 3, commi 2, 3 e 7 d.lgs. 16 marzo 192, n. 266;
     dei principi costituzionali relativi all'esercizio della funzione
 di  indirizzo  e  coordinamento,  nonche'  del potere di direttiva in
 materia delegate; cosi' come indicato in premessa ed  illustrato  nel
 ricorso.
     Padova-Roma, addi' 21 marzo 1996
 Avv. prof. Giandomenico Falcon - avv. Luigi Manzi
 96C0499