N. 1268 ORDINANZA (Atto di promovimento) 10 giugno 1996

                                N. 1268
  Ordinanza emessa il 10 giugno  1996  dal  giudice  per  le  indagini
 preliminari  del  tribunale  di  Catanzaro  nel procedimento penale a
 carico di Catanzaro Carmine
 Processo  penale  - Richiesta di ammissione all'oblazione - Lamentata
    omessa previsione dell'incompatibilita' ad emettere  una  sentenza
    di  declaratoria di estinzione del reato per intervenuta oblazione
    del  g.i.p.  che,  nei  confronti  dello  stesso  imputato  e   in
    riferimento   alla   medesima   contestazione,   si  sia  comunque
    pronunciato in ordine ad una misura  cautelare  personale  o  alla
    convalida  di  fermo  -  Disparita'  di  trattamnto  in situazioni
    analoghe - Lesione  del  diritto  di  difesa  -  Violazione  della
    garanzia per un giusto processo.
 Processo  penale  -  Giudice  che  nella  fase  precedente  gli  atti
    preliminari al dibattimento si sia comunque pronunciato in  ordine
    ad  una misura cautelare personale o che nella fase delle indagini
    preliminari si sia pronunciato sulla richiesta  di  convalida  del
    fermo  o dell'arresto - Incompatibilita' ad esercitare le funzioni
    di  giudizio  nei  confronti  dello  stesso  imputato   -   Omessa
    previsione  -  Lesione del principio di eguaglianza - Compressione
    del diritto di difesa e della garanzia di un giusto processo.
 (C.P.P. 1988, art. 34, comma 2).
 (Cost., artt. 3, 24, secondo comma, e 27, secondo comma).
(GU n.47 del 20-11-1996 )
                IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
   Visto il proprio provvedimento del 3  aprile  1996,  con  il  quale
 veniva ammesso alla procedura di oblazione Catanzaro Carmine, nato il
 19  settembre 1945 a San Pietro Magisano, ivi residente e domiciliato
 (rispettivamente al vico IV nazionale ed alla  via  delle  Querce  n.
 46),  imputato  del  reato  p.  e  p. dall'art. 12, comma 2, legge n.
 943/86, difeso dagli avvocati  Romano  Gentile  e  Vincenzo  Ioppoli,
 entrambi del foro di Catanzaro;
   Preso  atto  che  l'imputato ha provveduto al pagamento delle somme
 imposte.
                            Osserva e rileva
   Si e' proceduto (anche) a carico di Catanzaro Carmine in  relazione
 al  reato  di  assunzione  illecita  di  lavoratori extra-comunitari,
 nell'ambito  di  piu'  vaste  investigazioni  volte  a  reprimere  il
 fenomeno  dell'introduzione  clandestina  in  territorio  italiano di
 manodopera  straniera  destinata  ad  essere  avviata  al  lavoro  in
 condizioni di sfruttamento.
   Le  indagini,  partite  nel  giugno 1995, subivano un'accelerazione
 improvvisa allorche', in data 22 aprile 1995, il rappresentante della
 procura della Repubblica emetteva decreto di fermo nei  confronti  di
 cinque soggetti con l'accusa di associazione a delinquere finalizzata
 alla commissione di piu' illeciti tra quelli perseguiti.
   A  carico  dei  prevenuti  veniva  quindi  formulata  richiesta  di
 convalida del fermo e di contestuale adozione della misura coercitiva
 della custodia cautelare in carcere.
   Tra i fermati vi era pure  l'odierno  giudicabile,  per  il  quale,
 pero',  il  giudice  respingeva  entrambe  le istanze dell'accusa (di
 convalida e di coercizione), non  ravvisandosi  gli  estremi  di  una
 consapevole partecipazione all'ipotizzato sodalizio.
   Il  processo  seguiva  le vie ordinarie quanto alle posizioni degli
 altri imputati, mentre per Catanzaro Carmine l'azione  penale  veniva
 promossa  il 2 dicembre 1995, mediante richiesta di decreto penale di
 condanna, con  derubricazione  dell'iniziale  fattispecie  delittuosa
 nella contravvenzione di cui all'art. 12, comma 2, legge n. 943/86.
   Il decreto penale di condanna veniva emesso il 6 febbraio 1996.
   Con  opposizione  del  25 marzo 1996, l'imputato chiedeva di venire
 ammesso ad oblazione, il che si verificava con  provvedimento  del  3
 aprile 1996.
   Poiche'   il   versamento   delle   somme   dovute  e'  ritualmente
 intervenuto, sussistono oggi  tutti  i  presupposti  per  pronunziare
 sentenza  di  estinzione del reato, a mente del comma 4 dell'art. 141
 disp. att. c.p.p.
   E tuttavia, non sfugge  a  chi  scrive  la  questione  per  cui  il
 soggetto  fisico  chiamato a definire il processo e' lo stesso che ha
 giudicato sulle richieste di convalida del fermo  e  di  adozione  di
 misura  cautelare  personale,  si'  che,  nella  persona del medesimo
 magistrato, sono venute a confluire, sia pur in momenti  diversi,  le
 funzioni di giudice della coercizione e di giudice del merito.
   Com'e'  noto,  con  tre recenti decisioni (sentenza n. 432 del 6-15
 settembre 1995; n. 131 del 17-24 aprile 1996; n. 155 del 13-20 maggio
 1996),  la  Corte  costituzionale  ha   dichiarato   l'illegittimita'
 dell'art.    34,  comma 2, c.p.p., nella parte in cui non e' prevista
 l'incompatibilita' alla funzione di giudizio (si manifesti essa nelle
 forme   del   dibattimento,   del    giudizio    abbreviato    ovvero
 dell'applicazione della pena su richiesta delle parti) del magistrato
 gia'  pronunziatosi  sullo  status di coercizione cautelare personale
 dell'imputato, nelle vesti di giudice  per  le  indagini  preliminari
 ovvero  di  giudice  del  riesame  o  dell'appello salvo, quanto alle
 ultime due ipotesi, che il giudizio cautelare  non  abbia  riguardato
 aspetti esclusivamente formali della vicenda.
   Ha osservato il massimo Collegio come la Carta costituzionai'e, nel
 prevedere per l'imputato le garanzie del "giusto processo", ha inteso
 ivi comprendere anche quella relativa alla "terzieta'" del giudice.
   Garanzia,   quest'ultima,  che  si  sostanzia  nell'esclusione  dal
 momento decisorio non  solo  del  giudice  prevenuto,  ma  anche  del
 giudice sospetto di prevenzione.
   Essendo  tale  quello che, per ragioni interne allo svolgimento del
 processo e nell'a'mbito di un diverso stadio  di  esso,  si  e'  gia'
 trovato  a  decidere  sulla medesima res iudicanda, pronunziandosi su
 aspetti riguardanti il merito dell'ipotesi d'accusa.
   Sotto tale aspetto, pertanto, la disciplina dettata  dall'art.  34,
 comma 2, c.p.p. in tema di incompatibilita' del giudice   ritenuta in
 contrasto  con gli artt. 24, comma secondo e 27, comma secondo, della
 Costituzione, e' stata riformata con le pronunzie sopra menzionate.
   Ed  infatti,  l'esercizio   della   funzione   di   giudice   della
 coercizione,   imponendo  al  magistrato  incaricato  un'indagine  di
 indubbia penetrativita' sul contenuto dell'accusa (specie a  se'guito
 della  novella  n.  332  dell'8  agosto  1995,  che ha amplificato le
 garanzie della liberta' personale nel processo penale),  preclude  al
 medesimo   l'ulteriore   esercizio   della   funzione   del  giudizio
 terminativo sulla responsabilita' penale, potendo egli - dall'esterno
 -   apparire  intimamente  vincolato  ai  divisamenti  in  precedenza
 assunti.
   A   tal  proposito,  non  importa  se  la  pronunzia  sullo  status
 coercitivo sia avvenuta in sede  di  adozione  della  misura,  ovvero
 abbia investito il controllo sul merito.
   Come  altrettanto  ininfluente - si aggiunge - e' l'identita' della
 parte (pubblica o privata) le cui  ragioni  sono  state  accolte  nel
 dictum.
   In  tutti  questi  casi,  invero,  non muta il grado di incisivita'
 dell'introspezione  giurisdizionale,  si'  che  un  secondo  giudizio
 potrebbe apparire mera duplicazione del primo.
   Ebbene, una situazione di fatto per nulla dissimile si verifica nel
 caso  che  ci  occupa,  laddove  le  valutazioni  sul  dato cautelare
 espresse dal giudice della fase delle indagini  preliminari  si  sono
 concretizzate  in  due  pronunzie, distinte ma di eguale incisivita';
 quella relativa alla convalida del fermo (che, per l'appunto, postula
 la ponderazione dei gravi indizi di colpevolezza) e  quella  relativa
 alla sottoposizione dell'indagato a misura cautelare personale.
   Del  resto,  la sentenza dichiarativa dell'estinzione del reato per
 intervenuta oblazione, pur in assenza di  una  verifica  piena  sulla
 fondatezza  dell'accusa,  presuppone sempre una valutazione di merito
 sulla   responsabilita'   penale,   nelle   forme   e   nel    limiti
 dell'accertamento  negativo  circa  la  possibilita' di prosciogliere
 l'imputato  con  formula  piu'  favorevole,  secondo  la   disciplina
 dell'art.  129  c.p.p.  che,  una  volta  esercitata l'azione penale,
 riveste carattere generale.
   Ne' pare dubitabile  la  funzione  spiccatamente  sanzionatoria  da
 assegnarsi alla somma che "il contravventore" e' obbligato a versare.
   Tampoco  conta  che il requirente, nell'esercitare l'azione penale,
 qualifichi la  condotta  ascritta  all'imputato  in  maniera  diversa
 rispetto  alla  fase  delle  indagini preliminari, con derubricazione
 delle    originarie    contestazioni    nella    degradata    ipotesi
 contravvenzionale di cui al comma 2 dell'art. 12, legge n. 943/86.
   Ed invero, basta all'uopo osservare che i fatti storici per i quali
 si  procede  sono  rimasti  immutati,  avendo  costituito  oggetto di
 revisione solo la collocazione di essi in un dato contesto normativo.
   Il che, per altro, trova giustificazione nei  divisamenti  espressi
 dal  giudicante  in sede di convalida, evidentemente recepiti e fatti
 propri dall'organo dell'accusa.
   Non manifestamente infondato e', dunque, ritenere  che  il  giudice
 della   coercizione   possa   apparire   ancora'to   alle   pregresse
 valutazioni,  siano  esse  state  di  segno  favorevole  o  di  segno
 contrario rispetto a questa od a quella parte interessata.
   Pertanto,  la  mancata previsione dell'obbligo di astensione per il
 giudice che sia stato chiamato a decidere sull'estinzione  del  reato
 per   intervenuta   oblazione  e,  in  precedenza,  abbia  deciso  de
 libertate, oltre a collidere con le garanzie  del  "giusto  processo"
 (o,  in  altri  termini,  della  "giusta  sentenza"),  si  pone  oggi
 irragionevolmente  in  urto  con  la  complessiva  disciplina   delle
 astensioni  in materia penale, per come delineatasi per effetto delle
 tre citate pronunzie additive.
   Di qui l'ulteriore profilo di contrasto con l'art.  3  della  Carta
 costituzionai'e.
   E'   solo   adesso,   inoltre,   che   la   spiegata  questione  di
 illegittimita' costituzionale ha assunto rilevanza.
   Vertendosi infatti in tema di fattispecie processuale a  formazione
 progressiva, perche' sul decidente si radichi la funzione di giudizio
 e'  necessario  attendere  il  compimento  di  ogni  singolo elemento
 strutturale.
   Di tal che, ne' la presentazione della domanda d'oblazione, ne'  il
 consenso  del  p.m.,  ne'  l'ordinanza  di  ammissione  -  che, quale
 provvedimento interlocutorio, e' sempre revocabile (in termini: Cass.
 pen., sez. I, 9 gennaio24 maggio  1986,  n.  4025)  -  consentono  di
 collocare  la  genesi  dell'incompatibilita'  in un momento anteriore
 rispetto a quello di  verifica  dell'esatto  versamento  delle  somme
 imposte.
   Va  da  se',  infine,  che  il  giudizio  non  puo' essere definito
 indipendentemente dalla risoluzione del quesito esposto.
   Alla stregua di quanto si e' sostenuto, si comprende come del tutto
 analoghe  alla  questione  sollevata  siano  quelle   -   altrettanto
 frequenti  nella  prassi  e  probabili  oggetti  di futuri rilievi di
 conformita' costituzionali - relative  al  concreto  esercizio  della
 funzione  di  giudizio (nell'icastica espressione sapientemente usata
 dalla Corte nella sentenza n. 131/1996, coinvolgente  ogni  possibile
 modalita'  estrinsecativa del giudizio medesimo: dal dibattimento, al
 giudizio abbreviato, all'applicazione della pena su  richiesta  delle
 parti,   all'emissione   del   decreto   penale   di  condanna,  alla
 declaratoria con sentenza dell'estinzione del reato  per  intervenuta
 oblazione)  da  parte  del  giudice  che,  in una precedente fase del
 procedimento,  si  sia  pronunziato  sul  dato  cautelare  attraverso
 l'adozione   di   atti   caratterizzati  da  un'indagine  sul  merito
 dell'accusa particolarmente quallficata.
   E' il caso:
    1) del  giudice  che,  nella  fase  antistante  i  preliminari  al
 dibattimento,  si  sia  pronunziato  adottando  una  misura cautelare
 personale;
    2) del giudice che, nella fase antistante gli atti preliminari  al
 dibattimento,   si  sia  pronunziato  sulla  richiesta  di  modifica,
 sostituzione o revoca di una misura cautelare personale;
    3) del giudice che abbia deciso sul  riesame  ovvero  sull'appello
 avverso  ordinanza  che abbia provveduto in ordine a misura cautelare
 personale;
    4) del giudice per le indagini preliminari  che  abbia  provveduto
 sulla convalida del fermo o dell'arresto dell'imputato.
   Il tutto, ovviamente, ove la disamina non abbia interessato profili
 meramenti formali.
   Quanto   alle  evenienze  rappresentate  sub  1),  2)  e  3),  essa
 completano il  quadro  gia'  prefigurato  nelle  citate  sentenze  n.
 432/1995,  n.   131/1996 e n. 155/1996, pertinenti - o si ribadisce -
 all'incompatibilita' al dibattimento, al giudizio  abbreviato  ed  al
 paggettiamento.
   D'altro  canto,  e'  evidente come la preclusione sub 1) e 2) debba
 tenere  necessariamente  fuori  il   giudice   del   dibattimento   -
 astrattamente  competente  per  effetto  del combinato disposto degli
 artt.  279,  432,  465  e  segg.  c.p.p.  -  giacche',   diversamente
 opinandosi,  la  sua  concreta  individuazione  soggettiva resterebbe
 esposta alla mera volonta' delle parti di presentare o meno richieste
 de libertate.
   Quanto, poi, al punto 4), si comprende bene quale  incidenza  sulla
 decisione   terminativa   del   processo  abbia,  nel  concreto,  una
 valutazione preliminare  fondata  sull'accertamento  dello  stato  di
 flagranza  (in  ipotesi  di arresto) ovvero della ricorrenza di gravi
 indizi di colpevolezza (in ipotesi di fermo).
   Anche in tal caso, infine,  e'  inevitabile  limitare  il  fenomeno
 dell'incompatibilita', facendovi rientrare solo la figura del giudice
 per le indagini preliminari, giacche', contrariamente, l'istituto del
 processo  per  direttissima  in  relazione  ad  imputati arrestati in
 flagranza di reato verrebbe a subire un'abrogazione in fatto.
   Dissimili,  invece,  sono i casi in cui il giudice abbia provveduto
 in tema di trasgressione della misura, a mente dell'art. 276  c.p.p.;
 ovvero  abbia  prorogato i termini di custodia, a mente dell'art. 305
 c.p.p.; ovvero  anco'ra  abbia  emesso  i  provvedimenti  conseguenti
 all'estinzione  della misura, ai sensi dell'art. 306 c.p.p.; od abbia
 ripristinato la misura anteatta, ai sensi dell'art. 307 c.p.p.
   In queste situazioni, infatti, l'oggetto della cognizione si palesa
 radicalmente diverso, investendo non  il  merito  della  prognosi  di
 responsabilita',   sibbene   suoi   aspetti   accessori,   collega'ti
 all'esistenza di una precedente pronunzia i cui presupposti di  fatto
 non vengono in alcun modo messi in discussione.
   Come poi, sempre ad avviso dello scrivente, radicalmente differente
 -  anche  riguardo al thema decidendum - e' la questione (prospettata
 dalla difesa di altro imputato,  ma  respinta)  concernente  l'omessa
 previsione dell'incompatibilita' del giudice della coercizione con la
 celebrazione dell'udienza preliminare, in mancanza dell'indefettibile
 presupposto  della ricorrenza di un giudizio avente carattere insieme
 terminativo e di merito sulle tesi dell'accusa.
   L'apprezzamento  di  merito  demandato  al   giudice   dell'udienza
 preliminare  non  si  sviluppa,  infatti,  secondo un canone, sia pur
 prognostico, di colpevolezza o di innocenza, ma si incentra sulla ben
 diversa prospettiva di delibare se, nel caso  di  specie,  risulti  o
 meno  necessario  dare ingresso alla successiva fase del dibattimento
 (in termini:  Corte costituzionale, sentenza n.  71  del  7-15  marzo
 1996).
   In  quest'ottica,  quindi, anche dopo le modifiche subite dall'art.
 425 c.p.p. per effetto della novella 8 aprile 1993, n.  105  (che  ha
 soppresso dal testo normativo la parola evidente), la sentenza di non
 luogo    a    procedere,    come    possibile    esito    terminativo
 dell'accertamento, si atteggia come una sentenza  di  tipo  meramente
 processuale,  destinata  a  paralizzare  -  e  mai  con  caratteri di
 definitivita' - la domanda di giudizio formulata dal p.m.
   Ne', in  conclusione,  potrebbesi  argomentare  l'esistenza  di  un
 qualsivoglia  margine di ipotetico pregiudizio in capo al giudice che
 si sia pronunziato  in  materia  di  intercettazioni  telefoniche  od
 ambientali,  posto  che  la  valutazione  sui  gravi indizi richiesta
 dall'art. 267 c.p.p. si incentra unicamente sulla  ricorrenza  di  un
 fatto  -  reato,  senza  alcuna presa di posizione sull'identita' dei
 pretesi responsabili.
   E'  pienamente  consapevole  questo  remittente  che  le  pregnanti
 questioni  cui  si  e' fatto cenno per ultimo, ad eccezione di quella
 afferente al giudice della convalida del fermo, difettano di concreta
 rilevanza nell'a'mbito del presente processo.
   E tuttavia si reputa egualmente di demandarle alla cognizione della
 massima  Corte  regolatrice,  affinche'  valuti  la  possibilita'  di
 estendere  su  di esse il controllo di leggittimita' come conseguenza
 di una eventuale decisione caducatoria.
                                P. Q. M.
   Letto ed applicato l'art. 23 della legge n. 85 del 1953;
   Solleva di ufficio, in riferimento agli artt. 3, 24, comma  secondo
 e  27,  comma  secondo, della Costituzione, questione di legittimita'
 costituzionale sull'art. 34, comma secondo, c.p.p.,  nella  parte  in
 cui  non  prevede  l'incompatibilita' alla funzione di giudizio nelle
 forme  della  declaratoria con sentenza dell'estinzione del reato per
 intervenuta oblazione, per il giudice  per  le  indagini  preliminari
 che,  nei  confronti dello stesso imputato ed in ordine alla medesima
 contestazione:
     si  sia  pronunziato  adottando,   modificando,   sostituendo   o
 revocando una misura cautelare personale;
     si   sia  pronunziato  respingendo  una  richiesta  di  adozione,
 modifica, sostituzione o revoca di misura cautelare personale;
     abbia provveduto in relazione alla convalida del fermo;
   Solleva di ufficio, in riferimento agli artt. 3, 24, comma  secondo
 e  27,  comma  secondo, della Costituzione, questione di legittimita'
 costituzionale sull'art. 34, comma secondo, c.p.p.,  nella  parte  in
 cui  non  prevede l'incompatibilita' alla funzione di giudizio (cosi'
 intendendosi  ogni  forma  di  estrinsecazione  del   giudizio:   dal
 dibattimento,  al giudizio abbreviato, all'applicazione della pena su
 richiesta delle parti, all'emissione del decreto penale di  condanna,
 alla   declaratoria   con  sentenza  dell'estinzione  del  reato  per
 intervenuta oblazione) per il giudice che, nei confronti dello stesso
 imputato ed in ordine alla medesima contestazione:
     nella fase antistante gli atti preliminari  al  dibattimento,  si
 sia  pronunziato  sulla richiesta di adozione di una misura cautelare
 personale;
     nella fase antistante gli atti preliminari  al  dibattimento,  si
 sia pronunziato sulla richiesta di modifica, sostituzione o revoca di
 una misura cautelare personale;
     abbia  deciso  sul  riesame ovvero sull'appello avverso ordinanza
 che abbia provveduto in ordine a misura cautelare personale;
     nella fase delle indagini preliminari, si sia  pronunziato  sulla
 richiesta di convalida del fermo o dell'arresto; purche' la decisione
 non abbia investito aspetti esclusivamente formali della vicenda;
   Dispone  che  gli  atti  siano  immediatamente trasmessi alla Corte
 costituzionale;
   Ordina che il giudizio rimanga sospeso nelle more  della  decisione
 di quest'ultima;
   Ordina  che  la  presente  ordinanza  venga  notificata al pubblico
 ministero, all'imputato ed ai suoi difensori;
   Ordina  che  la  presente  ordinanza  venga  trasmessa  al   signor
 Presidente  del  Consiglio  dei Ministri ed ai signori Presidenti dei
 due rami del Parlamento;
   Manda alla cancelleria per ogni adempimento conseguenziale.
   Cosi' deciso nella camera di consiglio del 10 giugno 1996
            Il giudice per le indagini preliminari: Durante
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