N. 1280 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 settembre 1996

                                N. 1280
  Ordinanza  emessa  il  17  settembre  1996 dal tribunale militare di
 Padova nel procedimento penale a carico di Spinelli Luigi
 Reati militari -  Reato  permanente  gia'  interrotto  giudizialmente
    (diserzione)  -  Possibilita'  di reiterazione dei giudizi e delle
    sanzioni  a  seconda  dell'efficienza  degli   uffici   giudiziari
    procedenti   -   Irrogabilita'   di  un  comoplessivo  trattamento
    sanzionatorio superiore a quello edittalmente  stabilito  (fino  a
    tre  volte  il  massimo ex art. 81 c.p.) - Lesione dei principi di
    eguaglianza, di legalita'  della  pena  e  di  personalita'  della
    responsabilita' penale.
 (C.P.M.P., art. 68).
 (Cost., artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo comma).
(GU n.47 del 20-11-1996 )
                         IL TRIBUNALE MILITARE
   Ha  pronunciato  la  seguente ordinanza nella causa contro Spinelli
 Luigi, nato a Verona l'11 febbraio 1975, atto di nascita n.  109/A/I,
 residente  a  Argenta  (Ferrara)  frazione  Anita  in  via  Fossa dei
 Socialisti n. 12, celibe, censurato, soldato nella forza  armata  del
 distretto militare di Chieti, libero imputato di diserzione (art. 148
 n.  2  c.p.m.p.),  perche'  perdurava  nell'arbitraria  assenza anche
 posteriormente alla sentenza di condanna del  tribunale  militare  di
 Padova del 17 ottobre 1995 e fino a tutt'oggi.
   In esito al pubblico ed orale dibattimento.
                            Fatto e diritto
   Con sentenza del 17 ottobre 1995 (irrevocabile il 14 dicembre 1995)
 il  militare  Spinelli  Luigi  veniva  condannato da questo tribunale
 militare per reato di diserzione (art. 148 c.p.m.p.), in relazione ad
 assenza dal servizio  che  ancora  non  era  cessata  alla  data  del
 giudizio.
   Il   procuratore   militare   in   sede,  a  fronte  del  perdurare
 dell'assenza,  instaurava  altro  procedimento  per   il   reato   di
 diserzione  in  epigrafe,  decorrente dal 17 ottobre 1995, data della
 prima pronuncia. L'assenza a tutt'oggi non e' ancora cessata.
   Secondo costante giurisprudenza regolatrice e del giudice  militare
 d'appello,  la  prosecuzione dell'assenza arbitraria dopo la sentenza
 di primo grado costituisce ad  ogni  effetto  un  nuovo  ed  autonomo
 reato,  come  tale  da  giudicare senza che per cio' venga violato il
 principio del ne bis in idem di cui  all'art.  649  c.p.p.  Dovrebbe,
 pertanto, essere accolta la richiesta del p.m.
   Con  varie  ordinanze emesse il 12 aprile 1994 e in date successive
 questo  tribunale  sollevava  tuttavia  questione   di   legittimita'
 costituzionale  dell'art. 649 c.p.p., nella parte in cui consente che
 per un unico reato  permanente,  una  o  piu'  volte  "giudizialmente
 interrotto",  sia irrogabile un complessivo trattamento sanzionatorio
 superiore a quello edittalmente stabilito per il reato  medesimo,  in
 relazione  agli  artt.    3,  25 secondo comma e 27 primo comma della
 Costituzione. In tal modo questo giudice remittente,  nell'alveo  del
 principio  di  civilta'  giuridica  sancito  dall'art.  649 c.p.p., e
 prendendo atto inoltre - come di un dato di diritto vivente  -  della
 permanenza  dei  reati  di  assenza  dal servizio, intendeva porre in
 risalto  che  dall'"interruzione  della  permanenza"  conseguente  al
 giudizio derivano seri problemi di legittimita', con violazione delle
 citate  disposizioni costituzionali. E nell'occasione era apparso che
 l'istituto   dell'"interruzione   giudiziale    della    permanenza",
 individuato   quale   responsabile  delle  lamentate  illegittimita',
 trovasse il suo riscontro normativo nel citato art. 649 c.p.p.
   Con l'ordinanza n. 150 del 4-5 maggio 1995 la Corte  costituzionale
 ha   dichiarato   la   manifesta  inammissibilita'  della  questione,
 rilevando innanzitutto che  l'effetto  dell'"interruzione  giudiziale
 della   permanenza"   non   discende  affatto  dall'applicazione  del
 principio  contenuto  nell'art.    649  c.p.p.,  ma  soprattutto  che
 l'orgine  delle  asserite  incostituzionalita'  non e' l'interruzione
 giudiziale,  bensi'  il  fatto  che  il  reato  sia   configurato   e
 disciplinato come permanente. Sul punto la Corte ha poi precisato che
 la  permanenza  si  collega,  oltre  che  alle  caratteristiche delle
 disposizioni incriminatrici e all'art. 158  primo  comma  c.p.,  alla
 disposizione  dell'art.  68  c.p.m.p.,  secondo  cui  per  i reati di
 assenza  dal  servizio  il  termine  di  prescrizione,  se  l'assenza
 perduri,  decorrere  dal giorno in cui il militare ha compiuto l'eta'
 per la quale cessa in modo assoluto l'obbligo del servizio  militare,
 e a quella infine dell'art. 9 d.P.R. 14 febbraio 1964 n. 237, che per
 i  militari  di  truppa stabilisce di norma l'estinzione dell'obbligo
 militare alla data del  31  dicembre  dell'anno  del  compimento  del
 quarantacinquesimo anno di eta'.
   La  Corte ha, dunque, giustamente riportato la problematica ai suoi
 profili originari e fondamentali.
   Il quesito se  i  reati  omissivi  propri  (nel  cui  ambito  vanno
 compresi   quelli   di   assenza  dal  servizio  perche'  consistenti
 nell'inottemperanza al  dovere  di  presentazione  alle  armi,  o  di
 riassunzione  del  servizio  al  termine  della legittima assenza o a
 seguito dell'allontanamento arbitrario) siano, o meno, permanenti  ha
 avuto  varie  soluzioni  in giurisprudenza e soprattutto in dottrina.
 Oltre ad orientamenti intermedi, sono presenti in quest'ultima  anche
 concenzioni estreme: quella secondo cui il reato omissivo proprio mai
 potrebbe  essere  permanente;  quella  secondo  cui il reato omissivo
 proprio sarebbe il reato  permanente  per  antonomasia.  Quanto  alle
 assenze dal servizio, secondo l'ormai prevalente dottrina (Venditti e
 di  recente  Brunelli  e  Mazzi)  si tratterebbe di reati istantanei,
 mentre in giurisprudenza unanime e' l'idea che sia reati permanenti.
   La tesi della permanenza del reato omissivo proprio chiaramente  si
 basa   sul   perdurare   dell'obbligo  extrapenale     (c.d.  obbligo
 sottostante)  la  cui  inosservanza  e'  penalmente   sanzionata,   e
 corrisponde   dunque   alla   concezione   del  diritto  penale  come
 ulteriormente sanzionatorio  di  precetti  propri  di  altre  branche
 dell'ordinamento  giuridico.  Per  quanto  specificamente  riguarda i
 reati di assenza dal servizio, lo stretto  collegamento  tra  diritto
 penale  e precetti dell'ordinamento militare e' anche particolarmente
 sottolineato dalla disposizione dell'art. 68  c.p.m.p.,  sulla  quale
 giustamente  si  sofferma  la  stessa Corte costituzionale nella gia'
 citata ordinanza n. 150 del 1995.  Nel caso di assenza  che  non  sia
 ancora  terminata, la prescrizione del reato comincia a decorrere dal
 giorno in cui il militare cessa in modo assoluto l'obbligo  militare:
 norma  che,  in quanto correlata all'art. 158 primo comma c.p., viene
 esattamente, o quanto  meno  correntemente  (cosi'  da  dar  luogo  a
 diritto  vivente), intesa quale configurazione autentica (e del resto
 l'art. 377 c.p.m.p. testualmente parlava di  "permanenza")  di  reati
 non istantanei e per di piu' con una permanenza che ha termine con la
 cessazione   dell'obbligo   militare.   In  definitiva,  per  diretta
 statuizione dello stesso legislatore i reati di assenza dal  servizio
 sono  delineati come permanenti e piu' particolarmente con un periodo
 di  consumazione  che  puo'  particolarmente  con   un   periodo   di
 consumazione  che puo' anche durare venticinque anni circa (dall'eta'
 del servizio di leva sino al congedo assoluto).
   E' da questa situazione normativa che scaturiscono -  come  per  lo
 Spinelli  -  le  conseguenze  gia'  da questo giudice denunciate come
 trasgressive di basilari principi costituzionali; conseguenze che qui
 e' bene ancora brevemente illustrare.
   Si consideri innanzitutto come, dato che dal giudizio  in  costanza
 della  permanenza prende vita un nuovo fatto di reato che a sua volta
 richiede   un   ulteriore   giudizio,   si   instaura   la    spirale
 fatto-giudizio-fatto,   e  cosi'  via,  per  cui  la  responsabilita'
 dell'imputato non dipende soltanto  dal  suo  operato,  bensi'  -  in
 patente  violazione  dell'art.    27 primo comma della Costituzione -
 anche  dal  funzionamento  dell'apparato  giudiziario  militare.   La
 pluralita'  delle condanne per un unico reato permanente giudicato in
 piu' riprese comporta, inoltre, un progressivo aumento della  pena  e
 un  trattamento  sanzionatorio  che diviene una prova di forza tra lo
 Stato ed il condannato, chiaramente in contraddizione con la liberta'
 di coscienza garantita  dall'art.  2  della  Costituzione  e  con  la
 finalita' rieducativa della pena di cui all'art. 27 terzo comma della
 Costituzione.  Ed  ancora: la moltiplicazione dei giudizi comporta un
 innalzamento della pena, praticamente indeterminato, sino  al  limite
 del  triplo del massimo della pena edittale, in contraddizione con il
 principio di legalita' della pena sancito dall'art. 25 secondo  comma
 della Costituzione. Ne risulta, infine, violato anche il principio di
 uguaglianza  di  cui  all'art.  3  della  Costituzione,  in quanto, a
 parita'  di  periodo  di  assenza  dal   servizio,   il   trattamento
 sanzionatorio  complessivo  viene  a derivare dal grado di efficienza
 dell'apparato  giudiziario  competente a conoscere del reato nei vari
 autonomi episodi che si creano con l'interruzione giudiziale.
   Responsabile  di  quest'inaccettabile  risultato  -  che  gia'   il
 legislatore  del 1941 aveva scongiurato con la previsione di un unico
 giudizio a norma dell'art. 377 c.p.m.p. - appare, come si  e'  detto,
 l'art.    68  c.p.m.p.,  in  difetto del quale i reati di assenza dal
 servizio, in adesione alle piu' accreditate  concezioni  dottrinarie,
 sarebbero  da  considerare  instantanei;  oppure  sarebbero ancora da
 considerare permanenti, ma sencondo ben diverse modalita'  e  cadenze
 temporali,  tali  da  non comportare quella spirale delle condanne su
 cui si incentrano le censure di incostituzionalita'.
   In merito a quest'ultimo punto, non puo' infatti  sottacersi  dalla
 sfasatura  logica  e temporale esistente tra gli obblighi che vengono
 sanzionati con le varie norme penali militari da un lato, e l'obbligo
 dalla  cui  estinzione  dipende  ex  art.  68  la  cessazione   della
 permanenza nel reato dall'altro.
   L'obbligo   sanzionato   dall'art.   151   c.p.m.p.  e'  quello  di
 presentarsi ad un determinato reparto militare per  intraprendere  il
 servizio di ferma; obbligo che, con possibili evidenti conseguenze in
 ordine  alla cessazione della permanenza nel reato, muta di contenuto
 (divenendo mero obbligo di  mettersi  a  disposizione  del  distretto
 militare di appartenenza per una nuova chiamata alle armi) non appena
 con il trascorrere del tempo si abbia nell'organizzazione militare un
 nuovo  ciclo  addestrativo,  e  quindi  una nuova chiamata alle armi.
 L'obbligo sanzionato dagli art. 148 e  149  c.p.m.p.  in  materia  di
 diserzione e' quello della presenza nel reparto militare; obbligo che
 analogamente  si  modifica,  con  la  possibilita'  che  ne derivi la
 cessazione della permanenza nel reato, con il transito del disertore,
 trascorsi novanta giorni di assenza (circ. 40049/40 SD del 15  luglio
 1967), nella forza assente del distretto militare di appartenenza.
   L'obbligo   cui,  vigendo  l'art.  68  c.p.m.p.,  e'  collegata  la
 cessazione della permanenza e' invece, come si evince dagli artt. 9 e
 10 d.P.R.   14 febbraio  1964  n.  237,  quello  militare  nella  sua
 globalita',  della  durata di venticinque anni circa e comprensivo di
 vari doveri, soggezioni, limitazioni di diritti. Si tratta quindi  di
 un  dato  normativo onnicomprensivo, della prestazione militare nella
 sua globalita', che esula dai piu' limitati obblighi che stanno  alla
 base delle varie figure di reato.
   E  dunque  le  descritte  incostituzionalita'  sono  da  attribuire
 all'art.  68 c.p.m.p. non solamente perche' impedisce di  considerare
 come  istantanei  i  reati  di  assenza di servizio; ma anche perche'
 configura una permanenza sui generis, un periodo di consumazione  che
 si  prolunga  sino a coincidere con l'obbligazione militare nella sua
 interezza.
   Pertanto questo tribunale, anche cogliendo le indicazioni contenute
 nella citata  ordinanza  della  Corte,  ritiene  di  dover  sollevare
 questione  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 68 c.p.m.p., in
 relazione agli artt. 2, 3, 25 secondo comma e 27 primo e terzo  comma
 della Costituzione.
   La  questione  e' rilevante nel presente giudizio in quanto, con la
 caducazione  della  norma  impugnata,  sarebbe  evitata  un'ulteriore
 condanna per lo Spinelli.
   Ma alla dichiarazione di illegittimita' dell'art. 68 potrebbe anche
 pervenirsi,  a parere di questo tribunale, per semplice estensione, a
 norma   dell'art.   27   della   legge   11   marzo   1953   n.   87,
 dell'illegittimita'  dell'art.  377  c.p.m.p.,  gia'  pronunciata con
 sentenza della Corte n. 469 del 1990. E' evidente il nesso  dell'art.
 68  con la disposizione secondo cui, per garantire un'unica sentenza,
 il giudizio per i reati di assenza era sospeso sino  alla  cessazione
 della  permanenza.  Essendo venuto meno l'art. 377, dovrebbe pertanto
 pronunciarsi l'illegittimita' anche dell'art. 68.
                                P. Q. M.
   Letto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87;
   Dichiara non manifestamente infondata e rilevante la  questione  di
 legittimita'  costituzionale  dell'art. 68 c.p.m.p. in relazione agli
 artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo comma, della Costituzione;
   Dispone la sospensione del procedimento  e  la  trasmissione  degli
 atti alla Corte costituzionale;
   Dispone  che  l'ordinanza sia notificata alle parti e al Presidente
 del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti  dei  due  rami
 del Parlamento.
     Padova, addi' 17 settembre 1996
                    Il presidente estensore: Rosin
 96C1782