N. 136 ORDINANZA (Atto di promovimento) 3 febbraio 1997

                                N. 136
  Ordinanza  emessa  il  3  febbraio  1997  dal  pretore di Milano sui
 ricorsi riuniti proposti da Longoni Davide  ed  altri  contro  l'Ente
 poste italiane
 Poste  e telecomunicazioni - Ente poste italiane - Dipendenti assunti
    con contratto a tempo determinato - Trasformazione del rapporto di
    lavoro in rapporto a  tempo  indeterminato,  cosi'  come  previsto
    dalla  precedente  disciplina  -  Esclusione,  disposta  con norma
    avente   effetto  retroattivo  -  Incidenza  sul  principio  della
    irretroattivita'  della  legge  -   Lesione   del   principio   di
    eguaglianza  e  del  diritto  e della tutela del lavoro - Indebita
    legiferazione in materia riservata alla contrattazione  collettiva
    -  Violazione  della  tutela giurisdizionale - Richiamo a numerose
    decisioni della Corte costituzionale.
 (Legge 28 novembre 1996, n. 608, art. 9, comma 21).
 (Cost., artt. 3, 4, 24, 35, 39, 101 e 104).
(GU n.14 del 2-4-1997 )
                              IL PRETORE
   Ha emesso la seguente ordinanza di  rimessione  degli  atti    alla
 Corte   costituzionale  nelle  cause  iscritte  ai  nn.  7376/1996  e
 8264/1996   r.g.l.   della   pretura   circondariale    di    Milano,
 rispettivamente promosse da:
     1) Longoni Davide, con l'avv.to Russo;
     2)  Mazzini  Marina  e  Fiorentin  Clara, con gli avv.ti Medina e
 Sertori;
 contro: Ente poste italiane, con  l'avv.to  Amato  (costituito  nella
 prima) e l'avv.to Natoli (costituito nella seconda).
   Longoni Davide, Mazzini Marina e Fiorentin Carla sono stati assunti
 dall'Ente   poste  italiane    con  contratto  a  tempo  determinato,
 rispettivamente per il periodo 1 marzo/30  giugno  1996;  4  aprile/3
 luglio 1996 e 16 marzo/15 luglio 1996. Nelle tre lettere, di identico
 tenore,  con  cui  e'  stato formalizzato il rapporto si legge che la
 "assunzione viene effettuata alle condizioni di legge e del CCNL  del
 26 novembre 1994 ed in particolare per necessita' di espletamento del
 servizio  in  sostituzione  del  lavoratore  assente con diritto alla
 conservazione del posto (art. 8 CCNL)".
   In realta', le ragioni addotte a  giustificazione  dell'apposizione
 del  termine non rientrano in alcuna delle ipotesi previste dall'art.
 8 CCNL 26 novembre 1996, ne' rispettano le previsioni della legge  n.
 230/1962,  dal  momento  che  la  norma  contrattuale (secondo comma)
 autorizza - in deroga alle piu'  rigide  previsioni  della  legge  n.
 230/1962   ed   "in  attuazione  di  quanto  specificamente  previsto
 dall'art.  23, punto 1), della legge 28 febbraio 1987, n.  56"  -  la
 stipulazione  di  contratti a termine per "necessita' di espletamento
 del servizio  in  concomitanza  di  assenze  per  ferie  nel  periodo
 giugno-settembre",  per  "incrementi  di  attivita'  in dipendenza di
 eventi eccezionali o esigenze produttive particolari e  di  carattere
 temporaneo  che non sia possibile soddisfare con il normale organico"
 e per "punte di piu' intensa attivita' stagionale", e che la legge n.
 230/1962 (espressamente richiamata al primo comma dell'art.  8),  pur
 consentendo  (art.  1  secondo comma, lett. b) di fare ricorso a tale
 tipo di contratti per la sostituzione "di lavoratori assenti e per  i
 quali  sussiste il diritto alla conservazione del posto", subordina -
 pero' - detta possibilita' alla  condizione  che  "nel  contratto  di
 lavoro  a termine sia indicato il nome del lavoratore sostituito e la
 causa della sua sostituzione".
   Si dovrebbe, pertanto, dar atto - ex art.  1,  primo  comma,  della
 legge  n.  230/1962  -  del  carattere  ab  origine indeterminato dei
 rapporti dedotti in giudizio, ma la possibilita' di partire  da  tale
 premessa  per affrontare le ulteriori domande attoree (tra cui quella
 di reintegrazione nel posto di lavoro) e' -  allo  stato  -  preclusa
 dalla   recente   emanazione   di   nuove   disposizioni   di  legge,
 precipuamente finalizzate ad inibire tale effetto.
   Il  quadro dei riferimenti normativi, legali e contrattuali, di cui
 innanzi si e' detto e' stato, infatti, completamente travolto -  dopo
 un  primo  decreto-legge  (404/1996)  di  formulazione diversa, ma di
 analoghe  finalita',  decaduto  -  dal  decreto-legge  n.   510/1996,
 convertito  senza  modifiche per la parte che qui interessa con legge
 n. 608/1996,  che  all'art.  9,  ventunesimo  comma,  seconda  parte,
 dispone:  "Le assunzioni di personale con contratto di lavoro a tempo
 determinato  effettuate  dall'Ente  poste italiane, a decorrere dalla
 data della sua costituzione e comunque non oltre il 30  giugno  1997,
 non  possono  dar  luogo a rapporti di lavoro a tempo indeterminato e
 decadono allo scadere del termine finale di ciascun contratto".
   I difensori di parte ricorrente hanno, per il vero, proposto chiavi
 di  lettura  della  nuova  normativa  che   escluderebbero   la   sua
 applicabilita'  alle fattispecie in esame, sostenendo rispettivamente
 che:
     il divieto  di  conversione  che  da  essa  nasce  non  puo'  che
 riferirsi  alle sole assunzioni effettuate nel rispetto dei requisiti
 prescritti per la validita' dei  contratti  a  termine,  poiche'  una
 simile  limitazione  -  presupponendo  una  modifica  dell'originario
 carattere del rapporto - e'  concettualmente  incompatibile  con  gli
 pseudo  contratti  a termine, che gia' sono - ope legis - contratti a
 tempo indeterminato fin dal loro sorgere;
     il verbo usato ("non possono")  circoscrive  la  deroga  ai  soli
 rapporti  ancora in corso alla data di entrata in vigore della norma,
 non potendo un comando formulato al presente  riguardare  fattispecie
 che,   per   effetto  della  nullita'  del  termine,  si  erano  gia'
 trasformate al momento della sua  emanazione  in  contratti  a  tempo
 indeterminato.
   Le  argomentazioni  che li accompagnano rivelano chiaramente che al
 fondo  di  tali  sforzi  interpretativi  sta  di  fatto   la   comune
 difficolta'  di  accettare  una  modifica  a  posteriori delle regole
 preventivamente  date.  Ma,  che  l'intento   del   legislatore   sia
 esattamente  stato  quello  di  congelare  l'automatismo previsto dal
 primo comma dell'art. 1 della legge n. 230/1962, per  un  periodo  di
 oltre  tre  anni  e  con specifico riferimento ai contratti a termine
 "irregolari" stipulati dall'E.P.I., gia' conclusi o ancora in  corso,
 ovvero  stipulandi sino alla fine del prossimo mese di giugno, sembra
 alla scrivente una conclusione ben  difficilmente  contestabile  alla
 luce  della  stessa lettera della norma, tenuto conto della esplicita
 retrodatazione dei suoi effetti alla data di  costituzione  dell'ente
 che - da un lato - direttamente contraddice il significato attribuito
 all'uso  del  presente  indicativo (che, anzi, nel contesto in cui e'
 inserito, sottolinea semmai la perentorieta' del  divieto)  e  che  -
 dall'altro lato - rende assolutamente improbabile che con essa si sia
 voluto  -  oltre  che limitare la futura liberta' dell'ente (anziche'
 rafforzarla, consentendogli di continuare  a  stipulare  contratti  a
 termine  atipici,  senza  costi in termini di stabilita' dei relativi
 rapporti) - rimuovere, tornando indietro di quasi tre  anni,  solo  e
 proprio  quei  contratti  che esso abbia in ipotesi spontaneamente ed
 intenzionalmente  confermato,  in  base  -  evidentemente  -  ad  una
 valutazione di propria utilita' e convenienza.
   Di  quali  siano  state  le  ragioni,  coerentemente tradotte nella
 formulazione della norma, che hanno spinto prima il Governo e poi  il
 Parlamento  ad  imboccare tale via, da'  - d'altra parte - una chiara
 testimonianza il dibattito che ha  preceduto  la  sua  coversione  in
 legge  e  la  stessa accettazione, come da verbali della seduta della
 Camera dei deputati del  27  novembre  1996,  da  parte  del  Governo
 dell'ordine   del   giorno  Borghetta  e  Strambi  n.  9/2698/1  (non
 sottoposto per tale ragione a votazione) e - quindi - dell'impegno "a
 garantire comunque l'assunzione di  quanti  hanno  proposto  e  vinto
 ricorso  in  prima  istanza o inoltrato ricorso prima dell'emanazione
 del decreto n. 404 del 1996".
   Deve, dunque, darsi per assodato che  le  retroattive  disposizioni
 dell'art.  9, ventunesimo comma, della legge n. 510/1996 si applicano
 anche alle fattispecie in oggetto (identiche o analoghe a molte altre
 in attesa di sentenza o gia' accolte in primo grado), con conseguente
 rilevanza nella decisione demandata a questo giudice  dei  non  pochi
 dubbi  che  esse  pongono  rispetto  a  numerose  norme  della  Carta
 costituzionale.
   La questione  e'  gia'  stata  sottoposta  al  vaglio  della  Corte
 costituzionale  da  altri  pretori  (pretore  di Genova, ordinanza n.
 1299, in Gazzetta Ufficiale del 4 dicembre 1996;  pretore  di  Fermo,
 ordinanza  del  22  ottobre 1996; pretore di Torino, ordinanza del 16
 dicembre 1996; pretore di Padova, ordinanza del  17  dicembre  1996),
 che hanno richiamato l'attenzione - con diverse intensita' ed accenti
 -  sull'incompatibilita' della disciplina de qua con il dettato degli
 artt. 3, 4, 35, 39, 41, 101, 102 e 104 della Costituzione, oltre  che
 -  sotto  il  profilo (oggi superato dalla intervenuta conversione in
 legge) di un ingiustificato ricorso alla decretazione d'urgenza - con
 l'art. 77 della Costituzione (pretore di Genova).
   Ad evitare l'inutile ripetizione di rilievi ed argomentazioni, gia'
 proposti in detti provvedimenti, si concentrera' - pertanto - l'esame
 su  alcuni  specifici  aspetti,  che  per  la  loro  peculiarita'   o
 particolare gravita' meritano - ad avviso della scrivente - di essere
 ulteriormente  evidenziati,  a partire dalle condotte e dalle ragioni
 che hanno generato l'attuale situazione e che gia' segnalano la netta
 frattura esistente tra il principio universale di uguaglianza di  cui
 all'art.  3  della Costituzione e la disuguale soluzione adottata dal
 legislatore per far fronte ai problemi, con cui - in mancanza di tale
 ancora di  salvataggio  -  si  dovrebbe  oggi  confrontare  l'E.P.I.,
 avendovi   -   pero'   -   esso  stesso  dato  causa  ieri,  violando
 sistematicamente la normativa vigente in  materia  ed  alimentando  a
 catena  -  attraverso  la  successiva assunzione a termine di persone
 sempre diverse - il numero degli aventi diritto,  in  base  ad  essa,
 alla stabilizzazione del rapporto.
   II  "piano  assunzionale  di  n. 3.200 unita'", recentemente varato
 dall'E.P.I.  "per  sopperire  alle  esigenze  i  personale  dell'area
 operativa,  prevalentemente  nel  settore  del recapito" (e cioe' per
 mansioni identiche o  quantomeno  equivalenti  a  quelle  svolte  dal
 personale  precedentemente assunto a termine, al quale - in linea con
 le disposizioni della prima parte del comma ventunesimo  dell'art.  9
 decreto-legge  n.  510/1996  -  e'  stato  garantito  un  diritto  di
 precedenza sugli altri aspiranti)  pone  -  per  la  verita'  -  seri
 interrogativi  sulla  reale  esistenza  o, comunque, dimensione della
 asserita sproporzione del numero degli aventi diritto (ed  interesse)
 all'accertamento  della nullita' del termine ed alla prosecuzione del
 rapporto  rispetto  alle  effettive  ed  attuali esigenze di organico
 dell'ente.
   Anche ad ammettere, tuttavia, che il numero dei lavoratori  assunti
 con  contratti a termine non rispondenti ai requisiti di legge e/o di
 contratto  (a  decorrere  non  tanto  dalla  data   di   costituzione
 dell'E.P.I., ma dalla data di stipulazione del primo CCNL di settore)
 davvero  superi  le sue presenti ed immediatamente future esigenze di
 organico, non si potrebbe comunque ignorare che:
     il decreto-legge n. 487/1993, convertito nella legge n.  71/1994,
 dopo  aver trasformato (art. 1, primo comma) "l'amministrazione delle
 poste  e  delle  telecomunicazioni...  in  ente  pubblico   economico
 denominato  ente  "Poste  italiane".."  e  stabilito (art. 6, secondo
 comma) che il personale della  cessata  amministrazione  "resta  alle
 dipendenze  dell'ente,  con rapporto di diritto privato", ha previsto
 (art. 6, comma sesto) che  "ai  dipendenti  dell'ente  continuano  ad
 applicarsi  i  trattamenti vigenti alla data di entrata in vigore del
 presente decreto fino alla stipulazione di un nuovo contratto";
     nessuna variante e'  stata  introdotta,  rispetto  alle  scadenze
 sopra   indicate,  dallo  statuto  dell'E.P.I.,  di  cui  al  decreto
 interministeriale 14 aprile 1994 nel quale solo  si  ribadisce  (art.
 17)   che   "il   rapporto  di  lavoro  del  personale  dell'ente  e'
 disciplinato dal codice civile, libro V, dalle leggi che regolano  il
 rapporto  di  lavoro  nell'impresa,  dal  regolamento d'azienda e dal
 contratto  individuale  e  collettivo",   a   livello   nazionale   e
 decentrato;
     l'E.P.I. ha pertanto fruito, tenuto conto del tempo trascorso tra
 la  data  della  sua  costituzione  e di quella di sottoscrizione del
 primo CCNL di settore, di un periodo di  transizione  di  circa  nove
 mesi,  destinato - nell'ottica del legislatore - proprio a consentire
 un morbido e graduale adattamento ai  diversi  vincoli  e  formalita'
 connessi  alla  trasformazione  dei  rapporti di lavoro da pubblici a
 privati;
     in sede di contrattazione collettiva, le  disposizioni  dell'art.
 23  legge  n.  56/1987  hanno consentito all'ente di individuare e di
 pattuire con  le  OO.SS.  dei  lavoratori  delle  specifiche  ipotesi
 (recepite - come si e' visto - nell'art. 8 del CCNL 26 novembre 1994)
 di  lecito  ricorso  ai  contratti  a  termine  in  aggiunta a quelle
 previste in via generale dalla legge n. 230/1962;
     v'e' da supporre che tale allargamento rispondesse  -  in  quanto
 risultato  di  un  libero confronto e di una libera trattativa, e non
 frutto di un'imposizione esterna - alle necessita' prospettate  dallo
 esso  ente  o  rappresentasse,  quantomeno,  una  soluzione  con esse
 compatibili;
     l'ampia  discrezionalita'  ad  esse  concessa  dalle   previsioni
 dell'art.    23  della  legge  n. 56/1987 ben avrebbe, d'altra parte,
 consentito  alle  parti  collettive  di  prorogare  -  con  specifico
 riferimento  alla  materia dei contratti a termine - la stessa durata
 della fase transitoria prevista dalla legge n. 71/1994 o di graduare,
 adattandoli  alle  esigenze  del  caso,  i  tempi  di  definitiva  ed
 integrale  applicazione  delle previsioni della legge n. 230/1962 e/o
 delle stesse varianti ad essa apportate attraverso l'art. 8 del CCNL;
      le ipotesi previste dal secondo comma dall'art. 8 del  CCNL,  in
 aggiunta a quelle gia' contemplate dalla legge n. 230/1962, coprono -
 in  ogni  caso  -  un assai vasto arco di situazioni, talche' sarebbe
 arduo sostenere  che  l'ente  non  avesse  a  disposizione  strumenti
 adeguati  e  sufficienti  a  far fronte, mantenendosi all'interno dei
 confini ad esso  tracciati  dalla  legislazione  in  vigore  e  dagli
 impegni  contrattualmente  assunti,  ai bisogni legati all'efficiente
 organizzazione ed offerta del servizio ad esso demandato;
     le  violazioni  riscontrate,  oltretutto,  non   sempre   o   non
 necessariamente sottintendono la carenza dei presupposti sostanziali,
 che   hanno   a  monte  influenzato  le  deroghe  introdotte  in  via
 legislativa o contrattuale alla regola della durata indeterminata del
 rapporto  di  lavoro  subordinato,  mentre  senz'altro  rivelano  una
 diffusa  noncuranza  (tenuto conto in tale valutazione anche dei casi
 segnalati nelle  ordinanze  sopra  richiamate  e  dell'insieme  delle
 controversie di analogo oggetto, gia' decise o ancora pendenti avanti
 questo stesso giudice, e non trasmessi alla Corte solo per evitare un
 inutile  appesantimento  della pratica) dei vincoli di forma, imposti
 al fine di darne una preventiva e puntuale attestazione.
     In tale quadro, neppure le disposizioni rivolte a disciplinare il
 futuro (non direttamente rilevanti, in  ogni  caso,  nella  decisione
 delle  cause in oggetto) si sottraggono a dubbi di costituzionalita',
 tenuto conto sia dell'assoluto vuoto di normativa creato attorno alle
 assunzioni a termine effettuate dall'E.P.I. "non oltre il  30  giugno
 1997"   (a   differenza   di   quanto  avviene  per  qualsiasi  altro
 imprenditore e di quanto, ad esempio, in precedenza previsto  per  lo
 stesso E.P.I. dal decreto-legge n. 404/1996, che aveva - quantomeno -
 ripristinato la normativa pubblicistica anteriormente in vigore); sia
 dell'incertezza  sulla  effettiva  durata  dell'anomia  (non essendo,
 infatti, per nulla chiaro se il prossimo 30 giugno riguardi anche  la
 scadenza  dei  contratti  a termine liberalizzati ovvero solo la data
 entro cui deve avvenire l'assunzione, con scadenza  indefinita  anche
 oltre   tale   epoca),   sia   della   ben  difficile  compatibilita'
 dell'eccezione introdotta (che non solo sottrae alla  loro  sfera  di
 intervento  una  competenza  gia' per legge demandata alle OO.SS., ma
 che  si  sovrappone,  neutralizzandole  temporaneamente,  ad   intese
 sindacali  gia'  sottoscritte)  con  le previsioni dell'art. 39 della
 Costituzione.
   Se, fatta sempre  salva  la  necessita'  di  una  miglior  verifica
 dell'effettiva  dimensione  deI  problema  che  ne e' la premessa, le
 disposizioni rivolte al futuro possono almeno contare su  ragioni  di
 "oggettiva"  opportunita' in quanto dirette - a prescindere dalle sue
 cause - a prevenire  l'ulteriore  aggravamento  della  situazione  in
 atto,  e  se  l'eccezionalita'  della  deroga da esse introdotta puo'
 essere compensata dalla preventiva conoscenza  della  sua  portata  e
 della  sua  provvisoria  durata, le disposizioni rivolte al passato -
 finalizzate a porre rimedio ad una situazione  gia'  consolidata,  in
 tesi   d'emergenza,  ma  direttamente  creata  ed  alimentata  e  non
 passivamente subita dall'E.P.I., attraverso  la  rimozione  d'imperio
 non  di  mere  aspettative,  bensi'  di  diritti  gia' acquisiti, che
 l'intervento del giudice non costituisce, ma semplicemente  dichiara,
 e  -  per di piu' attinenti un bene di tale rilevanza da essere posto
 dalla  Costituzione  a  fondamento  della   Repubblica   Italiana   -
 acquistano  l'amaro  sapore di un intervento premiale a favore di chi
 ha ripetutamente violato la legge e punitivo  nei  confronti  di  chi
 quella legge era destinata a tutelare.
   Il   confronto   tra   la  benevolenza  del  trattamento  riservato
 all'E.P.I., con la cancellazione di  tutte  le  conseguenze  da  esso
 direttamente  prodotte,  e  l'indifferenza  viceversa  mostrata per i
 diritti gia' entrati  in  forza  della  previgente  legislazione  nel
 patrimonio  dei  lavoratori,  con compressione - anziche' promozione,
 cosi' come previsto dall'art. 4 Cost. - delle condizioni che  rendono
 effettivo  il  diritto al lavoro e sottrazione - anziche' incremento,
 cosi' come previsto dall'art. 35 della Costituzione - della tutela  a
 tale  bene,  evidenzia un atteggiamento di pregiudiziale favore nella
 considerazione e protezione degli interessi del primo  rispetto  agli
 interessi dei secondi, che - anche al di la' delle molte ed ulteriori
 differenze di disciplina che da esso derivano (indubbiamente anomale,
 nel  caso  di  specie,  a causa della loro imposizione ex lege, ma in
 astratto compatibili con la flessibilita' introdotta  in  materia  di
 contratti  a  termine  dalla  legge n. 56/1987) - mina alla radice il
 principio di uguaglianza di "tutti  i  cittadini.  ...  davanti  alla
 legge"  rischiando  di  mettere in discussione le stesse ragioni che,
 nel patto sociale, attribuiscono autorevolezza  e  credibilita'  alla
 funzione  legislativa, rafforzando l'obbligo formale di rispettare le
 leggi con la convinzione di doverle rispettare.
   Della gravita' di tale atteggiamento e del rischio che ne  consegue
 e',  ovviamente,  una  componente  primaria  il carattere retroattivo
 della disposizione in  esame,  poiche'  se  e'  ben  vero  che  nella
 Costituzione il divieto di retroattivita' e' esplicitamente formulato
 in  riferimento  alla  sola  legge penale, la negazione di un analogo
 divieto,  di  portata  generale,  presupposto  e  non  effetto  delle
 disposizioni  recepite con lapidaria chiarezza ("La legge non dispone
 che per l'avvenire; essa non   ha  effetto  retroattivo.)  nel  primo
 comma  dell'art. 11 delle disposizioni preliminari del codice civile,
 farebbe venir meno  la  stessa  ragione  fondante  -  in  un  sistema
 democratico  -  del  potere  legislativo  ed  insieme del ruolo della
 giurisdizione, contraddicendo la funzione del primo di dettare in via
 anticipata ed astratta le regole di comportamento che disciplinano la
 convivenza  civile,  per   consentire   a   tutti   i   suoi   membri
 indistintamente  di operare le proprie scelte, conformi o meno a tali
 regole, ma  in  ogni  caso  con  preventiva  cognizione  (o  comunque
 conoscibilita') delle conseguenze del loro agire, e compromettendo il
 neutrale  ed  indipendente  controllo  (artt.    24,  101 e 104 della
 Costituzione), attribuito alla  seconda  anche  contro  i  rischi  di
 prevaricazione dei "poteri forti", sull'osservanza o sulla violazione
 nel  singolo  caso  delle  leggi  gia'  date e delle conseguenze gia'
 pronosticate, in via  generale  ed  astratta,  per  l'una  o  l'altra
 ipotesi.
   Vero e' che l'individuazione del suo carattere retroattivo - che e'
 sempre  di  immediata evidenza nel caso della legge penale, in quanto
 sol  legato  al  tempo  di  commissione  della  condotta  (attiva  od
 omissiva)  rilevante  rispetto  alla  data di entrata in vigore della
 norma che la vieta o la impone - puo', viceversa,  essere  tutt'altro
 che agevole nel caso della legge civile, nella quale non raramente la
 stessa  durata  nel  tempo  di  determinati  eventi o comportamenti o
 inerzie e' assunta ad elemento costitutivo della fattispecie e  nella
 quale, pertanto, la modifica in itinere degli originari requisiti cui
 era   collegata   la   maturazione  o  l'estinzione  di  un  diritto,
 connaturata  alla  necessita'   della   legislazione   di   adeguarsi
 progressivamente,  se  non  gia'  di  anticiparle e di guidarle, alle
 trasformazioni  della  realta'  che essa e' destinata a disciplinare,
 potrebbe  facilmente,  ma  erroneamente,  essere   confusa   con   la
 retroattivita' della legge.
   Un  simile  pericolo, che forse anche spiega la ragione del diretto
 divieto formulato nel secondo comma dell'art. 25  della  Costituzione
 solo  rispetto  alla  legge  penale,  neppur  puo'  essere  - pero' -
 paventato nel caso in esame, dal  momento  che  -  come  gia'  si  e'
 ripetutamente  rilevato - la modifica legislativa di cui si tratta e'
 dichiaratamente volta  a  rimuovere  diritti  gia'  perfetti,  e  non
 semplicemente perfettibili.
   Della  delicatezza  del  problema  posto  dalla interferenza di una
 legge  retroattiva  con   i   principi-cardine   sui   quali,   anche
 indipendentemente   dalla   loro   esplicita  recezione  nella  Carta
 costituzionale, comunque si fonda il sistema democratico italiano  ha
 -  d'altra  parte  - ripetutamente dato atto la Corte costituzionale,
 chiarendo (cosi' in sentenza n.    311/1995,  a  proposito  di  leggi
 interpretative) che "la sovrana volonta' del legislatore nell'emanare
 dette leggi incontra una serie di limiti che questa Corte ha da tempo
 individuato,  e  che  attengono alla salvaguardia, oltre che di norme
 costituzionali, di fondamentali valori di civilta' giuridica posti  a
 tutela  dei  destinatari  della  norma e dello stesso ordinamento nei
 quali  vanno  ricompresi  il  rispetto  del  principio  generale   di
 ragionevolezza  che  ridonda nel divieto di introdurre ingiustificate
 disparita' di trattamento (sentenze nn. 397 e 6 del 1994; 424  e  283
 del  1993;  440  del 1992 e 429 del 1993), la tutela dell'affidamento
 legittimamente sorto nei soggetti quale  principio  connaturato  allo
 Stato  di  diritto  (sentenze nn. 397 e 6 del 1994; 429 del 1993; 822
 del 1988), e il rispetto delle funzioni costituzionalmente  riservate
 al potere giudiziario".
   Partendo  da  tali  rilievi,  la  Corte  ha  comunque costantemente
 ancorato   la   propria   valutazione   sulla   costituzionalita'   o
 incostituzionalita'  di leggi retroattive in materia civile (peraltro
 quasi sempre emanate sotto la  forma  di  leggi  di  "interpretazione
 autentica") ad un giudizio di ragionevolezza o irragionevolezza della
 soluzione a posteriori adottata dal legislatore, individuando in tali
 caratteristiche  gli  indici  del  rispetto  o  della  violazione del
 principio  di  non  discriminazione  di  cui  all'art.  3  Cost.,   e
 ritenendo,   in   particolare  (sentenza  n.     376/1995),  che  "la
 possibilita' di adottare norme dotate di  efficacia  retroattiva  non
 puo'   essere   esclusa,  ove  esse  vengano  a  trovare  un'adeguata
 giustificazione sul piano della ragionevolezza e non  si  pongano  in
 contrasto  con  altri  principi  o valori costituzionalmente protetti
 (sentenze nn. 397, 153 e 6 del 1994)".
   Anche rimanendo all'interno  di  tali  coordinate  non  dovrebbero,
 tuttavia,  esservi  dubbi  sulla  incostituzionalita' della soluzione
 adottata nel caso di  specie  che  non  solo  prescinde  dalle  cause
 dell'accaduto,  sacrificando  ad  esigenze  contingenti beni (lavoro,
 liberta' sindacale, tutela  giurisdizionale)  di  primaria  rilevanza
 costituzionale,  ma  prescinde - altresi' - dall'esistenza nel nostro
 ordinamento di  rimedi  specifici  -  anch'essi  traumatici,  ma  non
 eccezionali  -  che  pur  consentono  al  datore di lavoro di ridurre
 l'organico, asseritamente  esuberante,  con  l'onere  -  pero'  -  di
 osservare  l'apposita  procedura  dettata dalla legge n. 223/1991, al
 fine di dare trasparenza all'operato  datoriale  e  di  garantire  il
 controllo  sindacale  sulle  cause dell'addotto esubero; sull'entita'
 dei tagli effettivamente necessari; sulla percorribilita'  di  strade
 alternative  e  sui criteri (per legge riferiti, salva diversa intesa
 sindacale, anche  a  fattori  soggettivi  e  sociali,  oltre  che  ad
 esigenze tecniche) da adottare per la selezione.
   La  legge  n.  223/1991 rappresenta, com'e' noto, la traduzione nel
 nostro ordinamento di una risalente direttiva CEE e, segnando la  via
 obbligata attraverso cui deve realizzarsi nel nostro Paese - in forza
 della fonte sovranazionale - la tutela del lavoro, individua anche il
 parametro  minimo ed irriducibile cui va oggi commisurato l'effettivo
 rispetto dell'impegno assunto negli artt. 4 e 35 della  Costituzione,
 che  deve  ovviamente  ritenersi  violato non solo quando si pervenga
 all'espulsione di chi e' ufficialmente dipendente  senza  attuare  la
 prescritta  procedura,  ma  anche  - ed a maggior ragione - quando si
 elimini a  monte  la  necessita'  stessa  di  fare  ricorso  ad  essa
 ridimensionando a priori il numero dei dipendenti in forza.
     Dalla  stessa  legge  risulta,  inoltre, arricchito il ruolo e la
 funzione attribuita nel  nostro  ordinamento  ai  sindacati,  talche'
 l'adozione  di  un provvedimento che di fatto sottrae alle OO.SS. dei
 lavoratori la possibilita' di verificare l'entita' dell'esubero e  di
 interloquire   sui  rimedi  esperibili  ed  effettivamente  necessari
 aggiunge gravita' al danno gia' prodotto alla  loro  credibilita'  ed
 immagine  -  e,  di  riflesso,  al bene tutelato dall'art. 39 Cost. -
 dapprima dalla totale indifferenza mostrata dall'E.P.I. rispetto agli
 obblighi assunti con il CCNL 26 novembre 1994 e poi  dalla  sanatoria
 incondizionatamente  concessa dal legislatore attraverso la normativa
 de qua.
     Ne  consegue,  per  l'insieme  de  rilievi  che   precedono,   la
 necessita'  di  sottoporre  le  disposizioni  della seconda parte del
 ventunesimo comma dell'art. 9, legge  n.  608/1996,  all'esame  della
 Corte  costituzionale per la verifica della loro compatibilita' con i
 valori ed il dettato della Costituzione.
                                P. Q. M.
   Visto l'art. 23 della legge n. 87/1953;
   Dichiara rilevante e non manifestatamente infondata la questione di
 legittimita' costituzionale dell'art.  9,  comma  ventunesimo,  della
 legge n. 608/1996, nella parte in cui dispone con effetti retroattivi
 che:  "Le  assunzioni  di  personale  con contratto di lavoro a tempo
 determinato effettuate dall'Ente poste italiane,  a  decorrere  dalla
 data  della  sua costituzione e comunque non oltre il 30 giugno 1997,
 non possono dar luogo a rapporti di lavoro a  tempo  indeterminato  e
 decadono  allo  scadere  del  termine finale di ciascun contratto" in
 quanto in contrasto con gli artt. 3, 4, 35 e 39 della Costituzione  e
 - per riflesso - con gli artt. 24, 101 e 104 della Costituzione;
   Dispone  la  sospensione  dei  giudizi  indicati  in  epigrafe fino
 all'esito del giudizio di legittimita' costituzionale;
   Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
   Manda alla cancelleria per la notifica del  presente  provvedimento
 alle  parti  in  causa  ed  al Presidente del Consiglio dei Ministri,
 nonche' per la relativa comunicazione ai Presidenti della  Camera  de
 deputati e del Senato della Repubblica.
     Milano, addi' 3 febbraio 1997
                        Il pretore: Mascarello
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