N. 356 SENTENZA 14 - 22 ottobre 1996

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Commercio  -  Inosservanza  delle  norme in materia di etichettatura,
 presentazione e pubblicita' dei prodotti alimentari  -  Induzione  in
 errore   dell'acquirente   sulle   caratteristiche   del  prodotto  -
 Trattamento  sanzionatorio  penale  e   amministrativo   -   Presunta
 determinazione  dell'abrogazione implicita per incompatibilita' della
 fattispecie  contravvenzionale  -  Esigenza   di   riferimento   alla
 giurisprudenza comune e a quella prevalente della Corte di cassazione
 - Improprio tentativo di ottenere dalla Corte costituzionale l'avallo
 a  favore  di  un interpretazione contro un'altra interpretazione con
 indifferenza  in  ordine  alla  difesa  dei  principi  e delle regole
 costituzionali - Inammissibilita'.
 
 (D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 109, artt. 18, comma 2, e 29, comma 2).
 
 (Cost., art. 76).
(GU n.44 del 30-10-1996 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
  Presidente: avv. Mauro FERRI;
  Giudici:  prof.  Luigi  MENGONI,  prof.  Enzo  CHELI,   dott. Renato
 GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI,   prof. Francesco  GUIZZI,    prof.
 Cesare  MIRABELLI,    prof. Fernando SANTOSUOSSO,  avv. Massimo VARI,
 dott.   Cesare RUPERTO,   dott.  Riccardo  CHIEPPA,    prof.  Gustavo
 ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA,  prof. Carlo MEZZANOTTE;
 ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel  giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 18, comma 2,
 e 29, comma 2, del d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 109  (Attuazione  delle
 direttive  89/395/CEE  e  89/396/CEE  concernenti l'etichettatura, la
 presentazione e la pubblicita' dei prodotti alimentari), promosso con
 ordinanza emessa il 7  ottobre  1995  dal  giudice  per  le  indagini
 preliminari  presso  la  Pretura  di  Asti  nel procedimento penale a
 carico di Dinaro Vincenzo, iscritta al n. 926 del registro  ordinanze
 1995  e  pubblicata  nella  Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3,
 prima serie speciale, dell'anno 1996;
   Udito nella camera di consiglio  del  10  luglio  1996  il  giudice
 relatore Gustavo Zagrebelsky.
                           Ritenuto in fatto
   1.  -  Nel corso di un procedimento penale a carico di un soggetto,
 indagato della contravvenzione di cui  all'art.  13  della  legge  30
 aprile  1962,  n.  283  -  per  avere,  nella qualita' di titolare di
 esercizio commerciale,  posto  in  vendita  arance  con  "l'impropria
 denominazione  di  biologiche, tale da sorprendere la buona fede e da
 indurre in errore gli acquirenti circa la loro qualita'" - il giudice
 per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale  di  Asti
 solleva,  in riferimento all'art. 76 della Costituzione, questione di
 legittimita' costituzionale degli artt. 18, comma 2, e 29,  comma  2,
 del  d.lgs.    27  gennaio  1992,  n. 109 (Attuazione delle direttive
 89/395/   CEE   e   89/396/CEE   concernenti   l'etichettatura,    la
 presentazione e la pubblicita' dei prodotti alimentari), "nella parte
 in  cui abrogano (parzialmente) l'art. 13 della legge 30 aprile 1962,
 n. 283, in contrasto con l'art.  2, punto d), della legge 29 dicembre
 1990, n. 428".
   Il  giudice  rimettente riferisce, in fatto, che presso l'esercizio
 commerciale era stato prelevato un campione  di  arance,  esposte  in
 vendita con un cartello collocato nella vetrina e recante la dicitura
 "arance  biologiche  di  produzione  propria",  e che all'analisi era
 stata evidenziata la presenza nell'alimento di residui  di  imazalil,
 principio  attivo ad azione fungicida, in concentrazione superiore al
 limite (0,010 mg/Kg) tollerato dall'ordinanza ministeriale 18  luglio
 1990 e successive modificazioni.
   Ravvisata  quindi la configurabilita' del reato di cui all'art.  13
 citato, il giudice a quo dubita della vigenza della  suddetta  norma,
 dal  momento che il decreto legislativo n. 109 del 1992 ha introdotto
 una fattispecie di illecito amministrativo (artt. 2, comma 1,  e  18,
 comma 2) "che pare adattarsi perfettamente" all'ipotesi sottoposta al
 suo  esame. Infatti di tale decreto l'art. 2, comma 1, stabilisce che
 "l'etichettatura, la presentazione  e  la  pubblicita'  dei  prodotti
 alimentari   non   devono   indurre   in  errore  l'acquirente  sulle
 caratteristiche del  prodotto"  (tali  essendo,  in  particolare,  la
 natura,  l'identita',  la qualita', la composizione, la quantita', la
 durabilita', il luogo  di  origine  o  di  provenienza,  il  modo  di
 ottenimento  o  di  fabbricazione del prodotto) e l'art. 18, comma 2,
 punisce con una sanzione amministrativa pecuniaria  (da  lire  1,5  a
 lire 9 milioni) la violazione di quel precetto.
   Ritiene,  quindi,  che  il  contestato  reato dovrebbe essere ormai
 depenalizzato   perche'   sostituito   con    la    nuova    sanzione
 amministrativa, nonostante che parte della giurisprudenza sostenga la
 tesi opposta.
   In  proposito  ricorda  che il previgente d.P.R. 18 maggio 1982, n.
 322,   relativo   all'etichettatura    dei    prodotti    alimentari,
 introducendo,  con  l'art.  2,  un divieto di pubblicita' ingannevole
 sanzionato in via amministrativa ai sensi  del  successivo  art.  16,
 aveva risolto ogni problema di interferenza con il precetto penale di
 cui  all'art.   13 della legge del 1962, mediante l'espressa clausola
 di riserva penale ("salvo che il fatto costituisca reato")  contenuta
 nel primo comma dello stesso art. 16.
   Analoga  salvezza  del  precetto  penale  non  si rinviene, invece,
 nell'ipotesi in esame. Infatti nel decreto n. 109  del  1992,  mentre
 siffatta  clausola  e' collocata in apertura al comma 1 dell'art. 18,
 che  contempla  in  generale  l'illecito   amministrativo   derivante
 dall'inosservanza   delle   nuove  norme  e  ne  indica  le  sanzioni
 amministrative, la  stessa  formula  di  salvezza  della  fattispecie
 penale  non  e' ripetuta al comma 2 dello stesso art. 18, che reca la
 sanzione specifica per la violazione del precetto di cui  all'art.  2
 del decreto medesimo.
   D'altra  parte,  affermare la perdurante vigenza della norma penale
 (art. 13 della legge n. 283 del  1962)  significherebbe  svuotare  la
 portata  sanzionatoria  della  prima  delle norme impugnate (art. 18,
 comma 2) che  verrebbe  cosi'  limitata  alle  violazioni  "meramente
 formali"  non  riconducibili  alla  previsione del citato art. 13. Ma
 cio' determinerebbe l'irragionevolezza del quadro normativo,  perche'
 le  infrazioni  "formali"  sarebbero  punite  dall'art.  18, comma 2,
 impugnato, con una sanzione amministrativa  pecuniaria  di  rilevante
 entita'  (da  lire  6  a  lire  36  milioni),  mentre  le  piu' gravi
 infrazioni   "sostanziali"   attinenti   al  divieto  di  pubblicita'
 ingannevole sarebbero punite, dall'art.  13 citato, con l'ammenda  da
 lire 600.000 a lire 15 milioni, che rappresenta, pur nella permanenza
 di   un  illecito  penale  -  per  il  quale,  peraltro,  e'  ammessa
 l'oblazione ex art. 162 del codice penale - una sanzione  piu'  lieve
 in  termini  di  "afflittivita' concreta, intesa come incidenza reale
 sul patrimonio del responsabile".
   Conclusivamente, ad avviso del giudice a quo,  le  norme  impugnate
 avrebbero  determinato  l'abrogazione  implicita per incompatibilita'
 (cosi' come prevede l'art. 29, comma 2, del  decreto  legislativo  n.
 109 del 1992) della fattispecie contravvenzionale di cui all'art.  13
 della  legge  n.  283  del  1962, non essendo per di piu' invocabile,
 nella specie, il particolare regime ricavabile dall'art. 9, comma  3,
 della  legge  n.  689 del 1981 - per il quale ai fatti previsti dagli
 artt. 5, 6, 9 e 13 della legge n. 283 del 1962 "si applicano in  ogni
 caso le disposizioni penali in tali articoli previste, anche quando i
 fatti  stessi  sono  puniti  da disposizioni amministrative che hanno
 sostituito disposizioni penali speciali" - nel senso  in  cui  alcuni
 l'hanno   interpretato,  come  deroga  al  principio  di  specialita'
 (indicato nel primo  comma  dello  stesso  art.  9),  valevole  anche
 rispetto  alle  fattispecie  di  illecito  amministrativo  introdotte
 successivamente alla legge di depenalizzazione n. 689 del 1981.
   Tutto  cio'  premesso,  dovendosi   applicare   il   principio   di
 specialita'  ex art. 9, primo comma, citato (e non operando invece la
 deroga a detto principio enunciata nel terzo comma) al  rapporto  tra
 la  fattispecie  penale  di cui all'art. 13 della legge del 1962 e la
 fattispecie di illecito amministrativo di cui all'art. 18  impugnato,
 e  dovendosi quindi ritenere implicitamente abrogata la prima di tali
 norme per effetto della seconda, il giudice a quo formula le  censure
 ritenendo  le  norme  impugnate - cosi' come da lui interpretate - in
 contrasto con l'art. 76 della Costituzione perche' inosservanti della
 legge 29 dicembre 1990, n. 428 che, nel conferire delega  al  Governo
 per  l'attuazione  di  direttive  comunitarie,  all'art.  2 autorizza
 l'introduzione di sanzioni amministrative e penali  "salve  le  norme
 penali  vigenti"; tra queste va certamente ricompreso anche l'art. 13
 della legge del 1962.
   2. - Quanto al requisito della  rilevanza,  il  giudice  rimettente
 mostra  di  essere  consapevole  che,  in  caso  di  una pronuncia di
 accoglimento della Corte, egli sarebbe comunque tenuto  ad  applicare
 le  norme piu' favorevoli, pur dichiarate incostituzionali, in virtu'
 del principio di  irretroattivita'  delle  norme  penali  sfavorevoli
 all'indagato.   Ma osserva che, non potendo esistere nell'ordinamento
 "zone  franche"  sottratte  al  controllo  di  costituzionalita',  la
 pronuncia  della  Corte  potrebbe  comunque incidere sulla formula di
 proscioglimento o di archiviazione e  sull'iter  argomentativo  della
 decisione.   Infatti,   pur  non  mutando  gli  effetti  pratici  del
 provvedimento da adottare nel giudizio a quo, e cioe'  l'accoglimento
 della  richiesta  di  archiviazione  del  pubblico ministero, "non vi
 sarebbe pero' perfetta coincidenza tra  i  parametri  normativi  e  i
 passaggi  argomentativi  del  decreto  di  archiviazione emesso senza
 promuovere il giudizio incidentale di costituzionalita' e quelli  del
 decreto  di  archiviazione  emesso  all'esito  (favorevole)  di  tale
 giudizio".  Permarrebbe,  pertanto,  la  rilevanza   delle   proposte
 questioni di legittimita' costituzionale.
 Considerato in diritto
   1.1.  - Il giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di
 Asti dubita della  legittimita'  costituzionale  degli  articoli  18,
 comma  2,  e  29,  comma  2,  del  d.lgs.  27  gennaio  1992,  n. 109
 (Attuazione  delle  direttive  89/395/CEE  e  89/396/CEE  concernenti
 l'etichettatura,  la  presentazione  e  la  pubblicita'  dei prodotti
 alimentari), in quanto essi, contrastando con  l'art.  2,  punto  d),
 della  legge-delega  29 dicembre 1990, n. 428, violerebbero l'art. 76
 della Costituzione.
   1.2. - La vigente situazione normativa  nella  quale  e'  posta  la
 presente  questione  di costituzionalita', attinente alla repressione
 della pubblicita' ingannevole in materia  di  commercio  di  sostanze
 alimentari,   puo'   essere  ricostruita  sulla  base  di  tre  testi
 normativi.
     a) L'art. 13 della legge 30 aprile 1962, n. 283  (Modifica  degli
 artt.  242, 243, 247, 250 e 262 del testo unico delle leggi sanitarie
 approvato con regio decreto  27  luglio  1934,  n.  1265:  Disciplina
 igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e
 delle   bevande)   prevede   come   reato,  sanzionato  con  la  pena
 dell'ammenda, il fatto di offrire in vendita o propagandare  a  mezzo
 della  stampa  od  in  qualsiasi  altro  modo,  sostanze  alimentari,
 adottando denominazioni, o nomi impropri, frasi pubblicitarie, marchi
 o attestati di qualita' o genuinita' da chiunque rilasciati,  nonche'
 disegni  illustrativi  tali da sorprendere la buona fede o da indurre
 in errore gli acquirenti circa la natura,  sostanza,  qualita'  o  le
 proprieta'  nutritive  delle  sostanze  alimentari  stesse o vantando
 particolari azioni medicamentose.
     b) In attuazione di direttive comunitarie in materia, la legge 29
 dicembre 1990, n. 428 (Disposizioni  per  l'adempimento  di  obblighi
 derivanti  dall'appartenenza  dell'Italia  alle  comunita'  europee -
 legge  comunitaria  per  il  1990),  attribuiva  al  Governo   poteri
 legislativi  delegati,  stabilendo  all'art.  2,  lettera  d),  quale
 principio e criterio generale, che "saranno previste, ove  necessario
 per  assicurare l'osservanza delle disposizioni contenute nei decreti
 legislativi, salve le  norme  penali  vigenti,  norme  contenenti  le
 sanzioni  amministrative  e  penali,  o  il  loro adeguamento, per le
 infrazioni  alle  disposizioni  dei  decreti  stessi,   nei   limiti,
 rispettivamente,  della  pena  pecuniaria  fino  a  lire 100 milioni,
 dell'ammenda fino a lire 100 milioni e dell'arresto fino a tre  anni,
 da comminare in via alternativa o congiunta".
     c)  L'art.  18,  comma  2,  del  d.lgs.  27 gennaio 1992, n. 109,
 emanato in esecuzione della predetta delega legislativa,  prevede  la
 sanzione  amministrativa  pecuniaria  da  lire  sei  milioni  a  lire
 trentasei milioni di lire per le ipotesi  indicate  dall'art.  2  del
 medesimo  testo  normativo,  cioe' (comma 1) per l'"etichettatura, la
 presentazione e la pubblicita' dei prodotti alimentari" che  inducano
 "in   errore   l'acquirente  sulle  caratteristiche  del  prodotto  e
 precisamente sulla natura, sulla  identita',  sulla  qualita',  sulla
 composizione,  sulla  quantita',  sulla  durabilita',  sul  luogo  di
 origine o di provenienza, sul modo di ottenimento o di  fabbricazione
 del  prodotto  stesso".  Infine,  l'art.  29,  comma  2, del medesimo
 decreto legislativo n. 109 del 1992  dispone  (oltre  all'abrogazione
 della  precedente  disciplina della materia contenuta nel decreto del
 Presidente della Repubblica 18 maggio 1982, n. 322) l'abrogazione  di
 "tutte  le disposizioni in materia di etichettatura, di presentazione
 e di  pubblicita'  dei  prodotti  alimentari  e  relative  modalita',
 diverse  o incompatibili con quelle previste dal presente decreto, ad
 eccezione di quelle contenute  nei  regolamenti  comunitari  e  nelle
 norme  di  attuazione  di  direttive  comunitarie  relative a singole
 categorie di prodotti".
   In questo quadro, il giudice rimettente ritiene  che  la  normativa
 richiamata  in  c) abbia abrogato la norma penale indicata in a), con
 cio' violando il principio e  criterio  generale  della  salvaguardia
 delle  norme penali vigenti, salvaguardia disposta dalla legge-delega
 menzionata in b). Su questa base - nella  quale  non  entrano  a  far
 parte  elementi di diritto dell'Unione europea, le direttive disposte
 dalla quale tacendo in ordine alla natura delle sanzioni nazionali da
 prevedersi per il commercio dei prodotti non conformi alle  direttive
 stesse  -  si  richiede,  in base all'art. 76 della Costituzione, una
 pronuncia d'incostituzionalita' delle norme denunciate,  nella  parte
 in  cui  esse abrogherebbero l'art. 13 della legge 30 aprile 1962, n.
 283, in contrasto con l'art. 2, punto d),  della  legge  29  dicembre
 1990, n. 428.
   2.   -   La   questione  d'incostituzionalita'  cosi'  proposta  e'
 inammissibile.
   2.1. - L'argomentazione del giudice rimettente  si  incentra  sulla
 pretesa  valenza  abrogatrice propria delle norme impugnate, rispetto
 alla norma penale contenuta nell'art. 13  della  legge  del  1962.  I
 dubbi  di  incostituzionalita'  sollevati  stanno  o cadono su questo
 punto.
   L'ordinanza che propone la questione, discostandosi da  un  opposto
 orientamento  pur  presente  nella giurisprudenza comune e largamente
 prevalente in quello della Corte di cassazione,  argomenta  l'effetto
 abrogativo  anzidetto  osservando  innanzitutto  che  le  ipotesi  di
 illecito previste dall'art. 2 del decreto legislativo del  1992,  cui
 rinvia   l'impugnato   art.   18   determinandone   le  sanzioni,  si
 sovrappongono in gran parte - e sicuramente con riguardo  all'ipotesi
 d'illecito  che  e'  oggetto  del giudizio a quo - a quelle descritte
 nell'art.  13 della legge del 1962. Si determinerebbe cosi'  un  caso
 di  abrogazione  secondo  le  regole  generali  e secondo il disposto
 particolare dell'art.  29, comma 2, del medesimo decreto  legislativo
 del 1992, che dispone tale effetto per tutte le disposizioni "diverse
 o  incompatibili".  Inoltre, si fa valere la circostanza che il comma
 2  dell'art.  18,  prevedendo  la  sanzione  amministrativa  per   le
 infrazioni alle disposizioni dell'art. 2, non ripete (a differenza di
 quanto  disposto dall'art.   16, comma 1, dell'abrogato d.P.R. n. 322
 del 1982) la formula, contenuta invece nel primo comma  dello  stesso
 articolo, "salvo che il fatto costituisca reato". Da tale omissione -
 argomenta  il  giudice  rimettente  -  devesi  pertanto  presumere la
 volonta' del legislatore di escludere  la  "riserva  penale"  per  le
 ipotesi  previste,  in relazione all'art.   2, dall'impugnato comma 2
 dell'art. 18. A cio' si  aggiunge  la  considerazione  che,  a  voler
 ritenere  perdurante  la  vigenza  della  norma  penale  del 1962, si
 svuoterebbe  la  portata  del  comma  2  dell'art.  18  del   decreto
 legislativo  del  1992,  il quale risulterebbe applicabile soltanto a
 infrazioni meramente formali non riconducibili alla previsione  della
 norma  anteriore,  con  conseguenze  -  oltretutto  - incongrue circa
 l'entita' delle pene  applicabili  rispettivamente  alle  "violazioni
 sostanziali" e a quelle esclusivamente "formali".
   Da  queste  osservazioni,  il  giudice  rimettente trae ragione per
 ritenere che le violazioni in  tema  di  pubblicita'  ingannevole  di
 prodotti alimentari e, in particolare, quella contestata nel giudizio
 a  quo, integrino oggi l'illecito amministrativo previsto dagli artt.
 2 e 18, comma 2, del decreto legislativo del  1992,  e  non  piu'  il
 reato previsto dall'art. 13, comma 2, della legge del 1962.
   3.  -  Senonche',  a  tale  ricostruzione  normativa  e'  possibile
 contrapporne un'altra che conduce a esiti  opposti  -  la  perdurante
 vigenza  della  norma  penale dell'art. 13 della legge del 1962 - con
 argomenti almeno altrettanto plausibili.
   E'  vero  che  tra  le  norme  del  1962  e  del  1992   c'e'   una
 sovrapposizione di fattispecie (peraltro non assoluta). Ma perche' se
 ne  possa  dedurre l'incompatibilita' e affermare l'abrogazione della
 norma  piu'  risalente  a  opera  della  piu'  recente,  occorrerebbe
 innanzitutto  presupporre  l'esclusione  del  concorso,  nel  caso in
 questione, di illecito penale e di illecito amministrativo (e  quindi
 delle  norme  che prevedono l'uno e l'altro). L'art. 9 della legge 24
 novembre 1981, n. 689, che disciplina il concorso  tra  norme  e  tra
 illeciti nell'ambito della "depenalizzazione" disposta da tale legge,
 non risolve il problema con evidenza. La sua formulazione riflette le
 perplessita'  del  legislatore, documentate dai lavori preparatori, e
 alimenta le divergenze dei commentatori  sul  problema:  un  problema
 interpretativo  la cui soluzione non spetta alla Corte costituzionale
 e che - si potrebbe aggiungere - il giudice rimettente, chiedendo  la
 dichiarazione  d'incostituzionalita' delle norme impugnate non totale
 ma soltanto "nella parte in cui abrogano"  la  precedente  disciplina
 penale,  sembra implicitamente risolvere nel senso della possibilita'
 di concorso.
   A cio' si aggiunga, da un lato, che  la  formula  del  terzo  comma
 dell'art.  9  della citata legge n. 689 - la' dove stabilisce che, ai
 fatti previsti da alcuni articoli della legge n. 283  del  1962  (tra
 cui l'art. 13, che rileva nella presente questione), "si applicano in
 ogni  caso  le  disposizioni penali in tali articoli previste", anche
 quando gli  stessi  fatti  sono  puniti  da  altre  disposizioni  con
 sanzioni   amministrative  -  e'  perfettamente  compatibile  con  il
 concorso degli illeciti, nonche' con il  cumulo  delle  sanzioni;  e,
 dall'altro,  che lo stesso potrebbe dirsi in relazione, precisamente,
 alla lettera della legge di delegazione (art. 2,  lettera  d),  della
 legge n. 428 del 1990) che si assume violata, la' dove essa prescrive
 che  "si  facciano  salve  le  norme  penali  vigenti" e si delega il
 Governo  a  stabilire  sanzioni  amministrative  e  penali  "in   via
 alternativa o congiunta".
   Un'altra  possibilita'  -  anch'essa  nel  senso  della  perdurante
 vigenza   della   risalente   norma   penale   -   e'   offerta   poi
 dall'interpretazione  complessiva  dell'art.  18  (impugnato  nel suo
 secondo comma), potendosi sostenere che la clausola con la quale esso
 si apre ("Salvo che il fatto costituisca  reato")  si  riferisca  non
 solo alle ipotesi indicate al primo comma, ma a tutte quelle previste
 in  tale articolo, il quale determina esaustivamente il sistema delle
 sanzioni   alle   infrazioni    concernenti    l'etichettatura,    la
 presentazione  e  la  pubblicita'  dei  prodotti  alimentari. Secondo
 questo modo di vedere, il  primo  comma  stabilirebbe  una  norma  di
 portata  generale,  mentre  il  secondo  -  in  relazione  a  ipotesi
 specifiche,   valutate   dal   legislatore  come  piu'  gravi  -  non
 delineerebbe un sistema alternativo, ma si  limiterebbe  a  prevedere
 pene amministrative piu' pesanti rispetto a quelle indicate nel primo
 comma.  Il  silenzio della norma contenuta nel secondo comma circa la
 clausola di "riserva penale" - silenzio  che  il  giudice  rimettente
 giudica  essere  solida  base  per  un'interpretazione a contrariis -
 potrebbe apparire cosi' un argomento privo di consistenza, valendo la
 riserva affermata in generale  nel  primo  comma.  Percio'  anche  il
 raffronto,   operato   dal   giudice   rimettente,   con  la  diversa
 formulazione dell'art. 16, primo comma, del d.P.R. n. 322 del 1982  -
 che conteneva la clausola di riserva - non risulterebbe in alcun modo
 probante.   Tanto piu', occorre aggiungere, che quest'interpretazione
 complessiva dell'art. 18 corrisponderebbe  all'indicazione  contenuta
 nella  legge  di  delegazione, essendo principio di evidenza, tale da
 non richiedere spiegazioni, che  il  decreto  delegato  debba  essere
 interpretato  innanzitutto alla luce della delega del cui svolgimento
 esso e' il risultato.
   Infine, assume rilievo anche la circostanza che questa  conclusione
 si porrebbe in linea col gia' ricordato art. 9 della legge n. 689 del
 1981  il  quale,  dopo  aver  affermato il "principio di specialita'"
 nella  concorrenza  tra  disposizioni  penali  e   disposizioni   che
 prevedono  sanzioni  amministrative  per  la  medesima infrazione, al
 terzo comma stabilisce che "ai fatti puniti dagli artt. 5, 6, 9 e  13
 della  legge  30  aprile 1962, n. 283... si applicano in ogni caso le
 disposizioni penali in tali articoli previste, anche quando  i  fatti
 stessi   sono   puniti   da  disposizioni  amministrative  che  hanno
 sostituito disposizioni penali speciali". Tale  disposizione  vale  a
 indicare  la volonta' del legislatore di ribadire, anzi rafforzare il
 rilievo  della  legge  del  1962  nella  tutela   della   veridicita'
 dell'informazione  nel  settore  del  commercio  alimentare  e  nella
 punizione degli illeciti relativi, rilievo che verrebbe  negato,  pur
 in  assenza  di univoci elementi giustificativi, dall'interpretazione
 abrogante assunta dal giudice rimettente per  formulare  la  presente
 questione  di  costituzionalita'.  Ne' varrebbe in contrario rilevare
 che la disposizione del terzo comma  dell'art.    9  citato  dovrebbe
 intendersi  rivolta  soltanto  alla  disciplina  della collisione tra
 norme anteriori alla legge n. 689 del 1981, poiche',  altrimenti,  le
 si  attribuirebbe  l'efficacia  di  "norma  sulle fonti" legislative,
 dunque un'impropria efficacia superiore a quella tipica  delle  leggi
 ordinarie.  Assegnare  a  una norma legislativa il valore di elemento
 interpretativo di una norma successiva, in  mancanza  di  una  sempre
 possibile  deroga o abrogazione da parte di altre leggi, non equivale
 affatto ad attribuirle un rango diverso da quello che le  e'  proprio
 nel sistema delle fonti.
   Ove  si  seguissero  queste  linee interpretative, infine, anche il
 riferimento al denunciato art. 29, comma 2, del  decreto  legislativo
 n.  109  del 1992, che dispone l'abrogazione di tutte le disposizioni
 in materia di etichettatura, di presentazione e  di  pubblicita'  dei
 prodotti  alimentari  e  relative  modalita',  incompatibili ma anche
 semplicemente  diverse  da  quelle  previste  nel   decreto   stesso,
 perderebbe  di  valore.  L'art. 18, cosi' interpretato in ordine alla
 salvaguardia delle precedenti norme penali, costituirebbe deroga alla
 regola abrogativa generale disposta in tale art. 29.
   4.  -  Nel  quadro  delle  norme e delle loro interpretazioni cosi'
 esposto, due posizioni si fronteggiano dunque: la prima -  risultante
 incidentalmente  da una pronuncia della Corte di cassazione e assunta
 dal  giudice  rimettente  come  premessa  della  presente   questione
 d'incostituzionalita'  -  afferma l'avvenuta abrogazione dell'art. 13
 della legge n. 283 del 1962 a opera degli artt. 18, comma  2,  e  29,
 comma  2,  del  decreto  legislativo  n.  109  del 1992; la seconda -
 accolta da altra e piu'  numerosa  giurisprudenza,  di  merito  e  di
 legittimita'  -  ritiene  viceversa la perdurante vigenza della prima
 norma, pur in presenza di quelle successive,  sottraendo  cosi'  alla
 questione  d'incostituzionalita'  sollevata la sua premessa. Entrambe
 queste posizioni, come si  e'  mostrato,  non  mancano  di  argomenti
 interpretativi a loro sostegno.
   In  questa situazione, la richiesta pronuncia d'incostituzionalita'
 risulta ingiustificata. In  linea  di  principio,  le  leggi  non  si
 dichiarano  costituzionalmente illegittime perche' e' possibile darne
 interpretazioni  incostituzionali  (e  qualche  giudice  ritenga   di
 darne),    ma    perche'   e'   impossibile   darne   interpretazioni
 costituzionali. Ora, nel  caso  di  specie,  argomenti  e  precedenti
 giurisprudenziali  non  mancano  a  dimostrazione che il risultato al
 quale il giudice rimettente  mira  e  ch'egli  considera  dovuto  per
 ragioni costituzionali - la perdurante vigenza della norma del 1962 -
 puo'  essere  raggiunto  sulla  base dell'interpretazione delle norme
 vigenti, senza involgere la questione di legittimita'  costituzionale
 delle norme del 1992.
   Il  caso  in esame presenta inoltre questa singolarita': di nascere
 in   presenza   di   un   contrasto   interpretativo   interno   alla
 giurisprudenza  comune, al di la' del quale, pero', vi e' convergenza
 sul  risultato  cui  si  mira  e  che  e'  ritenuto   conforme   alla
 Costituzione.  La  divergenza riguarda soltanto le vie da percorrere:
 l'una richiede una previa declaratoria d'incostituzionalita'; l'altra
 implica semplici operazioni interpretative di norme  legislative.  La
 questione  di  costituzionalita'  proposta tende cosi' a configurarsi
 come un improprio tentativo per ottenere dalla  Corte  costituzionale
 l'avallo    a   favore   di   un'interpretazione,   contro   un'altra
 interpretazione, senza che da cio' conseguano  differenze  in  ordine
 alla  difesa dei principi e delle regole costituzionali, cio' in cui,
 esclusivamente,   consiste    il    compito    della    giurisdizione
 costituzionale.
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  inammissibile la questione di legittimita' costituzionale
 degli artt. 18, comma 2, e 29, comma 2, del d.lgs. 27  gennaio  1992,
 n.   109   (Attuazione   delle   direttive  89/395/CEE  e  89/396/CEE
 concernenti l'etichettatura, la presentazione e  la  pubblicita'  dei
 prodotti  alimentari),  sollevata,  in  riferimento all'art. 76 della
 Costituzione, dal giudice  per  le  indagini  preliminari  presso  la
 Pretura di Asti, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
   Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 14 ottobre 1996.
                         Il Presidente: Ferri
                       Il redattore: Zagrebelsky
                       Il cancelliere: Di Paola
   Depositata in cancelleria il 22 ottobre 1996.
               Il direttore della cancelleria: Di Paola
 96C1697