N. 317 SENTENZA 18 - 26 luglio 1996

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Sanita' pubblica -  Responsabile  della  gestione  dell'acquedotto  -
 Acque  che superino i limiti di accettabilita' fissati dalla legge in
 adempimento di  direttiva  comunitaria  -  Sanzionabilita'  penale  -
 Ragionevolezza della scelta legislativa - Non fondatezza.
 
 (Legge 5 gennaio 1994, n. 36, art. 26, terzo comma).
 
 (Cost., artt. 3 e 11).
(GU n.34 del 21-8-1996 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
  Presidente: avv. Mauro FERRI;
  Giudici:  prof.  Luigi  MENGONI,  prof.  Enzo  CHELI,  dott.  Renato
 GRANATA, prof.  Giuliano  VASSALLI,  prof.  Cesare  MIRABELLI,  prof.
 Fernando  SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott.
 Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo  ZAGREBELSKY,  prof.  Valerio  ONIDA,
 prof. Carlo MEZZANOTTE;
 ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  26, terzo
 comma, della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia  di
 risorse  idriche), promosso con ordinanza emessa l'11 luglio 1995 dal
 pretore di Rovigo nel procedimento penale a carico di  Zuolo  Alberto
 Sante,  iscritta  al  n. 691 del registro ordinanze 1995 e pubblicata
 nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  44,  prima   serie
 speciale, dell'anno 1995;
   Udito  nella  camera  di  consiglio  del  12 giugno 1996 il giudice
 relatore Valerio Onida.
                           Ritenuto in fatto
   Nel corso di un procedimento penale a carico di un imputato per  la
 contravvenzione di cui all'art. 21 del d.P.R. 24 maggio 1988, n. 236,
 ove  si  punisce  "chiunque  in  violazione delle norme" dello stesso
 decreto "fornisce  al  consumo  umano  acque  che  non  presentano  i
 requisiti  di qualita'" previsti nell'allegato I al decreto medesimo,
 il pretore di  Rovigo,  con  ordinanza  emessa  l'11  luglio  1995  e
 pervenuta a questa Corte il 25 settembre 1995, ha sollevato d'ufficio
 questione di legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 3
 e  11  della  Costituzione,  dell'art. 26, terzo comma, della legge 5
 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia di risorse idriche),  in
 quanto  esso  limita la applicabilita' al responsabile della gestione
 dell'acquedotto delle sanzioni previste  dal  predetto  art.  21  del
 d.P.R.  n.  236  del  1988  al  solo  caso  in  cui  questi,  dopo la
 comunicazione dell'esito delle analisi sulla  qualita'  delle  acque,
 non  abbia  tempestivamente  adottato le misure idonee ad adeguare la
 qualita' dell'acqua o a prevenire il consumo o l'erogazione di  acqua
 non idonea.
   Osserva  il  remittente che la norma impugnata esclude univocamente
 che i gestori  degli  acquedotti  possano  essere  destinatari  delle
 sanzioni  di  cui  all'art.  21  d.P.R.  n.  236 del 1988 fuori dalle
 condizioni espressamente previste dall'art. 26 della legge n. 36  del
 1994,  dando  luogo cosi' non piu' ad un reato concorrente con quello
 gia' previsto dalla norma del 1988, ma ad una  ipotesi  sanzionatoria
 autonoma,  alternativa  a  quella  di  cui  al  predetto  art.  21, e
 unicamente applicabile ai gestori degli acquedotti.
   Ora, poiche' nella specie il reato contestato  era  stato  commesso
 nel  vigore  dell'art.  21  del  d.P.R.  n.  236  del  1988  ma prima
 dell'entrata in vigore della legge n.  36  del  1994,  l'art.  26  di
 quest'ultima  dovrebbe  trovare  applicazione come norma sopravvenuta
 piu' favorevole al reo, sia che si costruisca  la  nuova  fattispecie
 come  reato  autonomo  sia  che  la  si  configuri  come  diretta  ad
 introdurre una nuova condizione di punibilita' per il reato  previsto
 e punito dalla norma del 1988.
   Cosi'  motivata la rilevanza della questione, il remittente osserva
 che ad essa nella specie non potrebbe fare ostacolo il  principio  di
 legalita'  e di irretroattivita' dei reati e delle pene, in quanto la
 caducazione della norma piu' favorevole produrrebbe  l'applicabilita'
 della   norma   incriminatrice   vigente  all'epoca  del  fatto,  con
 esclusione  del  criterio,  non  costituzionalizzato,   della   norma
 sopravvenuta piu' favorevole di cui all'art. 2 del codice penale; ne'
 farebbe  ostacolo la circostanza che precedentemente alla legge n. 36
 del 1994  si  fossero  succeduti  una  serie  di  decreti  legge  non
 convertiti,  i  quali, a differenza della disposizione impugnata, non
 avevano, secondo la giurisprudenza, introdotto una norma  sostitutiva
 o  interpretativa  di  quella  preesistente,  ma si erano limitati ad
 affiancare all'ipotesi sanzionatoria prevista dall'art. 21 del d.P.R.
 n. 236 del 1988, di cui perdurava l'applicabilita' anche  ai  gestori
 degli  acquedotti,  una  nuova  fattispecie contravvenzionale di pura
 omissione per il caso di mancata adozione delle misure idonee dopo la
 comunicazione del risultato delle analisi.
   Cio' premesso, il remittente dubita della  costituzionalita'  della
 norma  impugnata,  in primo luogo, sotto il profilo dell'art. 3 della
 Costituzione, in quanto essa accorderebbe un irragionevole favore  ed
 una  facile  impunita'  ai  soli  responsabili  della  gestione degli
 acquedotti, rispetto agli altri  soggetti,  e  comunque  rispetto  ai
 soggetti  estranei  all'organizzazione  dell'ente  titolare  di detta
 gestione (quali - secondo la prospettazione del giudice a  quo  -  il
 titolare di una casa di cura o di un rifugio alpino che forniscano al
 consumo  umano  acqua  priva  dei  requisiti prescritti, o coloro che
 impieghino tali acque per la  preparazione  industriale  di  prodotti
 destinati al consumo umano). Si scriminerebbe cosi' proprio l'ipotesi
 piu'  suscettibile  di  produrre  effetti  nocivi  sulla  salute  dei
 consumatori, cioe' la fornitura di acqua da parte degli enti  gestori
 degli  acquedotti,  la  cui  struttura tecnica e organizzativa, con i
 controlli imposti dalla legge, consentirebbe invece di prevenire  nel
 migliore  dei  modi  l'erogazione  di  acque  prive  dei requisiti di
 qualita'.  Secondo  il  remittente,  dall'applicazione  della   norma
 impugnata  deriverebbe  in  pratica  la  possibilita'  per  gli  enti
 predetti di non curare adeguatamente il mantenimento  della  qualita'
 delle  acque,  vanificando  gli  stessi obblighi di controllo imposti
 dalla legge, la cui  violazione  non  sarebbe  piu'  sanzionabile,  e
 rendendo lecito quel comportamento negligente che avrebbe per effetto
 la  fornitura  di  acque  sprovviste dei requisiti di qualita', cioe'
 proprio l'evento che la disciplina  normativa  tende  ad  evitare;  e
 resterebbe   cosi'  impunita  l'erogazione  a  vaste  popolazioni  di
 quantita' ingenti di acqua, mentre continuerebbero ad essere soggetti
 alla sanzione casi anche di minor rilevanza e diffusivita'.
   In  secondo  luogo,  ad  avviso  del remittente, la norma impugnata
 violerebbe l'art. 11 della  Costituzione,  in  quanto  contraddirebbe
 l'obbligo,  discendente  dalla direttiva comunitaria n. 80/778 cui il
 d.P.R.  n.  236  del  1988  da'  attuazione,  di  adottare  tutte  le
 disposizioni  necessarie  per permettere in ogni momento l'erogazione
 di  acqua  provvista  dei  requisiti  di  qualita',  e  consentirebbe
 l'erogazione  di  acque  prive  dei  requisiti  rimettendo al momento
 successivo ai controlli l'interruzione del  fenomeno  vietato,  fuori
 dalle  ipotesi  eccezionali  in cui la direttiva ammette deroghe agli
 obblighi da essa imposti.    Esimendo  da  sanzione  una  determinata
 categoria  di  soggetti e consentendo l'erogazione di acque prive dei
 requisiti per una generalita' di ipotesi di primaria  importanza,  il
 legislatore  si sarebbe posto in contrasto con l'obbligo comunitario,
 eludendo l'attuazione  della  direttiva  n.  80/778,  precedentemente
 realizzata  con  il  d.P.R.  del  1988,  e  creando  un contrasto non
 risolvibile dal giudice a quo.
                         Considerato in diritto
   1. -  La questione sollevata investe la norma  contenuta  nell'art.
 26   della   legge   n.   36  del  1994,  che  tende  a  limitare  la
 sanzionabilita'    penale    del    responsabile    della    gestione
 dell'acquedotto,  nel  caso  in  cui venga erogata acqua destinata al
 consumo umano priva dei requisiti di qualita' imposti dal  d.P.R.  n.
 236  del  1988,  all'ipotesi  in  cui  egli,  dopo  la  comunicazione
 dell'esito delle analisi effettuate, in particolare  nell'ambito  dei
 controlli  imposti  dalla legge "per assicurare la fornitura di acqua
 di buona qualita'" (art. 26, primo  comma,  della  legge  n.  36  del
 1994),  non  adotti  tempestivamente  le misure idonee ad adeguare la
 qualita' dell'acqua o a prevenire il consumo o l'erogazione di  acqua
 non  idonea.  Si  e'  voluto  con  tale  norma escludere - portando a
 compimento l'intento gia' presumibilmente perseguito  con  precedenti
 analoghe   previsioni   di  decreti  legge  non  convertiti,  che  la
 giurisprudenza aveva pero' inteso come aggiuntive e  non  alternative
 alla  ipotesi  di illecito dell'art. 21 del d.P.R.  n. 236 del 1988 -
 la   sanzionabilita'   penale   del   responsabile   della   gestione
 dell'acquedotto  per  il  solo  fatto  che risulti comunque superato,
 nell'acqua erogata, taluno dei limiti di accettabilita' fissati dalla
 legge in adempimento della direttiva comunitaria n. 80/778, salva  la
 sola  gravosa dimostrazione del caso di forza maggiore, e cioe' della
 inesistenza  di  qualsiasi  negligenza  da  parte  del   responsabile
 medesimo.
   2. - La questione non e' fondata.
   La scelta effettuata dal legislatore nella sua discrezionalita' non
 appare  tale  da  varcare  i  limiti  della  ragionevolezza, cosi' da
 prestarsi a censura di incostituzionalita'. Essa infatti non comporta
 affatto, come invece sembra ritenere il giudice a quo, legittimazione
 ed avallo di comportamenti  negligenti  o  inadeguati  nell'esercizio
 delle  funzioni  proprie  del responsabile dell'acquedotto, ne' tanto
 meno il  venir  meno  degli  obblighi  di  esecuzione  dei  controlli
 gravanti  sull'ente  gestore;  comporta  solo  la delimitazione delle
 condotte suscettibili di dar luogo a responsabilita' penale in capo a
 determinate categorie di soggetti.
   La sanzione penale non e' l'unico strumento attraverso il quale  il
 legislatore    puo'    cercare    di   perseguire   la   effettivita'
 dell'imposizione di obblighi o di doveri, come quelli  inerenti  allo
 svolgimento di funzioni amministrative. Vi puo' essere uno spazio nel
 quale  tali  obblighi  e  doveri  sono  operanti, ma non assistiti da
 sanzione   penale,   bensi'   accompagnati   da   controlli   e    da
 responsabilita'  solo amministrative o politico-amministrative. Ed e'
 anzi rimesso alla  valutazione  discrezionale  del  legislatore,  nei
 limiti della ragionevolezza, valutare quando ed in quali limiti debba
 trovare  impiego  lo  strumento  della  sanzione  penale, che per sua
 natura costituisce extrema ratio, da riservare ai  casi  in  cui  non
 appaiano  efficaci  altri  strumenti  per  la tutela di beni ritenuti
 essenziali (cfr. ad es. sentenze n. 519 del 1995, n. 341 del 1994).
   Ora, tenendo conto sia  del  fatto  che  i  requisiti  di  qualita'
 dell'acqua  destinata  al  consumo umano sono espressi con molteplici
 parametri  di  accettabilita'  -  il  superamento,  anche  lieve,  di
 ciascuno dei quali da' luogo a scostamento dall'obbligo imposto dalla
 legge a tutela dei consumatori - sia della molteplicita' dei fattori,
 attinenti  alle  caratteristiche  tecniche  e  all'organizzazione del
 servizio di acquedotto, che possono dare luogo  a  tale  superamento,
 non  appare irragionevole la scelta del legislatore di delimitare nel
 modo che  si  e'  visto  l'ambito  delle  condotte  del  responsabile
 dell'acquedotto suscettibili di integrare l'illecito penale.
   3.  -  Non  si  puo'  dire  ingiustificata nemmeno la differenza di
 trattamento, agli effetti dell'applicabilita' delle  sanzioni  penali
 di  cui all'art.   21 del d.P.R. n. 236 del 1988, fra il responsabile
 della gestione di  un  acquedotto  ed  i  soggetti  privi  di  questa
 qualita',  ai  quali  si  continua  ad imputare il fatto in se' della
 fornitura di acqua per il consumo umano priva dei requisiti.
   E' palese infatti la specificita' della posizione di chi - come  il
 responsabile  della  gestione  di  un  acquedotto - e' preposto ad un
 servizio  stabile  di  erogazione  di  acqua  per  il  consumo  umano
 (servizio  essenziale  e dunque non facilmente suscettibile di essere
 interrotto o ridotto) che si esplica attraverso  l'attivita'  di  una
 complessa organizzazione tecnica e amministrativa.
   A  parte  il problema - al quale accenna dubitativamente il giudice
 remittente, e che va risolto in via interpretativa in  altra  sede  -
 della  possibilita',  delle  condizioni e dei limiti di una eventuale
 estensione della disciplina di cui alla  norma  denunciata  ad  altri
 soggetti   facenti   parte  della  organizzazione  dell'ente  gestore
 dell'acquedotto, appare evidente come il responsabile della  gestione
 non  possa  considerarsi senz'altro equiparabile, a questi effetti, a
 chi  in  contesti  assai  piu'  elementari  (come  i  titolari  delle
 attivita'  richiamate  nell'ordinanza di rimessione), fornisce per il
 consumo umano  acqua  diversa  da  quella  erogata  dal  servizio  di
 acquedotto, o a chi impiega acque non approvvigionate dall'acquedotto
 per la preparazione di prodotti destinati al consumo umano.
   Va  dunque  esclusa, sotto ogni profilo, la violazione dell'art.  3
 della Costituzione.
   4. - Va esclusa altresi' la fondatezza della censura di  violazione
 dell'art. 11 della Costituzione.
   La  direttiva  comunitaria  n.  80/778  del  15 luglio 1980, cui il
 d.P.R.  n. 236 del 1988 da' attuazione,  si  limita  a  stabilire  "i
 requisiti  delle acque destinate al consumo umano" (art. 1), fissando
 i parametri e i limiti che gli Stati membri  debbono  rispettare  nel
 determinare i valori applicabili a tali acque, ed a precisare che gli
 Stati  adottano  sia  "le  disposizioni necessarie affinche' le acque
 destinate  al  consumo  umano  siano  almeno  conformi  ai requisiti"
 specificati  in  allegato  (art.  7),  sia  tutte   le   disposizioni
 necessarie affinche' le sostanze utilizzate per la preparazione delle
 acque  destinate  a  tale  consumo non facciano sorgere rischi per la
 salute pubblica (art. 8), nonche' "tutte le  disposizioni  necessarie
 al  fine  di  assicurare  il  controllo regolare della qualita' delle
 acque destinate al consumo umano" (art.  12): tutti obblighi, come si
 vede, fondamentalmente di risultato, che gli Stati sono  impegnati  a
 rispettare,  rimanendo  liberi  nella scelta e nella disciplina degli
 strumenti.
   Ancora, gli artt. 9 e 10 della direttiva precisano le condizioni  e
 i  limiti delle possibili deroghe rispetto all'osservanza delle norme
 e dei parametri fissati, cosi' palesando che non ogni superamento  di
 questi  ultimi  viene  di  per  se'  considerato  tale  da mettere in
 concreto pericolo la salute dei consumatori, tanto  e'  vero  che  le
 deroghe,  permanenti  o  eccezionali,  che  possono  essere disposte,
 incontrano il limite di non poter mai comportare "un  rischio"  (art.
 9,  par.    3)  o un "rischio inaccettabile" (art. 10, par. 2) per la
 salute pubblica.
   In nessun caso la direttiva obbliga  gli  Stati  ad  utilizzare  la
 sanzione penale, e tanto meno ne definisce condizioni e limiti, cosi'
 che  il  ricorso  ad essa rimane affidato alle scelte del legislatore
 nazionale.
   Ne' certo si puo' dire che la esclusione in certi casi di  sanzioni
 penali   equivalga  a  esclusione  o  a  inefficacia  degli  obblighi
 previsti, tanto meno dunque a inattuazione da parte dello Stato degli
 obblighi ad esso imposti dalla norma comunitaria.
   E' dunque priva di rilievo  la  circostanza  che  la  delimitazione
 della responsabilita' penale dei gestori degli acquedotti, realizzata
 con  la  norma impugnata, non risponda alle condizioni previste dalla
 direttiva per la introduzione di deroghe ai limiti da essa fissati.
   La norma denunciata infatti non comporta, ne' consente, deroghe  od
 eccezioni  in ordine ai requisiti di qualita' delle acque erogate, ma
 si limita a definire l'ambito e le condizioni  della  sanzionabilita'
 penale delle condotte di determinate categorie di soggetti: e assenza
 di   sanzione  penale  -  deve  ribadirsi  -  non  significa  affatto
 inoperativita' o inefficacia dei  doveri  e  degli  obblighi  imposti
 dalla legge.
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  non  fondata  la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 26,  terzo  comma,  della  legge  5  gennaio  1994,  n.  36
 (Disposizioni   in   materia   di  risorse  idriche),  sollevata,  in
 riferimento agli artt.  3 e 11 della  Costituzione,  dal  pretore  di
 Rovigo con l'ordinanza indicata in epigrafe.
   Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 18 luglio 1996.
                         Il Presidente: Ferri
                          Il redattore: Onida
                       Il cancelliere: Di Paola
   Depositata in cancelleria il 26 luglio 1996.
               Il direttore della cancelleria: Di Paola
 96C1263