N. 355 SENTENZA 14 - 22 ottobre 1996

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Miniere,  cave  e  torbiere  - Regione Lazio - Coltivazione - Vincoli
 ambientali imposti successivamente al legittimo inizio dell'attivita'
 estrattiva  -  Prosecuzione  della  coltivazione  con   l'onere   per
 l'interessato  di presentazione di un progetto corredato dallo studio
 di  impatto  ambientale  -  Rilascio  del   nulla   osta   da   parte
 dell'autorita' competente della gestione del vincolo - Legittimazione
 per  il  passato  di  un'attivita' sanzionata penalmente da una legge
 dello Stato  -  Erroneita'  delle  premesse  interpretative  poste  a
 fondamento della questione - Non fondatezza.
 
 (Legge regione Lazio 5 maggio 1993, n. 27, art. 39, commi 4 e 5).
 
 (Cost., artt. 25 e 117).
(GU n.44 del 30-10-1996 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
  Presidente: prof. Enzo Cheli;
  Giudici: dott. Renato GRANATA,   prof.  Giuliano  VASSALLI,    prof.
 Francesco   GUIZZI,      prof.  Cesare  MIRABELLI,    prof.  Fernando
 SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,  dott. Cesare RUPERTO,  prof. Gustavo
 ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA,  prof. Carlo MEZZANOTTE;
 ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 39, commi  4  e
 5, della legge della Regione Lazio 5 maggio 1993, n. 27 (Norme per la
 coltivazione delle cave e torbiere della Regione Lazio), promosso con
 ordinanza   emessa  il  28  giugno  1995  dal  pretore  di  Roma  nel
 procedimento  penale  a carico di Piero Mantoni ed altro, iscritta al
 n. 602 del  registro  ordinanze  1995  e  pubblicata  nella  Gazzetta
 Ufficiale  della  Repubblica  n.  41, prima serie speciale, dell'anno
 1995;
   Udito nella camera di consiglio  del  29  maggio  1996  il  giudice
 relatore Carlo Mezzanotte.
 Ritenuto in fatto
   Nel  corso  del  procedimento  penale  nei confronti di due persone
 imputate, tra l'altro, della contravvenzione di cui  agli  artt.  110
 del  codice  penale  e  1-sexies  del  d.-l.  25  giugno 1985, n. 312
 (Disposizioni  urgenti  per  la  tutela  delle  zone  di  particolare
 interesse  ambientale),  aggiunto dalla legge di conversione 8 agosto
 1985, n. 431, per avere intrapreso e condotto un'attivita' di cava in
 un territorio sottoposto a  vincolo  paesaggistico,  ai  sensi  della
 legge  n.  431  del  1985,  in  quanto  zona  dichiarata  di notevole
 interesse pubblico e ricompresa  nel  comprensorio  della  Valle  del
 Tevere, il pretore di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 25
 e  117  della  Costituzione, questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 39, commi 4 e 5, della legge della Regione Lazio  5  maggio
 1993,  n.  27  (Norme per la coltivazione delle cave e torbiere della
 Regione Lazio).
   Tale legge, nel dettare  una  nuova  disciplina  dell'attivita'  di
 coltivazione  delle  cave,  prevede  un  regime  transitorio  per  le
 attivita' di cava in corso al momento della entrata in  vigore  della
 legge  stessa, e stabilisce, all'art. 39, comma 4, che in presenza di
 vincoli ambientali imposti successivamente al legittimo inizio  della
 attivita'  estrattiva,  i  lavori di coltivazione possano proseguire,
 restando, pero', a carico dell'esercente l'onere di presentare  entro
 novanta   giorni,  all'autorita'  competente  in  materia  di  tutela
 ambientale, un progetto corredato dallo studio di impatto ambientale.
 Per l'ipotesi  di  mancato  rilascio  del  nulla-osta  dell'autorita'
 competente  entro centottanta giorni dalla richiesta, il quinto comma
 dello stesso articolo prevede che i lavori di coltivazione delle cave
 debbano cessare e che  l'interessato  sia  tenuto  alla  sistemazione
 dell'area.
   Il giudice a quo, quanto alla rilevanza della questione, afferma di
 dover  dare  applicazione alle disposizioni ora indicate, sia perche'
 l'attivita'  di   cavazione   dovrebbe   ritenersi,   nella   specie,
 legittimamente   iniziata   prima   della   imposizione  del  vincolo
 paesaggistico,   avvenuta    attraverso    l'inserimento    dell'area
 interessata  nel  comprensorio  della  Valle  del Tevere, sia perche'
 sarebbe stata tempestivamente proposta l'istanza di cui  al  comma  4
 del  citato  art.  39,  sulla quale la Regione si e' poi riservata di
 provvedere,  in  attesa  del  parere  della   commissione   regionale
 consultiva,  ritenendo  comunque  sospeso  il  termine di centottanta
 giorni previsto dall'art. 39,  comma  5.  Dall'applicazione  di  tali
 disposizioni,  ad  avviso  del  giudice  remittente, discenderebbe la
 liceita' della prosecuzione dell'attivita'  e  risulterebbe  preclusa
 qualsiasi  valutazione di compromissione ambientale, in contrasto con
 l'interpretazione delle sezioni  unite  della  Corte  di  cassazione,
 secondo  la  quale,  viceversa,  spetterebbe al giudice accertare, ai
 fini della sussistenza del reato di cui all'art. 1-sexies, se  sia  o
 meno  gia'  avvenuta  una  compromissione dell'ambiente e si sia gia'
 verificato un danno ambientale.
   Ne'  la  rilevanza della questione potrebbe ritenersi esclusa sulla
 base del rilievo che sulla istanza presentata dall'imputato  non  sia
 ancora  intervenuto  un provvedimento della Regione; un provvedimento
 di diniego renderebbe illecita la prosecuzione dei lavori de  futuro,
 ma  non  anche  dei  lavori  pregressi, dei quali si controverte, che
 risulterebbero dalla  norma  stessa  retroattivamente  autorizzati  e
 quindi resi leciti.
   Quanto  alla  non  manifesta infondatezza, il giudice a quo osserva
 che le disposizioni impugnate, proprio  perche'  renderebbero  lecite
 condotte   sanzionate   penalmente  dalla  legislazione  statale,  si
 porrebbero in contrasto con la previsione generale di cui agli  artt.
 117  e  25,  secondo  comma,  della Costituzione, per i quali solo lo
 Stato puo' legiferare in materia penale.
                        Considerato in diritto
   1. - Il pretore di Roma dubita della  legittimita'  costituzionale,
 in  riferimento agli artt. 25 e 117 della Costituzione, dell'art.  39
 della legge della Regione Lazio 5 maggio 1993, n. 27  (Norme  per  la
 coltivazione  delle  cave  e  delle torbiere della Regione Lazio), il
 quale  prevede  che,  in  presenza  di  vincoli  ambientali   imposti
 successivamente  al  legittimo  inizio  dell'attivita'  estrattiva, i
 lavori di coltivazione proseguano, restando a carico dell'interessato
 l'onere di presentare  all'autorita'  competente  alla  gestione  del
 vincolo,  entro  il  termine di novanta giorni dall'entrata in vigore
 della legge, un progetto corredato dallo studio di impatto ambientale
 (comma 4), e che, solo in caso di  mancato  rilascio  del  nulla-osta
 entro   centottanta  giorni  dalla  richiesta,  i  lavori  cessino  e
 l'interessato provveda alla sistemazione dell'area (comma 5).
   Ad avviso del giudice a quo, le disposizioni censurate,  in  quanto
 riferibili  a  vincoli paesaggistici imposti prima della loro entrata
 in vigore, sarebbero lesive degli artt. 25 e 117 della  Costituzione,
 poiche'  renderebbero  lecita  per il passato un'attivita' sanzionata
 penalmente dalla legge dello Stato (art. 1-sexies del d.-l. 25 giugno
 1985, n. 312, aggiunto dalla legge di conversione 8 agosto  1985,  n.
 431).
   2.   -  La  questione  e'  infondata,  perche'  muove  da  premesse
 interpretative che non possono essere a pieno condivise.
   L'ordinanza di rimessione si  basa,  in  punto  di  diritto,  sulla
 sentenza  delle sezioni unite della Corte di cassazione 7 marzo 1992,
 Midolini, il cui contenuto viene inteso nel senso che,  in  relazione
 ad  attivita'  di  coltivazione di cava legittimamente iniziata prima
 della entrata in vigore della legge n. 431 del 1985, o comunque prima
 della  imposizione  di  un  vincolo   paesaggistico,   e   proseguita
 successivamente,   il  giudice  dovrebbe  accertare,  ai  fini  della
 sussistenza del reato di cui all'art.  1-sexies del d.-l.  25  giugno
 1985,  n. 312, aggiunto dalla legge n.  431 del 1985, se vi sia stata
 o meno compromissione ambientale. Da una simile premessa  l'ordinanza
 trae   la   conseguenza   che  la  legge  regionale,  consentendo  la
 prosecuzione dell'attivita'  estrattiva  fino  al  completamento  del
 complesso  procedimento  in  essa  previsto,  violerebbe  la  riserva
 statale in  materia  penale,  poiche'  precluderebbe  al  giudice  la
 valutazione che la legge gli affida.
   Come  si e' detto, pero', tali interpretazioni della sentenza delle
 sezioni unite e della legge regionale, date dal giudice  a  quo,  non
 appaiono esatte.
   La   Corte   di  cassazione,  nella  sentenza  del  7  marzo  1992,
 nell'affrontare il problema derivante dalla assenza di una disciplina
 transitoria per l'ipotesi di vincoli  paesaggistici  sopravvenuti  al
 legittimo  inizio di attivita' di cavazione, lo ha risolto sulla base
 della netta distinzione tra lavori autorizzati ma non ancora iniziati
 e  lavori  autorizzati  e  gia'  iniziati.  In  relazione  ai  primi,
 l'imposizione  del  vincolo  preclude  la possibilita' di dare inizio
 all'attivita'  prima  di  una  specifica  autorizzazione  proveniente
 dall'autorita'  preposta  alla  tutela del paesaggio; in relazione ai
 secondi, il sopravvenire del vincolo non determina, ipso iure, ne' la
 caducazione del  provvedimento  autorizzatorio  gia'  assentito,  ne'
 l'illiceita'  della prosecuzione dell'attivita' di cavazione. In tali
 casi,  infatti,  la  valutazione  se  la  prosecuzione   dei   lavori
 legittimamente  iniziati  possa  determinare l'aggravarsi di un danno
 ambientale non puo' che essere rimessa alla pubblica amministrazione,
 che e' dotata dei poteri di sospensione dei lavori e di revoca  delle
 autorizzazioni.
   Secondo  la  sentenza  richiamata  dal giudice a quo, discernere se
 l'attivita'  gia'  compiuta  al  sopravvenire   del   vincolo   abbia
 determinato un pregiudizio irreversibile del bene protetto, ovvero se
 questo  possa subire danni ulteriori, non e' compito che si addica al
 giudice,  in  considerazione  della  molteplicita'  degli   interessi
 coinvolti e della esigenza di certezza, particolarmente stringente in
 materia  penale.  Ed  in  effetti, il compito del giudice penale deve
 essere limitato all'accertamento, ancorato ad un parametro preciso ed
 oggettivo, se, nel momento in cui il vincolo paesaggistico e' entrato
 in vigore, vi sia gia' stata  una  reale  e  rilevante  modificazione
 dell'ambiente.      L'ulteriore  valutazione  della  incidenza  della
 prosecuzione dei lavori di cavazione sul paesaggio e la scelta  degli
 strumenti  piu'  appropriati di salvaguardia oltrepassa la competenza
 del giudice penale  ed  investe  appieno  i  poteri  e  i  doveri  di
 ponderazione  propri  dell'amministrazione  preposta  alla tutela del
 vincolo ambientale.
   L'anzidetto criterio di ripartizione delle competenze  tra  giudice
 penale e pubblica amministrazione, appare a questa Corte ragionevole,
 pur     nella     consapevolezza    dell'esistenza    di    indirizzi
 giurisprudenziali differen-ziati. Si versa, infatti, in  una  materia
 in  cui  la  gia'  avvenuta  alterazione  dell'ambiente nel legittimo
 esercizio di un'attivita' produttiva, richiede, proprio  al  fine  di
 una  migliore  tutela  dell'ambiente  stesso, strumenti di intervento
 flessibili ed adeguati (quali ad esempio  la  temporanea  sospensione
 dei  lavori,  ovvero  l'adozione  di  prescrizioni  puntuali  tese ad
 alleviare l'impatto delle opere, ovvero ancora  la  revoca  immediata
 nei  casi  in  cui  appaia  piu'  manifesto  l'aggravarsi  del  danno
 all'ambiente), dei quali il giudice penale non dispone.
   Peraltro, affinche' tale riparto  di  compiti  e  funzioni  risulti
 equilibrato   e   conforme   all'assetto   dell'insieme   dei  valori
 costituzionali coinvolti (certezza delle fattispecie  incriminatrici,
 contenimento della discrezionalita' del giudice penale in presenza di
 valutazioni  complesse,  ma  anche  tutela  efficace  del paesaggio e
 dell'ambiente  a  fronte  di  un  legittimo  esercizio  di  attivita'
 economiche),   la   pubblica  amministrazione  e'  costituzionalmente
 vincolata,  al di la' della disciplina posta dalle leggi che regolano
 in via  generale  i  procedimenti  di  controllo,  ad  impiegare  con
 prontezza  e  sollecitudine  tutti  gli  strumenti  repressivi  e  di
 salvaguardia dei quali dispone, quando se ne  ravvisi  la  necessita'
 (v., ad esempio, art. 8 della legge n.  1497 del 1939).
   3.  -  La  legge  regionale,  di cui si controverte, innova occorre
 sottolinearlo una precedente legge della  stessa  Regione,  che  gia'
 prevedeva,  ai  fini dell'autorizzazione dell'attivita' di cavazione,
 uno  scrutinio,  da  parte  dell'amministrazione,   circa   l'impatto
 ambientale  e  paesaggistico di tale attivita' (legge reg. 16 gennaio
 1980, n.   1, Norme per la coltivazione  di  cave  e  torbiere  nella
 Regione Lazio).
   L'impugnato  art.  39  della  legge  regionale  n. 27 del 1993, nel
 regolamentare,  nell'ambito  di  una  disciplina  complessiva   della
 coltivazione  delle cave, un procedimento finalizzato all'adozione di
 un eventuale provvedimento di revoca, per  il  caso  che  un  vincolo
 ambientale  sia  stato  imposto  successivamente  al legittimo inizio
 dell'attivita' (provvedimento che puo' intervenire anche nelle  forme
 del    silenzio-diniego,    trascorsi    centottanta   giorni   dalla
 presentazione della domanda da parte dell'interessato), altro non  fa
 se  non  organizzare  il  doveroso  esercizio  delle competenze della
 Regione nella materia interessata dal vincolo. Non si tratta, quindi,
 di una legge regionale di sanatoria indiscriminata, volta  a  rendere
 retroattivamente  lecite  condotte  penalmente  sanzionate, in quanto
 presupposto delle fattispecie da essa regolate e' il legittimo inizio
 dell'attivita' di cavazione, da intendersi, pero', lo  si  e'  detto,
 come  gia'  intervenuta  e rilevante modificazione dell'ambiente, che
 segna  il  discrimine   tra   valutazione   rimessa   alla   pubblica
 amministrazione competente e illecito penale.
   In  considerazione  dei fondamentali valori coinvolti nella materia
 disciplinata dalle disposizioni censurate, si deve  sottolineare,  da
 una  parte,  che  la  legge regionale non fa venir meno i concorrenti
 poteri di  salvaguardia  e  di  tutela  del  paesaggio  che  spettano
 comunque  alla  Regione,  e, dall'altra, che, essendo il procedimento
 ordinato secondo scansioni temporali rigorose, lo spirare del termine
 stabilito  per  il  suo  compimento  comporta  il  formarsi   di   un
 provvedimento di diniego e, nell'ipotesi del protrarsi dell'attivita'
 di cavazione, la sicura configurabilita' del reato previsto dall'art.
 1-sexies  del  decreto-legge n. 312 del 1985, aggiunto dalla legge di
 conversione n. 431 del 1985.
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara non fondata la questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  39,  commi 4 e 5, della legge della Regione Lazio 5 maggio
 1993, n. 27 (Norme per la coltivazione delle cave  e  delle  torbiere
 della  Regione  Lazio), sollevata, in riferimento agli artt. 25 e 117
 della Costituzione, dal pretore di Roma con l'ordinanza  indicata  in
 epigrafe.
   Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 14 ottobre 1996.
                          Il Presidente: Cheli
                        Il redattore: Mezzanotte
                        Il cancelliere: Di Paola
   Depositata in cancelleria il 22 ottobre 1996.
                Il direttore della cancelleria: Di Paola
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