N. 1182 ORDINANZA (Atto di promovimento) 3 febbraio - 24 settembre 1996

                                N. 1182
  Ordinanza   emessa   il   3  febbraio  1996  (pervenuta  alla  Corte
 costituzionale  il  24  settembre  1996)  dal  pretore  di  Roma  nel
 procedimento penale a carico di Carraro Franco ed altri
 Ambiente  (tutela  dell')  -  Inquinamento  -  Scarichi  di pubbliche
    fognature senza autorizzazione ed  eccedenti  i  limiti  tabellari
    previsti  dalla  legge  n.  319/1976 e dalla normativa regionale -
    Lamentata depenalizzazione - Disparita'  di  trattamento  rispetto
    alla  disciplina  relativa  agli  scarichi di singoli insediamenti
    produttivi nonche' rispetto ad ipotesi meno gravi, ma  punite  con
    maggiore   severita'   -  Violazione  dei  principi  della  tutela
    dell'ambiente e della salute, di liberta' di iniziativa  economica
    e di norme C.E.E. (direttiva n. 271/1991).
 (D.-L.  17  marzo  1995,  n.  79, artt. 3 e 6, comma 2, convertito in
    legge 17 maggio 1995, n. 172).
 (Cost., artt. 3, 9, 10, 25, 32, 41 e 77).
(GU n.44 del 30-10-1996 )
                              IL PRETORE
   All'odierno  dibattimento  il  p.m.  ha  sollevato   questione   di
 legittimita'  costituzionale  degli  artt.  3 e 6, comma secondo, del
 decreto-legge n. 79/1995, convertito nella legge 17 maggio  1995,  n.
 172, in relazione agli artt. 3, 10, 25, 77, 9, comma secondo, 32 e 41
 della Costituzione.
   Lo  stesso  p.m.  aveva, in data 12 dicembre 1994, proposto analoga
 questione  in  relazione  agli  artt.  3  e  6,  comma  secondo,  del
 decreto-legge  n.  629/1994  ed  il  pretore, in conformita' a quanto
 richiesto  dall'ufficio  del  p.m.,  aveva  sollevato  eccezione   di
 incostituzionalita'  con  riguardo  alla  formulazione  dell'art. 21,
 primo e terzo comma, della legge 10 maggio 1976, n. 319, per  effetto
 del   decreto-legge   n.   629/1994,   allora  in  vigore.  La  Corte
 costituzionale non ha potuto prendere in  considerazione  l'eccezione
 sollevata    a    causa   dell'intervenuta   decadenza   del   citato
 decreto-legge.
   Il decreto n. 79/1995 e' stato convertito  nella  legge  17  maggio
 1995,  la quale ha introdotto norme sostanzialmente analoghe a quelle
 della cui legittimita' costituzionale si e' dubitato nella precedente
 ordinanza di rimessione alla Corte.
   Sulla base, infatti,  della  nuova  formulazione  del  terzo  comma
 dell'art.    21,  legge  10  maggio  1976,  n.  319, quale introdotta
 dall'art.  3  del  decreto  convertito  nella  legge   n.   172/1995,
 l'inosservanza  dei  limiti  di  accettabilita'  di  cui alle tabelle
 allegate alla legge n. 319/1976, e' sanzionata  penalmente  solo  con
 riferimento  agli scarichi provenienti da insediamenti produttivi. La
 stessa fattispecie e', invece, con riferimento  agli  scarichi  delle
 pubbliche  fognature,  quali  sono quelli oggetto del procedimento in
 esame, punita solo con sanzione amministrativa, a meno che non  siano
 superati  i  limiti di accettabilita' inderogabili per i parametri di
 natura tossica, persistente e bioaccumulabile di cui  al  n.  4)  del
 documento   unito   alla  delibera  30  dicembre  1980  del  Comitato
 interministeriale istituito in base alla legge Merli.
   Analogamente, con il secondo comma dell'art.  6  del  decreto-legge
 convertito  e'  stato  aggiunto,  cosi'  come  operato dal precedente
 decreto oggetto della eccezione di incostituzionalita', un  ulteriore
 comma  all'art.  21  della  legge n. 319/1976, alla stregua del quale
 l'effettuazione di scarichi di pubbliche fognature senza aver chiesto
 l'autorizzazione  integra  un   mero   illecito   amministrativo,   a
 differenza  di  quanto  previsto  per  gli  scarichi  da insediamenti
 produttivi dai primi due commi  dell'art.    21,  lasciati  immutati.
 Pertanto  possono  essere integralmente ribadite le considerazioni in
 ordine ai diversi  profili  di  illegittimita'  costituzionale,  gia'
 prospettate  dal  p.m. e condivise dal pretore di Roma nell'ordinanza
 del 12 dicembre 1994  e  riproposte  dal  medesimo  p.m.  all'odierno
 dibattimento.
   Questo  pretore  ritiene, infatti, che la questione sia rilevante e
 non manifestamente infondata.
   Quanto alla rilevanza si osserva che gli imputati sono stati tratti
 a giudizio per la violazione degli artt. 21,  primo  e  terzo  comma,
 della   legge   n.   319/1976,   la   cui   applicazione  condurrebbe
 necessariamente ad una pronuncia di proscioglimento perche'  i  fatti
 contestati  non sono piu' previsti dalla legge come reato, risultando
 le imputazioni indicate dai capi 1 a 79 depenalizzate dal citato art.
 3 e l'imputazione di cui al capo 80 depenalizzata dall'art. 6.
   Con riferimento alla valutazione della non manifesta  infondatezza,
 in   conformita'   con   le   argomentazioni  svolte  dal  p.m.,  che
 sostanzialmente si riportano, si rileva quanto segue.
   1. - Violazione dell'art. 3 della Costituzione.
   Si osserva nuovamente che nel contesto sanzionatorio della legge n.
 319/1976, per come si delineava prima delle modifiche definitivamente
 apportate con l'art. 3 della legge n. 172/1995, il reato piu' grave e
 significativo era quello previsto dal terzo comma dell'art. 21  della
 legge.  Tale  normativa,  anche alla luce della sentenza n. 1766/1993
 delle s.u. della cassazione, era applicabile a  tutti  gli  scarichi,
 quale che ne fosse la provenienza.
   Ebbene,  se  puo' essere ritenuto ragionevole l'intento legislativo
 di sanzionare solo amministrativamente gli  scarichi  provenienti  da
 insediamenti  civili,  (potendosi  presumere  che  gli  stessi  siano
 normalmente caratterizzati da un carico  inquinante  minore  rispetto
 agli scarichi degli insediamenti produttivi e quindi meno dannosi per
 l'ambiente), non altrettanto puo' dirsi con riferimento agli scarichi
 delle  pubbliche  fognature. Infatti a queste ultime possono affluire
 anche scarichi provenienti da  insediamenti  produttivi,  (evenienza,
 questa,  disciplinata  gia'  nel  corpo normativo della legge Merli e
 poi, sotto il profilo piu' squisitamente tecnico, dalla  delibera  30
 dicembre  1980  del  Comitato  interministeriale  per la tutela delle
 acque dall'inquinamento e, recentemente, dalla direttiva Cee  n.  271
 del  21  maggio  1991),  per cui non e' possibile fondare un giudizio
 preventivo e generale di minor pericolosita'.
   Alla stregua della disciplina sanzionatoria  ormai  definitivamente
 introdotta,  dunque,  mentre  l'esercizio  di  un  singolo scarico da
 insediamento produttivo, in violazione  delle  tabelle  di  cui  alla
 legge  n.  319/1976,  viene  sanzionato  penalmente  anche qualora il
 superamento dei limiti sia  modesto,  costituisce  semplice  illecito
 ammnistrativo  l'esercizio  dello  scarico  di una pubblica fognatura
 alla quale  affluisce  una  pluralita'  di  scarichi  provenienti  da
 insediamenti produttivi, anche qualora lo scarico terminale superi in
 maniera  rilevante i limiti tabellari ed apporti, quindi, un concreto
 nocumento alla situazione ambientale.
   Il permanente rilievo penale attribuito agli scarichi, anche  delle
 pubbliche  fognature,  qualora  vengano superati i limiti di cui alla
 cd. "lista nera" della Cee costituisce, rispetto al  decreto  oggetto
 della  precedente  eccezione,  una  novita'  del tutto insufficiente.
 Tali parametri, infatti,  possono  essere  superati  da  uno  scarico
 fognario  solo  quando  nello stesso confluiscono scarichi produttivi
 con notevole potenzialita' inquinante e  cioe'  quegli  scarichi  che
 sono  gli  unici  ad  utilizzare le sostanze di cui alla lista e che,
 peraltro, proprio in ragione di tale potenzialita',  non  vengono  di
 solito addotti in pubbliche fognature.
   La nuova previsione normativa fonda, pertanto, ancora una volta, la
 differenzazione della disciplina sanzionatoria non gia', come sarebbe
 ragionevole,  sulla  potenzialita'  inquinante,  (sia pure presunta),
 degli scarichi e quindi  sulla  gravita'  del  fatto,  ma  in  ultima
 analisi   sulla   qualifica   del  soggetto  titolare  dello  scarico
 terminale, (imprenditore ovvero amministrazione pubblica).
   Anzi, nella nuova legge si rinviene un'esplicita conferma  di  tale
 assunto  nella  previsione  di cui all'ultimo periodo del terzo comma
 dell'art. 21 della legge n. 319/1976, (modificato dall'art.  3  della
 legge n. 172/1995), dove e' inserita una causa di non punibilita' per
 quei  "pubblici  amministratori  che  alla data di accertamento della
 violazione dispongano di progetti esecutivi cantierabili  finalizzati
 alla depurazione delle acque".
   Il  sospetto  di  violazione  dell'art. 3 della Costituzione appare
 sotto tale profilo non manifestamente infondato,  tanto  piu'  se  si
 considera  che  la  giurisprudenza  e'  ormai  da tempo pacificamente
 orientata  nel  senso  di  ritenere  preminente,  nell'ambito   della
 verifica  volta  ad individuare la disciplina normativa concretamente
 applicabile al singolo scarico, la valutazione delle  caratteristiche
 effettive  dello  scarico  stesso  e non gia' l'accertamento circa la
 relativa provenienza (cfr. ss.uu. 16 novembre 1987, Ciardi; sez. VI 2
 ottobre 1992, n. 9619; sez. III 206091, n. 6846).
   Ma ancora piu' corposo  si  manifesta  il  sospetto  di  violazione
 dell'art.    3  della  Costituzione,  ove  si  confronti  la condotta
 depenalizzata dalla legge n. 172/1995 con  quella  dalla  stessa  non
 modificata,   (nonostante   il   lungo  periodo  di  tempo  trascorso
 dall'emanazione del primo decreto-legge in questa materia),  prevista
 dall'art.  23,  primo  comma  della legge n. 319/1976 per la quale e'
 prevista la pena dell'ammenda fino a 5 milioni.  Tale  ultima  norma,
 infatti,  prevede  la suddetta sanzione per "chiunque apre o comunque
 effettua nuovi scarichi prima che l'autorizzazione da  lui  richiesta
 nelle  forme prescritte sia stata concessa". Ne deriva la paradossale
 conseguenza che una condotta in concreto inquinante  come  quella  di
 effettuare  scarichi  di  pubbliche  fognature  superando i limiti di
 tollerabilita' e' punita con una mera sanzione amministrativa, mentre
 una violazione formale, quale quella di aver  attivato  uno  scarico,
 (non  necessariamente  inquinante),  prima che l'autorizzazione, gia'
 richiesta, sia  stata  rilasciata,  costituisce  una  fattispecie  di
 rilievo penale.
   Ed   ancora  la  violazione  dell'art.  3  della  Costituzione  per
 disparita' di trattamento si rileva dal  confronto  tra  il  disposto
 dell'art.  23, primo comma e l'ultimo comma dell'art. 21, della legge
 n.  319/1976,  introdotto  dall'art. 6, secondo comma, della legge di
 conversione.  Infatti, con tale disposizione e'  stata  depenalizzata
 la  condotta  costituita  dall'effettuazione  di scarichi civili o di
 pubbliche fognature senza aver  richiesto  l'autorizzazione,  con  la
 conseguenza  che  e'  penalmente sanzionata la condotta di chi attivi
 uno   scarico   di   pubblica   fognatura,   prima    del    rilascio
 dell'autorizzazione    richiesta,    mentre    costituisce   illecito
 amminiistrativo la condotta, certamente piu' grave, di chi attivi  lo
 scarico   senza   neppure   richiedere  l'autorizzazione  stessa.  Il
 paradosso normativo e' ancora piu' evidente laddove si consideri che,
 essendo rimasta inalterata la previsione  di  cui  al  secondo  comma
 dell'art.  23  della legge n. 319/1976, (secondo il quale nel caso in
 cui l'autorizzazione richiesta non venga  concessa  si  applicano  il
 primo  ed il terzo comma dell'art. 21), l'esercizio dello scarico con
 autorizzazione richiesta e non concessa  viene  punito  con  la  pena
 alternativa  dell'arresto  o dell'ammenda, mentre rimane sempre nella
 sfera dell'illecito amministrativo l'esercizio  dello  scarico,  che,
 non  essendo  mai  stata richiesta alcuna autorizzazione, e' sfuggito
 totalmente  al   controllo   dell'autorita'   titolare   del   potere
 autorizzatorio.
   La  violazione  del  limite della ragionevolezza appare ancora piu'
 evidente alla luce della  seguente  considerazione.  L'art.  3  della
 legge n. 172/1995 prevede il pagamento di una somma da L. 3.000.000 a
 L.  30.000.000 per l'inosservanza dei limiti di accettabilita' di cui
 all'art. 21, terzo  comma  della  legge  n.  319/1976;  quindi,  (con
 riferimento   al   decreto   di   citazione   emesso   nel   presente
 procedimento), tale sarebbe la sanzione applicabile per  79  scarichi
 di pubbliche fognature siti nel comune di Roma per i quali, accertato
 il  loro carattere inquinante, e' stato contestato il superamento dei
 limiti tabellari, con riguardo a parametri diversi rispetto a  quelli
 di  natura  tossica  persistente  e  bioaccumulabile.  L'art.  6 (con
 l'introduzione di un nuovo ultimo comma all'art. 21  della  legge  n.
 319/1976),   prevede  invece  la  diversa  e  maggiore  sanzione  del
 pagamento di una somma da L. 10.000.000 a  L.  100.000.000  "per  chi
 apre  o  comunque  effettua  scarichi  ...  delle pubbliche fognature
 servite o meno da impianti pubblici di  depurazione  ...  senza  aver
 richiesto   l'autorizzazione";   con   riferimento  alle  imputazioni
 contestate, tale maggiore sanzione sarebbe applicabile per i fatti di
 cui al capo 80 dell'imputazione, riferito a n. 6 scarichi nuovi per i
 quali  si  e'   contestata   soltanto   la   mancata   richiesta   di
 autorizzazione.    Ne    consegue,    ed    in    cio'   si   ravvisa
 l'irragionevolezza,    che    viene    punito    piu'     severamente
 l'amministratore pubblico che non chiede l'autorizzazione quando deve
 consentire  l'apertura di un nuovo scarico fognario, (che potrebbe in
 ipotesi non avere carattere inquinante), rispetto  all'amministratore
 che,  indipendentemente  dalla  richiesta  di  autorizzazione dispone
 l'effettuazione di uno scarico fognario sicuramente inquinante.
   La disparita' di trattamento e l'incoerenza logica che derivano  da
 tale    situazione    non    possono    rinvenire   alcuna   adeguata
 giustificazione, atteso che, come ha rilevato la Corte costituzionale
 (sent. n. 7/1963), il principio di uguaglianza rimane preservato solo
 laddove le disparita' di trattamento legislativamente contemplate  si
 fondino su presupposti logici obiettivi e su esigenze concrete.
   2.   -  Violazione  degli  artt.  9,  secondo  comma,  e  32  della
 Costituzione.
   Come e' noto secondo la giurisprudenza costituzionale  il  concetto
 di  paesaggio deve intendersi nell'accezione di "ambiente naturale" e
 quindi di ecosistema. Pertanto la mancata  previsione  di  una  norma
 penale  che  sanzioni  comportamenti  profondamente  incidenti  sulla
 qualita' dell'ambiente, come l'effettuazione di scarichi di pubbliche
 fognature che superino i limiti di  accettabilita',  o  l'attivazione
 dei   predetti   scarichi   senza   avere   richiesto  la  preventiva
 autorizzazione, determina una diminuzione dell'efficacia preventiva e
 dissuasiva della  disciplina  di  cui  si  tratta.  Tale  disciplina,
 inoltre,  poiche'  non  differenzia  il  trattamento  sanzionatorio a
 secondo della natura  delle  acque  che  recapitino  nelle  pubbliche
 fognature,  e,  quindi  in  base  alla  loro  effettiva potenzialita'
 inquinante, ma solo in base al dato formale  della  provenienza,  (da
 insediamento  produttivo  o  da  pubbliche  fognature),  non permette
 un'adeguata e sostanziale  tutela  del  paesaggio.  Da  quanto  sopra
 esposto deriva anche il sospetto di contrasto tra le norme indicate e
 l'art.  32  della  costituzione  che  tutela  il  diritto alla salute
 giacche'  tale  diritto  ricomprende  per   costante   giurisprudenza
 costituzionale  il  diritto  all'ambiente  salubre.  Il  diritto alla
 salute cosi' inteso non puo'  certo  essere  adeguatamente  tutelato,
 allorquando  il legislatore, oltre a non fissare limiti certi per gli
 scarichi provenienti da pubbliche fognature, (si  vedano  infatti  le
 nuove norme che rimettono alla discrezionalita' delle singole regioni
 la   fissazione   dei  limiti  di  accettabilita'  per  le  pubbliche
 fognature), costruisce la tutela preventiva e l'intervento repressivo
 senza alcun riguardo alla potenzialita' nociva dello scarico, ma solo
 alla titolarita' dello stesso.
   3. - Violazione dell'art. 10 della Costituzione.
   Un altro sospetto di incostituzionalita' delle norme sopra indicate
 sorge  sotto  il  profilo della loro mancata conformazione alle norme
 adottate in sede comunitaria in materia di acque reflue urbane con la
 direttiva Cee n. 271 del 21 maggio 1991 in quanto norme cui il nostro
 ordinamento giuridico e' tenuto costituzionalmente ad  uniformarsi  e
 che,  ai sensi della predetta direttiva, avrebbe gia' dovuto recepire
 dal 30 giugno 1993.
   In particolare l'art. 2 della direttiva pone una netta  distinzione
 nell'ambito delle acque reflue urbane, tra le acque reflue domestiche
 e  le acque reflue industriali. A tale distinzione, determinata dalla
 diversa capacita' inquinante dei due generi di  acque,  e'  collegata
 una  diversa  disciplina  fondata  sulla  necessita',  per  le  acque
 industriali che affluiscono in reti fognarie, di regolamentazioni  ed
 autorizzazioni  specifiche nonche' di specifici controlli (artt. 11 e
 13). Inoltre,  la  direttiva  Cee  stabilisce,  al  fine  di  evitare
 negative  conseguenze  sull'ambiente, specifici requisiti per le sole
 acque reflue industriali che confluiscono  in  reti  fognarie  e  non
 invece  per  le  acque reflue domestiche che hanno il medesimo sbocco
 (allegato  1  C).  Pertanto,  poiche'  nell'ambito  della   normativa
 comunitaria  la  natura  delle acque che confluiscono nelle pubbliche
 fognature rappresenta elemento qualificante ai fini  della  normativa
 che  ne  regolamenta  lo  scarico,  deve  concludersi  che  l'attuale
 disciplina statuale, (quale emerge dagli artt. 3 e 6,  secondo  comma
 della  legge  n.  172/1995),  in quanto prescinde completamente dalla
 considerazione   dell'elemento   discriminante   dinanzi    indicato,
 riservando   un  identico  trattamento  sanzionatorio  per  qualsiasi
 scarico nelle pubbliche fognature, quale  che  sia  la  natura  delle
 acque  che  in  esse  affluiscono,  e'  in  evidente contrasto con la
 direttiva comunitaria.
   Del resto il legislatore appare ben consapevole del  contrasto  tra
 la  disciplina  introdotta  e  quella  comunitaria,  in  quanto si e'
 preoccupato  di  precisare,  all'art.  1,  quarto  comma,   che   "le
 disposizioni  del  presente decreto (rectius: legge), si applicano in
 attesa dell'attuazione della direttiva Cee del 21  maggio  1991".  Al
 riguardo  si  deve  osservare  che  tale  attuazione doveva avvenire,
 secondo la legge comunitaria 1993, (legge 22 febbraio 1994, n.  146),
 entro  marzo  1995.  E'  particolarmente grave che lo Stato italiano,
 gia' due volte condannato dalla Corte europea  di  giustizia  per  la
 permissivita'  del sistema autorizzatorio e per l'inadeguatezza delle
 sanzioni contemplate dall'art. 22 della legge Merli (Corte di  giust.
 28  febbraio 1991 e 13 dicembre 1990), ed ormai inadempiente rispetto
 al termine previsto per l'adeguamento della normativa nazionale  alla
 direttiva  Cee  n.  271  del 21 maggio 1991, continui a legiferare in
 contrasto con la predetta disciplina.  Peraltro, cio' accade  in  una
 situazione   in   cui   la   costante   giurisprudenza   della  Corte
 costituzionale  afferma  che  tutti  i  soggetti  competenti  a  dare
 esecuzione  alle  leggi  sono giuridicamente tenuti a disapplicare le
 norme interne incompatibili con la normativa comunitaria direttamente
 applicabile nell'ordinamento interno, (Corte cost. 11 luglio 1989, n.
 389).
   4. - Violazione dell'art. 41 della Costituzione.
   Un  ulteriore  sospetto  di  incostituzionalita'  si  individua nel
 contrasto tra le disposizioni di cui agli artt. 3 e 6, secondo comma,
 del decreto convertito e l'art. 41 della Costituzione. A tale  ultima
 norma,  che  vieta  iniziative  economiche  private "in contrasto con
 l'utilita'  sociale",  viene  generalmente  ricondotto,  al  fine  di
 fornirgli veste costituzionale, il principio comunitario, espresso in
 numerose  direttive in materia ambientale, del "chi inquina paga". In
 proposito e' da ricordare la sentenza della Corte  costituzionale  n.
 127  del  16  marzo 1990, la quale ha negato che il "costo eccessivo"
 possa giustificare la mancata adozione, da parte delle imprese, delle
 migliori tecnologie disponibili per ridurre le emissioni  inquinanti.
 Ebbene  e'  evidente  che  le  citate  norme  del decreto convertito,
 laddove escludono, in via generale, la sanzionabilita' penale per gli
 scarichi delle pubbliche fognature, pur se  agli  stessi  affluiscono
 scarichi  di insediamenti produttivi, vengono di fatto a penalizzare,
 anche sul piano della libera concorrenza, quelle imprese che, servite
 da scarichi  che  non  recapitano  in  pubbliche  fognature,  abbiano
 affrontato rilevanti investimenti per adeguare i propri impianti alla
 normativa  in  vigore  e  si  trovino magari esposte al rischio della
 sanzione penale  (art.  23,  della  legge  n.  319/1976),  per  avere
 iniziato    l'attivita'   prima   di   avere   formalmente   ottenuto
 l'autorizzazione richiesta.
   5. - Violazione degli artt. 25 e 77 della Costituzione.
   Il principio della riserva di legge  in  materia  penale  possiede,
 quale  primo  e  fondamentale significato, quello secondo il quale le
 scelte di politica criminale sono monopolio esclusivo del Parlamento.
 L'ammissibilita' che nuove norme di diritto penale  siano  introdotte
 attraverso  decreti-legge  o  decreti  legislativi  e'  connessa alla
 circostanza che, in entrambi i casi si  realizzi  e  sia  assicurato,
 comunque, l'intervento del Parlamento in posizione sovraordinata, ora
 quale  organo  delegante,  (art.  76  della  Costituzione), ora quale
 organo  cui  e'  rimesso  il  potere  di   conferire   stabilita'   e
 durevolezza,  attraverso  la  legge  di  conversione,  a disposizioni
 normative precarie e soggette a decadenza in caso di inutile  decorso
 del tempo del termine di 60 giorni dettato dall'art. 77, ultimo comma
 della Costituzione.
   Nel  caso  di  specie,  attraverso  la  reiterazione  a  catena  di
 decreti-legge non convertiti disciplinanti l'identica materia  penale
 si  e'  di  fatto  realizzata  la sottrazione al Parlamento della sua
 esclusiva   competenza   a   disporre   in   materia   penale,    con
 l'inammissibile  assunzione  da  parte  dell'esecutivo  del  relativo
 potere di bilanciamento e  di  valutazione  degli  interessi  che  in
 materia  penale  e'  di  esclusiva competenza dell'organo assembleare
 rappresentativo della sovranita' popolare.
   Come gia' esposto dal pretore di Roma nella precedente ordinanza di
 rimessione alla Corte, e' opportuno evidenziare come, in seguito alla
 reiterazione dei decreti nella stessa materia protratta per oltre  un
 anno,  si possono determinare effetti definitivi, quale il giudicato,
 non modificabili in sede giudiziaria, con la  conseguente  gravissima
 compressione dei diritti dei singoli, resa ancora piu' incisiva dalla
 disparita'   di   trattamento   che   potrebbe  verificarsi  ove  due
 fattispecie identiche, ma giudicate sotto la vigenza  di  un  diverso
 decreto legge, vengano diversamente giudicate.
   Va  ulteriormente osservato che la reiterazione a catena, per oltre
 un anno, di diversi decreti-legge in relazione alla  stessa  materia,
 denota  in  modo palese la carenza dei requisiti della "necessita' ed
 urgenza" indicati dall'art. 77,  secondo  comma  della  Costituzione.
 Tali  requisiti,  infatti,  se  potevano  ipotizzarsi  come esistenti
 rispetto al primo dei decreti, sono certamente venuti meno ad un anno
 di distanza e cioe' dopo un periodo di tempo tale  da  consentire  la
 normale legiferazione del Parlamento in via ordinaria.
   Tutte  le  considerazioni  sopra svolte con riguardo al sospetto di
 incostituzionalita' per contrasto con la norma  di  cui  all'art.  77
 della Costituzione devono essere reiterate anche con riferimento alla
 legge  di  conversione che ha recepito il d.-l. 17 marzo 1995, n. 79,
 apportandovi solo alcune modifiche. Cio' in quanto,  con  la  recente
 sentenza  n.  29 del 27 gennaio 1995 la Corte costituzionale, mutando
 giurisprudenza riguardo al passato, ha statuito che "la pre-esistenza
 di una situazione di fatto comportante la necessita' e  l'urgenza  di
 provvedere  tramite  l'utilizzazione  di  uno  strumento eccezionale,
 quale  il  decreto  legge,  costituisce  un  requisito  di  validita'
 costituzionale  del  predetto  atto, di modo che l'eventuale evidente
 mancanza di quel presupposto configura tanto un vizio di legittimita'
 costituzionale del decreto-legge, in ipotesi  adottato  al  di  fuori
 dell'ambito   delle   possibilita'   applicative   costituzionalmente
 previste, quanto  un  vizio  in  procedendo  della  stessa  legge  di
 conversione,  avendo  quest'ultima,  nel  caso  ipotizzato,  valutato
 erroneamente l'esistenza dei  presupposti  di  validita'  in  realta'
 insussistenti  e,  quindi, convertito in legge un atto che non poteva
 essere legittimo oggetto di conversione".
   Pertanto la Corte ha affermato la sindacabilita' dei presupposti di
 necessita' ed  urgenza  anche  nell'ambito  dell'esame  condotto  con
 riferimento alla legge di conversione.
                                P. Q. M.
   Dichiara  rilevante  e non manifestamente infondata la questione di
 costituzionalita' degli artt. 3 e 6, secondo comma, del decreto-legge
 n. 79/1995, convertito  nella  legge  17  maggio  1995,  n.  172,  in
 relazione agli artt. 3, 9, 10, 25, 32, 41 e 77 della Costituzione;
   Ordina  la sospensione del giudizio in corso disponendo l'immediata
 trasmissione degli atti alla Corte  costituzionale;
   Manda alla cancelleria per la notifica della presente ordinanza  al
 Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri e   per la comunicazione al
 Presidente della Camera dei deputati e al Presidente del Senato della
 Repubblica.
     Roma, addi' 3 febbraio 1996
                         Il pretore: Pedrelli
 96C1614