N. 1177 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 giugno 1996

                                N. 1177
  Ordinanza emessa il 21 giugno  1996  dal  tribunale  di  Pesaro  nel
 procedimento penale a carico di Pedinelli Alberto
 Processo  penale - Reati tributari - Competenza territoriale  - Luogo
    dell'accertamento penale sostanziale,  secondo  la  giurisprudenza
    della  Corte  di  cassazione  - Lamentata possibile determinazione
    rimessa alla indagine del p.m. o della polizia  giudiziaria  o  ai
    privati  denuncianti - Lesione dei principi di precostituzione per
    legge del giudice naturale  e  del  buon  andamento  dei  pubblici
    uffici - Violazione dei principi della legge di delega.
 (Legge 7 agosto 1982, n. 516, art. 11, secondo comma; legge 7 gennaio
    1929, n. 4, art. 21, terzo comma).
 (Cost.,  artt. 25, 76 e 97, in relazione alla legge 16 febbraio 1987,
    n. 81, dir. 13, dir. 14, dir. 15).
(GU n.44 del 30-10-1996 )
                             IL TRIBUNALE
   Ha pronunciato la seguente ordinanza nel proc. penale  iscritto  al
 n. 53/1996 r.g. trib. contro Pedinelli Alberto nato il 5 ottobre 1951
 a  Fano, residente a San Costanzo, viale della Liberta' n. 13, libero
 e contumace, difeso dall'avv. Claudia Falabella del foro  di  Pesaro,
 imputato:
     A)  del  reato  p.  e  p. dagli artt. 81 cpv. c.p., art. 1, primo
 comma, legge 7 agosto 1982, n. 516 e successive  modifiche  per  aver
 omesso  la  dichiarazione  I.V.A.  e  la  dichiarazione  dei  redditi
 relativamente al periodo di  imposta  1992  pur  essendovi  obbligato
 quale  esercente attivita' commerciale ed essendo di L. 1.405.837.286
 il volume di affari;
     B) del reato p. e p. dall'art. 1, secondo comma, lettera a) della
 legge 7  agosto  1982,  n.  516  e  successive  modifiche,  per  aver
 effettuato  negli  anni 1992-1993 cessioni di beni e/o prestazioni di
 servizio,   omettendo   di   annotare   nelle   scritture   contabili
 obbligatorie  ai fini delle imposte sui redditi, corrispettivi per L.
 1.405.837.286  (1992)  -  L.  1.500.336.376  (1993)  in  qualita'  di
 titolare della omonima ditta individuale;
     C)  della  contravv.ne  p.  e p. dagli artt. 71 cpv c.p., art. 1,
 secondo comma, lett. b) legge 7 agosto  1982,  n.  516  e  successive
 modifiche  per  aver  omesso  la  negli  anni  1992-1993 di emmettere
 fatture e/o di annotare nei registri prescritti ai fini  dell'imposta
 sul  valore  aggiunto  di  cui  all'art.  4,  primo  comma, lett. b),
 corrispettivi per L. 1.142.801.109 (1992) e L.  1.194.050.813  (1993)
 in qualita' di titolare dell'omonima ditta individuale;
     D)  del  reato  p. e p. dagli artt. 81, cpv c.p., e art. 1, sesto
 comma, legge 7 agosto 1982, n. 516 e  successive  modifiche  per  non
 aver  provveduto  alle prescritte vidimazioni e/o bollature del libro
 giornale e libro degli inventari, per piu' di due anni,  consecutivi,
 di  cui all'art. 14, primo comma, lett. a)  in relazione all'art.  22
 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per gli anni 1992, 1993 e 1994,
 in qualita' di titolare dell'omonima ditta individuale;
     E) del reato p. e p. dagli artt. 81 cpv c.p.,  e  art.  1,  sesto
 comma,  legge  7 agosto 1982, n. 516 e successive modifiche per avere
 tenuto irregolarmente le scritture  contabili  obbligatorie  ai  fini
 I.V.A.,  per  gli  anni  19921993-1994, inattendibili nel complesso a
 causa di irregolarita' gravi numerose  e  ripetute,  in  qualita'  di
 titolare  dell'omonima ditta individuale;
     F)  del  delitto  p. e p. dall'art. 4, primo comma, p. 2, legge 5
 agosto 1982, n. 516, per non aver conservato n. 28 fatture  alla  cui
 conservazione   era   obbligato,   in   modo  da  non  consentire  la
 ricostruzione del volume d'affari o dei redditi per l'anno  1992,  in
 qualita' di titolare dell'omonima ditta individuale;
     G)  del  reato p. e p. dagli artt. 81 cpv c.p., e art. 3, secondo
 comma, legge 7 agosto 1982, n. 516 e  successive  modifiche  per  non
 aver   annotato   nel   registro   di  carico  stampati,  negli  anni
 1992-1993-1994, seguenti bolle  di accompagnamento beni viaggianti  e
 precisamente:   anno 1992 n. 750; anno 1993 n. 850; anno 1994 n. 500;
 in qualita' di titolare dell'omonima ditta individuale;
     H) del reato p. e p. dall'art. 1,  primo  comma,  della  legge  7
 agosto  1982,  n.  516  e  successive  modifiche  per avere omesso la
 dichiarazione I.V.A. relativamente  al  periodo  d'imposta  1993  pur
 essendovi  obbligato quale esercente attivita' commerciale ed essendo
 di L. 1.500.336.376 il volume d'affari.
   Acc. in Ancona il 4 luglio 1994.
   Premesso che l'imputato ha formulato richiesta di  applicazione  di
 pena  ex    art.  444 c.p.p. ed il p.m. ha espresso il suo consenso e
 prodotto il suo  fascicolo,  va  anzitutto  osservato  che  anche  in
 presenza di un patteggiamento non viene meno l'obbligo del giudice di
 procedere,  anche  d'ufficio,  al controllo della propria competenza,
 controllo  che  peraltro  deve  avvenire  entro  lo  stesso   termine
 processuale fissato per l'istanza ex art. 444 c.p.p.
   Alla  stregua  dell'imputazione  cosi' come formulata (accertato in
 Ancona il 4 luglio 1994)  la  competenza  territoriale  apparterrebbe
 all'a.g.  di  Ancona,  dato che per i reati rubricati vale l'art. 11,
 secondo comma,  legge  n.  516/1982  che  attribuisce  la  competenza
 territoriale al giudice del luogo dell'accertamento.
   Per  conseguenza questo Tribunale dovrebbe dichiararsi incompetente
 ex artt. 21, secondo comma e 23 c.p.p.
   Peraltro  dal  fascicolo  del p.m. emerge con chiarezza che i reati
 rubricati ebbero ad essere rilevati, almeno in  parte,  all'esito  di
 una   verifica  fiscale  operata  presso  la  sede  dell'impresa  del
 prevenuto in San Costanzo e che  comunque  le  condotte  ascritte  al
 Pedinelli  si  collocano  tutte  nell'ambito  territoriale  di questo
 tribunale.
   Il luogo di accertamento emerge dunque dagli atti in modo dubbio  e
 contraddittorio,  sicche',  sempre  ai fini della competenza, l'esame
 degli atti andrebbe  approfondito  per  chiarire,  per  ogni  singolo
 reato,  il  luogo  in  cui  sono state acquisite le prove, come vuole
 l'odierno insegnamento della Cassazione.
   L'incertezza del criterio  pone  tuttavia  in  evidenza  la  dubbia
 validita'  operativa della normativa in vigore, vuoi sotto il profilo
 della chiarezza vuoi sotto il profilo della utilita', e suggerisce di
 valutarne  la  conformita',  nel  quadro  del   vigente   ordinamento
 processuale penale, ai principi costituzionali codificati negli artt.
 25, 76 e 97 della Costituzione.
   Trattasi  di  questione rilevante nel presente giudizio, come e' di
 tutta evidenza per  il  fatto  che  il  giudice  competente  verrebbe
 diversamente  definito  applicando  le  norme comuni sulla competenza
 territoriale.
   Trattasi inoltre di  questione  non  manifestante  infondata  sotto
 tutti e tre i profili accennati.
   In termini generali va subito rilevato che l'art. 11, secondo comma
 della  legge  n. 516/1982 e' comunemente ritenuto una norma meramente
 ripetitiva della regola dettata  dall'art.  21,  terzo  comma,  della
 legge 7 gennaio 1929 n. 4, tuttora in vigore, secondo cui per i reati
 finanziari la competenza per territorio e' determinata dal luogo dove
 il  reato  e'  accertato,  sicche'  ogni  valutazione di legittimita'
 costituzionale riferita alla seconda e successiva norma  della  legge
 n.  516/1982, da molti ritenuta sostanzialmente inutile, non puo' che
 riferirsi, automaticamente, anche alla prima.
   Del resto  sotto  il  profilo  logico  sistematico,  e'  proprio  e
 soltanto  nella  legge  n.  4 del 1929, rimasta immutata per oltre 50
 anni, che la deroga alle regole comuni sulla competenza  territoriale
 trova  la  sua  giustificazione,  giacche'  si  colloca,  come regola
 speciale, in un contesto in cui  l'intera  disciplina  sostanziale  e
 processuale  dei reati tributari era disegnata come disciplina sempre
 speciale rispetto a quella comune.
   Ed invero la legge del  1929  prevedeva,  accanto  a  numerosissime
 altre  norme  speciali,  un regime di accertamento unico e indistinto
 dell'illecito fiscale, penale o amministrativo che fosse, vuoi  nella
 forma,  disponendo  all'art.  24  che le violazioni di qualunque tipo
 delle norme contenute  nelle  leggi  finanziarie  fossero  constatate
 mediante  processo  verbale  (per  l'appunto  il  processo verbale di
 constatazione  che  riassumeva  in  unico  atto  tutti  gli  illeciti
 rilevati,  sia  come  violazioni  amministrative  che come violazioni
 penali), vuoi anche nella sostanza prevedendo all'art. 22 come  norma
 generale  che  il  giudice  penale  decidesse  anche  del quantum del
 tributo  ogni  volta  che  la  cognizione  del  reato  implicasse  la
 soluzione  di  una  controversia  concernente  il  tributo  stesso  e
 prevedendo invece, agli artt. 21, quarto comma e 60, nella  specifica
 materia  dei  tributi  diretti,  che  l'azione  penale  avesse  corso
 soltanto dopo che l'accertamento tributario fosse divenuto definitivo
 secondo le leggi regolanti la materia tributaria e cosi' dettando  la
 ben  nota  regola  della  pregiudiziale tributaria come pregiudiziale
 assolutamente devolutiva con  efficacia  vincolante  per  il  giudice
 penale.
   Nell'una    come   nell'altra   ipotesi,   dunque,   l'accertamento
 dell'illecito fiscale era unico e bivalente, agli effetti penali come
 agli effetti amministrativi. Trattandosi di  giudicare  di  un  unico
 accertamento  tributario,  gia'  formalizzato in apposito e specifico
 atto tributario (PVC), ne derivava come assolutamente  conseguenziale
 la  radicazione della competenza territoriale penale nel luogo stesso
 dell'accertamento tributario, in ragione della connessione  (o meglio
 dell'identificazione) probatoria riferita ad una situazione  unitaria
 e indistinta. E il PVC, come atto tipico di accertamento propriamente
 tributario,   seguiva   a   sua  volta  le  regole  della  competenza
 tributaria.
   Del resto, in quel sistema, il reato tributario non  consisteva  in
 una  qualche  specifica  condotta  materiale,  ma  si  concretava, di
 regola, in un risultato ed in  una  mera  valutazione  conclusiva  di
 evasione d'imposta ed il reato si identificava proprio nell'evasione.
 Questo  accadeva  sia  nei  reati  in  materia di II.DD. sia anche in
 quelli di contrabbando, sicche', vuoi che l'accertamento fosse  fatto
 dal  giudice  penale  (contrabbando),  vuoi  che  fosse fatto in sede
 specificamente  tributaria  (II.DD.),  si  trattava  pur  sempre   di
 compiere   un  unico  accertamento,  quello  tributario  di  avvenuta
 evasione d'imposta (anche come sottrazione all'imposizione  doganale)
 e  di  quantificarlo in termini propriamente tributari. Non a caso le
 relative  sanzioni,  amministrative  e  penali,   erano   di   regola
 proporzionali all'imposta evasa ovvero erano collegate ad una qualche
 soglia  minima di rilevanza penale, sicche' per l'accertamento penale
 occorreva quasi sempre compiere  o  recepire  anche  un  accertamento
 tributario   esteso   al   quantum   dell'imposta  evasa.  L'evasione
 d'imposta, come tale, non si consuma  in  nessun  luogo,  sicche'  e'
 giusto fare il processo non nel luogo dell'evasione (che non esiste),
 ma in quello dell'accertamento tributario.  Il sistema di repressione
 penale  dell'evasione  fiscale  era  dunque un sistema di repressione
 meramente amministrativa con effetti penali riflessi sicche' era  del
 tutto  ovvio che la prova fiscale influisse fortissimamente su quella
 penale.
   In questo sistema chiuso,  era  dunque  il  PVC  a  determinare  la
 competenza  territoriale  proprio  in  funzione  della  facilitazione
 probatoria che ne derivava:  la  prova  indistinta  penale-tributaria
 veniva  sottoposta  al  giudice  del  luogo  dove  la prova era stata
 formalmente  e  sostanzialmente  elaborata.   E   non   a   caso   la
 giurisprudenza  della  Corte di Cassazione ebbe a recepire pienamente
 questa tematica, elaborando e consolidando una giurisprudenza secondo
 cui  per  luogo  dell'accertamento  deve  intendersi   quello   della
 redazione  del  PVC e cio' in base alla obbligatoria correlazione fra
 gli artt. 21 e 24 della legge n. 4 del 1929  (Cfr.  per  tutti  Cass.
 Sez. I, 6 marzo 1974 in Foro Italiano 1975, II, 242).
   Nel   corso   degli   anni   il   regime   di   accertamento  unico
 penale-tributario  si  estese  e  si  rafforzo':   la   pregiudiziale
 tributaria  venne  estesa  ai reati in materia di I.V.A. e la riforma
 tributaria del 1972 ridisegno'  e  conservo'  i  reati  tributari  in
 materia   di  I.V.A.  e  di  II.DD.  come  reati  di  pura  evasione,
 qualificati dall'importo come emerge dalla lettura degli artt.  50  e
 58 d.P.R. n. 633/1972 e 56 d.P.R. n. 600/1973.
  Il  regime  dell'accertamento  degli  illeciti tributari restava pur
 sempre quello di cui all'art. 24 della legge n. 4/1929, che istituiva
 una sorta di foro erariale  privilegiato,  sicche'  quando  la  Corte
 costituzionale,   con  ordinanza  11  maggio  1971,  n.  105  ebbe  a
 dichiarare manifestamente  infondata  la  questione  di  legittimita'
 costituzionale  dell'art.  21,  terzo comma, della legge n. 4/1929 in
 riferimento all'art.  25, secondo comma, della Costituzione rilevando
 che la norma impugnata  "precostituisce  il  giudice  competente  per
 territorio... stabilendo che sia sempre quello del luogo ove il reato
 e'  accertato  e  non quello dove e' commesso", la pronuncia venne ad
 inserirsi con assoluta coerenza in un sistema in  cui  l'accertamento
 era tipico e formale (PVC) ed era, pertanto, sicuramente determinato.
 La   regola,   dunque,  aveva  senso  giuridico  e  conformita'  alla
 Costituzione solo in  un  regime  "basato  sull'indefettibile  previo
 intervento degli organi tributari" (Nobili).
   Da quel momento in avanti tutti i fondamenti del sistema sono stati
 scalzati    quasi   totalmente.   Demolita   dapprima   della   Corte
 costituzionale, la regola della pregiudiziale tributaria e' stata poi
 formalmente  abrogata  dall'art.  13   della   legge   n.   516/1982,
 definitivamente rimossa in ogni sua possibile ultrattivita' dall'art.
 246   att.   c.p.p.   e   da   altre  recenti  sentenze  della  Corte
 costituzionale. Sicche' per i reati  tributari  di  maggior  rilievo,
 quelli  I.V.A.  e II.DD., anche per espressa previsione dell'art. 13,
 quarto comma della legge n.   516/1982 che  li  esentava  dal  regime
 dell'art.   22   della   legge  n.  4/1929,  l'accertamento  unico  e
 polivalente penal-tributario e' venuto meno, da tempo.
   L'accertamento  penale  e  quello  tributario  sono   stati   cosi'
 nettamente  separati  e  la loro connessione probatoria e' stata resa
 meramente eventuale e quasi occasionale dall'art. 12 della  legge  n.
 516/1982.
   Contemporaneamente  venI.V.A.  disegnato  un nuovo sistema di reati
 tributari, quello della legge n. 516/1982 (ma anche  di  altre  norme
 speciali   in   materia  di  documentazione  tributaria),  nel  quale
 l'evasione fiscale non era piu' reato come  tale  e  venivano  invece
 repressi  penalmente  i  c.d.  comportamenti prodronici all'evasione,
 vuoi in  forma  contravvenzionale  (omissioni  rilevanti  come  tali,
 indipendentemente  dalle  intenzioni  dell'autore e dai loro effetti)
 vuoi, in forma di delitti (condotte materiali, qualificate  dal  dolo
 specifico    di   evasione   ma   rilevanti   indipendentemente   dal
 raggiungimento dello scopo).
   Cio' che  rileva  di  questa  vicenda  e'  che  i  reati  tributari
 diventano  sostanzialmente  reati  comuni,  variamente qualificati in
 linea soggettiva o oggettiva, ma comunque pienamente  assimilabili  a
 figure    criminose comunissime di falsita' documentale, ideologica o
 materiale, di frode, di omissione, ecc.
   Per tali reati (I.V.A.  e  II.DD.  nel  1982  vennero  dunque  meno
 entrambi i presupposti che fondavano la regola speciale di competenza
 e  cioe'  la  pregiuziale  tributaria  e  la  tipologia  del reato di
 evasione fiscale punito come tale. Eppure il  legislatore,  pur  dopo
 ampie   discussioni,   volle   conservare   la   speciale  competenza
 territoriale per il luogo di accertamento  formulando  in  tal  senso
 l'art.  11  della legge n.  516/1982 nell'assunto che fosse opportuno
 "non modificare la sperimentata disciplina". In verita' la disciplina
 non  era  affatto  sperimentata  giacche'  i  presupposti erano stati
 radicalmente e profondamente cambiati:  sicche' la giurisprudenza  si
 trovo'  essa  a  dover  "sperimentare"  la vecchia regola sulla nuova
 disciplina  sostanziale  nella  qualle  l'accertamento  tributario  e
 l'accertamento  penale  avevano ormai assunto oggetto e procedure ben
 diverse tra loro.
   Sorgono da questo momento i problemi di  raccordo  con  l'art.  25,
 primo comma, della Costituzione La giurisprudenza della Cassazione in
 sostanza  ebbe  a  risolvere il problema con una sorta di rivoluzione
 copernicana; nel regime precedente  come  si  e'  visto,  il  termine
 accertamento  significava anche formalmente, accertamento tributario.
 Nel  nuovo  sistema  questa  lettura  della  norma  sulla  competenza
 territoriale  del giudice penale era divenuta insostenibile, giacche'
 ormai l'accertamento tributario aveva oggetto e contenuti ben diversi
 da quello penale.
   Fu cosi' che la Cassazione provvide a sanare  la  falla  affermando
 che ormai per luogo di accertamento doveva intendersi non piu' quello
 dell'accertamento  tributario  formale,  ma  quello dell'accertamento
 penale  sostanziale.  Si  e'  cosi'   formata   e   consolidata   una
 giurisprudenza  che  afferma  che luogo dell'accertamento non e' gia'
 quello di redazione del PVC o di altri atti  formali  e  fiscali,  ma
 quello  dove  il  reato  e'  stato  scoperto  nella  sua materialita'
 raccogliendo la relative prove e cio' perche'  dal  diverso  criterio
 formale  (luogo  di redazione del PVC o di altri atti) deriverebbe un
 criterio non predeterminato, come tale incostituzionale  (Cass.  Sez.
 II, 27 maggio 1991 in Corr.  Trib. 1991, 2612). Nella stessa linea la
 giurisprudenza ha dovuto precisare che luogo dell'accertamento non e'
 quello  dove  siano  stati  raccolti meri e vaghi indizi di reato, ma
 soltanto quello in cui sono state raccolte prove di consistenza  tale
 da  legittimare  la  formale  elevazione di una imputazione (Cass. 15
 febbraio 1995 n. 5896 sul il Fisco n. 38/1995, p. 9380).
   In tal modo la giurisprudenza, senza accorgersene, ha introdotto un
 nuovo criterio determinativo  della  competenza,  di  pura  creazione
 giurisprudenziale,  ipotizzando  che  la competenza venga determinata
 anche dalla qualita' del reperto probatorio. A  questo  risultato  si
 pervenne  anche per superare i gravissimi problemi di elefantiasi dei
 processi  in  materia  di  emissione  e  utilizzazione  di  bolle  di
 accompagnamento  falsificate e di fatture per operazioni inesistenti.
 Alla stregua del filone giurisprudenziale che  individuava  il  luogo
 dell'accertamento in quello dove veniva acquisita la prova, occorreva
 infatti  accentrare  tutti  i processi nel luogo dove era avvenuta la
 "scoperta" dell'attivita' criminose documentale.
   La Cassazione risolse il problema affermando che il sequestro degli
 esemplari in possesso del solo emittente o del solo utilizzatore  non
 esauriva  l'accertamento del reato, dovendosi distinguere il reato di
 emissione da quello di utilizzazione sicche'  ciascuno  dei  suddetti
 reati   doveva   ritenersi   accertato  separatamente  nel  luogo  di
 rispettiva acquisizione della relativa bolla o fattura dell'emittente
 o  dell'utilizzatore  in  quanto   anteriormente   a   quel   momento
 sussistevano  (ad esempio a seguito del sequestro presso l'emittente)
 unicamente  meri  indizi  in  ordine  all'autonomo  reato  dell'altro
 soggetto   (ad   esempio   utilizzazione   mediante   allegazione  in
 contabilita').
   In   pratica  l'elaborazione  giurisprudenziale  fa  discendere  la
 competenza da un giudizio, squisitamente di merito, sulla qualita'  e
 sulla valenza probatoria dell'accertamento compiuto in un determinato
 luogo piuttosto che in un altro luogo.
   E,  coerentemente,  talune decisioni (cfr Cass., Sez. I, 7 dicembre
 1994  n.  5896)  pervengono  addirittura  ad  identificare  il  luogo
 dell'accertamento  in  quello in cui la condotta del contribuente, da
 sola, abbia fornito ad un qualsivoglia ufficio tributario  tutti  gli
 elementi  su cui si fonda l'imputazione, disegnando cosi una sorta di
 autoaccertamento  ineluttabilmente  concordante  con  il  luogo   del
 commesso reato.
   L'elaborazione giurisprudenziale dunque, come e' del tutto evidente
 in  materia di bolle e fatture, sta interpretando la regola del luogo
 dell'accertamento nel senso di farlo coincidere sempre  piu'  con  il
 luogo  del  commesso reato, sicche' in effetti, in quella materia, si
 e' gia' raggiunto lo stadio da una doppia competenza territoriale pur
 con accertamento sostanzialmente unico.
   Intervenne nel 1989 il nuovo codice di procedura penale,  che  ebbe
 ad  incidere  su  tutti  gli  aspetti  e  su  tutti  i  temi  fin qui
 illustrati.
   Al definitivo seppellimento della pregiuziale tributaria (art.  246
 att.  c.p.p.)  si  accompagno'  l'eliminazione  di   ogni   rilevanza
 processual-penale del PVC per il  combinato disposto dagli artt.  331
 ss.  c.p. e 207 att., acclarato che l'art. 221 att. c.p.p. non vale a
 far salvo il PVC come  atto  processuale  penale,  si  ritiene  ormai
 comunemente,  anche nella prassi di polizia tributaria, che l'art. 24
 della legge n. 4/1929 valga ed operi ormai soltanto per gli  illeciti
 amministrativi.
   Sempre  ad  opera delle disposizioni di attuazione del c.p.p., deve
 intendersi ormai abrogato anche l'art.  22  della  legge  n.  4/1929:
 esso,  invero,  attribuisce  una  competenza diretta ed aggiuntiva al
 giudice penale in materia di imposte, sicche' non vale  a  far  salva
 quella  competenza  ne'  l'art.  246  att.  che  e'  norma  meramente
 transitoria applicabile ai soli giudizi in corso  nell'ottobre  1989,
 ne'  l'art.   210 che riguarda solo le sanzioni accessorie e non puo'
 riguardare  le  imposte,  sicche'  la  materia  e'   ormai   regolata
 direttamente  ed  esclusivamente  dall'art. 2 c.p.p. D'altro canto la
 giurisprudenza della Cassazione di recente e' pervenuta a riconoscere
 l'abrogazione dell'art. 12 della legge n. 516/1982, sicche' ben  puo'
 dirsi  che  il  nuovo  c.p.p. ha ricondotta il regime processuale dei
 reati tributari nell'ambito delle regole comuni, eccezion  fatta  per
 la   regola   sulla   competenza   territoriale,  le  cui  fondamenta
 (pregiudiziale tributaria, PVC, art. 22) sono state tutte  montate  e
 caducate.
   Il  legislatore  delegato,  tuttavia,  con  l'art.  210  disp. att.
 c.p.p., ha fatto salva anche questa speciale norma  sulla  competenza
 territoriale   che  e'  ormai  soltanto  un  reperto  di  archeologia
 giuridica e  non  piu'  l'espressione  di  un  sistema  di  procedura
 speciale.
   Privata delle sue radici, la norma mostra ormai tutti i suoi limiti
 di legittimita' costituzionale.
   Difatti  nel  nuovo  sistema  processuale, il p.m. e' autorizzato a
 ricercare di sua iniziativa la notitia criminis, sicche'  l'attivita'
 di  "accertamento",  che  determina la competenza del giudice, e' del
 tutto priva di vincoli anche territoriali. L'attivita' d'indagine del
 P.M.   peraltro,  non  e'  libera  o  facoltativa,  ma  e'  attivita'
 d'indagine, obbligata per regola  costituzionale  di  obbligatorieta'
 dell'azione penale.
   In   questo  sistema  se  la  competenza  territoriale  non  deriva
 automaticamente o direttamente dal fatto-reato, ma  unicamente  dallo
 sviluppo   delle   indagini,   che   la   creano   artificialmente  e
 mediatamente, succede  inevitabilmente  che  la  scelta  del  giudice
 competente  derivi  solo  formalmente da criteri fissati dalla legge,
 ma,  in  concreto,  sia  determinata  dal  P.M.   o   dalla   polizia
 giudiziaria,  nel  senso  che  la competenza territoriale si muove al
 seguito della loro capacita' investigativa,  ovvero  addirittura  sia
 determinata  dal  privato-denunciante  che  possieda prove decisive e
 che, scegliendosi il P.M., per suo tramite e' in grado  di  scegliere
 anche il giudice.
   In tal modo, come del resto accade nella realta' di tutti i giorni,
 il  giudice  non  e'  precostituito per legge, prima del reato, ma e'
 costituito  dopo  il  reato,  dall'opera  degli  organi   processuali
 inquirenti o dei privati denuncianti.
   Ed  in  ogni caso la posizione tipica del giudice (quella della sua
 competenza) non preesiste in astratto, ma e' determinata in  concreto
 dall'attivita' dell'organo di accusa, ovvero, in teoria, dallo stesso
 imputato (si faccia l'ipotesi di autodenuncia con prove assolutamente
 esaurienti).
   D'altronde,  a  ben  vedere,  e'  la  stessa storia della norma che
 evidenzia al suo interno una contraddizione insaziabile  giacche'  un
 criterio,  precostituito per 1egge, dovrebbe restare immutato finche'
 non muta la legge non puo' dirsi invece sufficientemente  determinato
 quando consente, come e' accaduto nella specie, che la giurisprudenza
 capovolga  il  significato  della  formula sostituendo ad una nozione
 formale-tributaria (PVC) una nozione procedurale  di  diritto  penale
 (raccolta di prova penali), ferma restando la definizione legale.
   La  verita'  e'  che  il  criterio  del  luogo  di accertamento era
 determinato conforme alla previsione costituzionale quando quel luogo
 non era una nozione spaziale, ma una nozione  legale,  anch'essa  ben
 determinata, all'interno di un sistema.
   Quel  criterio  oggi  non  e' piu' precostituito per legge, proprio
 perche' la legge che lo fondava (artt. 21, 22 e  24  della  legge  n.
 4/1929)  e' stata interamente abrogata: esso pertanto e' diventato un
 criterio aleatorio e mutevole, affidato alla giurisprudenza del  caso
 singolo, pur in presenza di reati di natura identica a quelli comuni.
   Si   impone   pertanto  di  rimettere  al  vaglio  della  Corte  la
 valutazione della conformita' di tale criterio alle regola  dell'art.
 25,  primo  comma:  invero i criteri generali di determinazione della
 competenza territoriale per i reati tributari, non paiono essere piu'
 criteri generali fissati in anticipo; in particolare si rileva che la
 situazione "teorica" di competenza prima  del  reato,  evidenzia  una
 alternativa  fra tutti i giudici della Repubblica, alternativa che si
 risolve, dopo il reato, in base  a  scelte  discrezionali  operate  a
 posteriori  da  organi  dello stesso potere giudiziario   (cfr. Corte
 cost. 12 giugno 1992 n. 269). Il dubbio attiene inoltre ai  contenuti
 dalla  precostituzione intesa come competenza fissata "immediatamente
 ed esclusivamente dalla legge" come  la  giurisprudenza  della  Corte
 ebbe a lumeggiare fin dalla sentenza n. 88/1962.
   In  relazione  all'art.  97,  primo  comma, della Costituzione, che
 vuole che i pubblici uffici siano, per legge, organizzati in modo  da
 garantire  il  buon  andamento,  non  si  puo'  non  rilevare  che il
 riferimento  al  luogo  dell'accertamento,  il  cui   fondamento   e'
 comunemente  indicato nella facilitazione della prova processuale che
 ne deriverebbe, si pone in quasi automatico conflitto con le esigenze
 probatorie  che  necessariamente  si   localizzano   nel   luogo   di
 commissione  del reato, come quotidianamente si rileva ogni volta che
 ci si imbatte in una prova storica (ad esempio sulla collocazione  di
 determinati   beni   dei   quali  si  assume  l'inesistenza)  ovvero,
 sistematicamente, quando la competenza territoriale viene  ad  essere
 concentrata  e  correlata  alla  collocazione  dei  Centri di Servizi
 destinatari di dichiarazioni fiscali,  giacche'  il  "foro  erariale"
 cosi' determinato si appalesa straordinariamente e contemporaneamente
 nocivo,  sia  per la p.a. fiscale, sia per gli organi giudiziali, sia
 per i testimoni sia infine anche per gli imputati, tutti lontani.  Ma
 le norme in esame presentano profili di sospetta inconstituzionalita'
 anche sotto ulteriori profili, trattandosi di norme delegate soggette
 alla regola di cui all'art.  76 della Costituzione.
   La  Corte costituzionale ebbe gia' ad escludere che l'art. 210 att.
 c.p.p. nella parte in cui conserva le previgenti regole di competenza
 per materia per i reati tributari, sia in contrasto con la  direttiva
 della legge delega in tale materia, nell'assunto che quella direttiva
 non  contenga  alcun  criterio, implicito o esplicita, di abrogazione
 delle norme speciali.
   Rilevava la Corte che il  broccardo  lex  posterior  generalis  non
 derogat priori speciali che pure non ha valore assoluto, realizza pur
 sempre una presunzione interpretativa superabile soltanto in presenza
 di  chiari  argomenti  in  senso  contrario (Corte costituzionale, 22
 gennaio 1992 n. 41).
   Riguardo  alla  competenza  territoriale  nel   nuovo   c.p.p.   il
 legislatore  detto'  le  direttive  13,  14  e  15  prevedendo che la
 competenza  per  territorio  potesse  essere  stabilita,  per   reati
 determinati,  in relazione al luogo in cui l'azione ha avuto inizio o
 si e' esaurita l'azione o l'omissione e che, in tema di  connessione,
 restasse  esclusa  ogni  discrezionalita'  nella  determinazione  del
 giudice  competente,  seppure  in  vincoli  maggiori  pur   la   fase
 dibattimentale rispetto alla fase delle indagini.
   In  attuazione  di  tala direttiva, il legislatore delegato ebbe ad
 escludere positivamente ed espressamente ogni caso di rilevanza della
 connessione probatoria sulla competenza  conservandola  tuttavia  con
 una  certa  larghezza  (371 primo e secondo comma c.p.p.) per la fase
 delle indagini, proprio sul rilievo (Relazione)  che  la  connessione
 probatoria   lasciava   troppa   discrezionalita'  al  giudice  nella
 determinazione della competenza stessa.
   Orbene, raffrontando la situazione sopra descritta a tali principi,
 appare di tutta evidenza che il regime della competenza  territoriale
 per  i  reati  tributari mal si concilia con siffatte regole di fondo
 del nuovo processo, perche' la norma  sui  reati  tributari  ipotizza
 ancora una connessione probatoria idonea a spostare la competenza sol
 perche'  nel disegno del legislatore del 1929 la prova fiscale doveva
 comunque influire sulla prova penale. Sicche' la speciale  competenza
 territoriale   per   i  reati  tributari  costituisce  ormai  l'unica
 competenza fissata per una "connessione" non piu' esistente e non per
 la  natura  propria  del reato, come voleva la direttiva 13 e cio' in
 contrasto con l'autonomia ormai raggiunta da quasi tutte le figure di
 reati fiscali rispetto all'accertamento tributario.
   Orbene, il rispetto dei principi fissati con la legge delega  opera
 certamente  anche  per  la  norme  di  coordinamento  dato  il valore
 costituzionale dei primi, e la legge delegata  non  puo'  operare  in
 contrasto  con la legge di delegazione (Corte cost. sent. 24/1959; n.
 28/1961).  Il dubbio che si pone al Tribunale  -  e  che  non  appare
 manifestamente   infondato   -  e'  se  il  legislatore  delegato  al
 coordinamento  fosse  autorizzato  a  conservare   una   ipotesi   di
 competenza   territoriale   cosi'  palesamente  contrastante  con  le
 direttive  dettate  in  tema  di  restrizione  della  competenza  per
 connessione,  vuoi  perche'  si  tratta  di  norma  che  determina la
 competenza  penale  per  una  connessione  probatoria,  ormai  sempre
 inesistente,  con  le questioni tributarie, vuoi, soprattutto perche'
 pur volendosi annullare, in generale a  garanzia  di  principi,  ogni
 discrezionalita'   del   giudice   in   tema   di   competenza,  tale
 discrezionalita' si e' conservata e si  e'  esaltata  addirittura  in
 capo al p.m.
   In conclusione, la esigenza di parificazione e di "normalizzazione"
 della  competenza  territoriale  per  i  reati    tributari, parrebbe
 derivare univocamente sia dalla  regola  dell'art.  25,  primo  comma
 della Costituzione sia dalla regola di buon andamento di cui all'art.
 97  della  Costituzione  sia  dai  principi  dettati  dal legislatore
 delegante  per il nuovo c.p.p. e risulterebbe assolutamente  coerente
 al  sistema  penale  tributario quale ormai da tempo  viene disegnato
 dal legislatore verso regole  comuni  a  tutti  gli  altri  reati  in
 autonomia dalle regole proprie del  diritto tributario.
                                P. Q. M.
   Visto  l'art.  23  della  legge  11  marzo  1953  n. 87, sospeso il
 giudizio in corso, dichiara rilevante e non manifestamente  infondata
 la  questione  di legittimita' costituzionale degli artt. 11, secondo
 comma della legge n. 516/1982 e 21, terzo comma della legge n. 4/1929
 in riferimento agli artt. 25, primo comma,  76  e  97,  primo  comma,
 della  Costituzione  e  dispone la trasmissione degli atti alla Corte
 costituzionale per la risoluzione della questione;
   Dispone, inoltre  che  la  presente  ordinanza  sia  notificata  al
 Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri  e comunicata ai Presidenti
 della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
     Pesaro, addi' 21 giugno 1996
                         Il presidente: Casula
 96C1609