N. 146 SENTENZA 19 - 23 maggio 1997

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Processo penale - Dibattimento - Facolta' dell'imputato di presentare
 richiesta di applicazione della pena a norma dell'art. 444 del c.p.p.
 relativamente  a  fatto  nuovo  di  cui  il giudice ha autorizzato la
 contestazione - Omessa previsione - Riferimento  alla  giurisprudenza
 della  Corte  in  materia  (v.  sentenze  n. 265/1994 e n. 41/1994) -
 Evenienza  non  infrequente  e  non  imprevedibile  dato  lo  stretto
 rapporto  intercorrente  tra  l'imputazione  originaria  e  il  reato
 connesso - Possibilita' per l'imputato  che  non  abbia  prestato  il
 consenso  alla  contestazione  suppletiva  di presentare richiesta di
 applicazione della pena fin dall'inizio  delle  indagini  preliminari
 disposte dal p.m. per il fatto nuovo - Non fondatezza.
 
 (C.P.P., art. 518).
 
 (Cost., art. 3).
 
(GU n.22 del 28-5-1997 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
  Presidente: dott. Renato GRANATA;
  Giudici:  prof.  Giuliano  VASSALLI, prof. Cesare MIRABELLI,   prof.
 Fernando SANTOSUOSSO,   avv. Massimo VARI,    dott.  Cesare  RUPERTO,
 dott.  Riccardo CHIEPPA,   prof. Gustavo ZAGREBELSKY,  prof.  Valerio
 ONIDA,  avv. Fernanda CONTRI,  prof. Guido NEPPI MODONA,  prof. Piero
 Alberto CAPOTOSTI;
 ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 518 del  codice
 di  procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 17 maggio 1996
 dal  pretore  di  Pinerolo,  nel  procedimento  penale  a  carico  di
 Pochettino  Cristiano, iscritta al n. 810 del registro ordinanze 1996
 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.  36,  prima
 serie speciale, dell'anno 1996.
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito nella camera di consiglio  del  23  aprile  1997  il  giudice
 relatore Guido Neppi Modona.
                           Ritenuto in fatto
   1. -  Con ordinanza emessa il 17 maggio 1996 il pretore di Pinerolo
 ha sollevato questione di legittimita' costituzionale, in riferimento
 all'art.  3 della Costituzione, dell'art. 518 del codice di procedura
 penale "nella parte in cui non prevede la  facolta'  delle  parti  di
 richiedere al giudice del dibattimento l'applicazione di pena a norma
 dell'art.  444  c.p.p.,  in  relazione  al fatto nuovo risultante dal
 dibattimento la cui contestazione venga autorizzata in udienza".
   Premette in fatto il rimettente che nel corso del  dibattimento  il
 pubblico  ministero, a seguito delle dichiarazioni rese dall'imputato
 in sede di esame, ha chiesto di essere autorizzato alla contestazione
 nei suoi confronti di un fatto nuovo (originariamente  contestato  al
 solo  coimputato);  l'imputato  ha  dichiarato  di  voler prestare il
 proprio consenso a condizione di poter definire il giudizio,  per  la
 parte  relativa al fatto nuovo, con richiesta di applicazione ex art.
 444 del codice di procedura  penale  e  ha  contestualmente  proposto
 istanza di "patteggiamento", cui il pubblico ministero ha aderito.
   Il  pretore osserva che l'art. 518 cod. proc. pen. non contempla la
 facolta' dell'imputato di richiedere  al  giudice  l'applicazione  di
 pena  a  norma  dell'art.  444  cod. proc. pen. in relazione al fatto
 nuovo contestato in udienza, sicche'  la  richiesta  di  applicazione
 della  pena  formulata in giudizio dall'imputato non potrebbe trovare
 accoglimento, ne' potrebbe essere  autorizzata  la  contestazione  in
 udienza  del  fatto  nuovo,  avendo  l'imputato  subordinato  il  suo
 consenso alla possibilita' di accedere al "patteggiamento"; e cio'  -
 sottolinea  il  rimettente  -  anche  se  il  pubblico  ministero  ha
 acconsentito  al  rito  semplificato  e  la  richiesta  dell'imputato
 potrebbe  trovare  accoglimento  in  quanto  conforme  ai presupposti
 richiesti dall'art. 444 cod. proc.  pen.
   Il giudice a quo, pur dando atto che  la  Corte  costituzionale  ha
 gia'  esaminato nella sentenza n. 41 del 1994 la specifica ipotesi di
 contestazione dibattimentale del fatto nuovo affermando che non vi e'
 contrasto fra la preclusione alla facolta' di  richiedere  in  questa
 ipotesi  l'applicazione  concordata  della pena e gli articoli 3 e 24
 Cost., ritiene siano  prospettabili,  con  riferimento  all'art.    3
 Cost.,   nuovi   dubbi   di   legittimita'   della   disciplina   per
 l'irragionevole  disparita'  di   trattamento   tra   la   situazione
 dell'imputato  al quale, per effetto della successiva sentenza n. 265
 del 1994, e' consentito formulare richiesta  di  "patteggiamento"  in
 relazione  a  un fatto diverso o a un reato concorrente contestati in
 udienza ai sensi degli artt.  516 e 517 cod. proc. pen. e quella  non
 dissimile dell'imputato al quale tale facolta' e' negata in ordine al
 fatto  nuovo.  Ad  avviso  del rimettente, infatti, una volta che con
 tale pronuncia e' stata introdotta la possibilita' rispetto al  fatto
 diverso  e  al  reato  concorrente di richiedere l'applicazione della
 pena anche a dibattimento iniziato, "non appare piu' ragionevole  (e,
 dunque,  viola  l'art.  3  Cost.) la preclusione all'adozione di tale
 rito semplificato nell'analogo caso di contestazione del fatto  nuovo
 laddove  tale  preclusione  si traduca in un inutile (ed irrazionale)
 dispendio di energie processuali".   Di qui  l'ulteriore  pregiudizio
 alla  speditezza  e celerita' del procedimento indicato dal giudice a
 quo come secondo profilo di illegittimita' della norma impugnata.
   2.  -  Nel  giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei
 Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato, per chiedere che la questione sia dichiarata infondata.
   L'Avvocatura  rileva  che  nell'ordinanza di rimessione non vengono
 prospettati profili di costituzionalita' sostanzialmente  diversi  da
 quelli  gia'  oggetto di esame da parte della Corte nella sentenza n.
 41 del 1994 e osserva che la peculiarita' delle situazioni  prese  in
 esame  dalla  Corte  nella  successiva  sentenza  n. 265 del 1994 non
 costituisce motivo sufficiente di deroga alla regola generale, allora
 affermata  dalla  Corte,  secondo  cui  il  pubblico  ministero  deve
 procedere   nelle   forme  ordinarie,  "salva  soltanto  la  facolta'
 dell'imputato presente di prestare il proprio consenso - ma con  ogni
 valutazione   conseguenziale   a  suo  carico  -  alla  contestazione
 immediata".
   Sulla presunta irragionevolezza  della  norma  impugnata  sotto  il
 profilo  del  danno  alla  speditezza  del procedimento, l'Avvocatura
 rileva, richiamando ancora la sentenza n. 41 del 1994, che  la  Corte
 ha affermato che non e' di per se' irragionevole "che il legislatore,
 una  volta  garantito  il  diritto  di  difesa, abbia ritenuto di non
 derogare al termine stabilito in via generale dall'art. 446, comma 1,
 c.p.p.".
                        Considerato in diritto
   1. -   La questione di legittimita'  costituzionale  sollevata  dal
 pretore di Pinerolo ha per oggetto l'art. 518 del codice di procedura
 penale,  nella  parte in cui non prevede la facolta' dell'imputato di
 presentare richiesta di applicazione della  pena  a  norma  dell'art.
 444  del  medesimo  codice  relativamente  al  fatto  nuovo di cui il
 giudice ha autorizzato la contestazione in dibattimento  in  base  al
 comma 2 del medesimo art. 518.
   Ad avviso del pretore rimettente, tale omissione contrasterebbe con
 l'art.   3   della   Costituzione,   in   quanto  determinerebbe  una
 ingiustificata disparita' di trattamento rispetto  alle  ipotesi  del
 tutto analoghe, disciplinate rispettivamente dagli articoli 516 e 517
 cod.  proc.    pen.,  di  contestazione del fatto diverso e del reato
 concorrente, per le quali  la  facolta'  di  chiedere  l'applicazione
 della  pena  e' stata riconosciuta dalla sentenza n. 265 del 1994. La
 disciplina  censurata  provocherebbe   inoltre   "un'ingiustificabile
 dilatazione   dei  tempi  processuali  e  un  irragionevole  aggravio
 dell'attivita' giudiziaria", in  quanto,  ove  l'imputato  non  abbia
 prestato  il  consenso  alla  contestazione  del  fatto nuovo perche'
 intende usufruire dell'istituto dell'applicazione della pena, a norma
 dell'art. 518, comma 1, cod.  proc. pen., il pubblico ministero  deve
 procedere nelle forme ordinarie.
   2.  -  La  questione  e'  infondata.  Al  riguardo,  debbono essere
 richiamati i principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte,
 da un lato nella sentenza n. 265 del 1994, a cui ha fatto riferimento
 il pretore rimettente, e nelle precedenti sentenze sugli articoli 516
 e 517 del codice di procedura penale, dall'altro  nella  sentenza  n.
 41  del  1994,  che  aveva  dichiarato infondata analoga questione di
 legittimita' dell'art. 518, comma 2, cod. proc. pen.
   3. - Iniziando l'esame da quest'ultima sentenza,  la  questione  di
 legittimita'  costituzionale dell'art. 518, comma 2, cod. proc. pen.,
 era stata allora sollevata con  riferimento  agli  articoli  3  e  24
 Cost.,  sulla  base  di  profili solo in parte coincidenti con quelli
 prospettati nel presente giudizio.
   Con  riferimento  all'art.  3  Cost.,  il  giudice rimettente aveva
 denunciato  l'irragionevole  disparita'   di   trattamento   tra   la
 situazione   dell'imputato   che,  prestando  il  suo  consenso  alla
 contestazione del fatto nuovo, perde la possibilita' di  accedere  al
 rito   semplificato  dell'applicazione  della  pena,  e  quella,  non
 dissimile, dell'imputato che, avendo optato per il separato giudizio,
 puo' usufruire in quella sede del rito  disciplinato  dagli  articoli
 444 e seguenti cod. proc. pen. La Corte aveva allora rilevato che, in
 caso  di  contestazione del fatto nuovo, la regola generale enunciata
 nell'art. 518, comma 1, cod. proc. pen., e' che il pubblico ministero
 proceda con le  forme  ordinarie,  iniziando  un  nuovo  procedimento
 relativo  alla  nuova  fattispecie,  nel  corso  del quale l'imputato
 avrebbe potuto eventualmente ricorrere all'applicazione della pena su
 richiesta; soltanto nel caso  in  cui  l'imputato,  presente,  avesse
 prestato  il  consenso  alla  contestazione  suppletiva,  si  sarebbe
 verificata la conseguente rinuncia al rito semplificato.  Poiche'  le
 due  situazioni  erano  frutto  di  "una  libera  opzione  di  scelta
 difensiva operata dall'imputato", la Corte  aveva  escluso  qualsiasi
 ingiustificata disparita' di trattamento.
   La  questione era stata dichiarata infondata anche sotto il profilo
 della  violazione  del  diritto  di  difesa,  in  base  alla  ragione
 assorbente   che,   essendo   il  consenso  dell'imputato  condizione
 indispensabile alla contestazione del fatto in udienza, il diritto di
 difesa era  comunque  garantito,  poiche'  la  scelta  tra  il  nuovo
 procedimento,   con   la   conseguente   possibilita'   di  ricorrere
 all'applicazione della pena, e  l'accettazione  della  contestazione,
 con conseguente rinuncia al rito semplificato, e' rimessa alla libera
 valutazione  della  soluzione  ritenuta  piu'  confacente alla difesa
 dell'imputato.
   Le considerazioni allora svolte, specie se  correlate  al  percorso
 della  giurisprudenza costituzionale relativo agli articoli 516 e 517
 cod. proc. pen., conservano validita' anche ai fini  della  decisione
 della questione portata oggi all'esame della Corte.
   4.  -  Circa i rapporti tra applicazione della pena e contestazione
 del fatto diverso e  del  reato  concorrente,  la  giurisprudenza  di
 questa  Corte  si  pone  in termini di sostanziale continuita' tra le
 decisioni che avevano precedentemente respinto la relativa  questione
 di legittimita' e la sentenza di accoglimento n. 265 del 1994.
   Tra le sentenze e le ordinanze pronunciate prima del 1994 (sentenze
 nn.  593  del 1990, 316 del 1992, 129 del 1993, ordinanze nn. 213 del
 1992  e  107  del  1993),  la  sentenza   piu'   recente   sintetizza
 l'orientamento  sino ad allora seguito. La preclusione all'ammissione
 ai riti alternativi (applicazione della pena e  giudizio  abbreviato)
 in  caso  di  contestazione  dibattimentale suppletiva non e' affatto
 irragionevole, in quanto si tratta di un'evenienza non infrequente  e
 non   imprevedibile,  dato  lo  stretto  rapporto  intercorrente  tra
 l'imputazione originaria e  il  reato  connesso;  evenienza  peraltro
 preclusa  ove  l'imputato operi tempestivamente la scelta di chiedere
 uno dei riti alternativi, rinunciando  al  dibattimento.  Il  rischio
 della  contestazione  suppletiva  dibattimentale  rientra  quindi nel
 calcolo in base al quale l'imputato si determina a  chiedere  i  riti
 semplificati,   ovvero  a  rinunciarvi,  onde  egli  non  ha  che  da
 addebitare a se' medesimo le conseguenze della propria scelta.
   Questa  linea  interpretativa  non  risulta disattesa neppure dalla
 sentenza di accoglimento n. 265 del 1994. Gli articoli 516 e 517 cod.
 proc. pen. sono stati infatti dichiarati illegittimi, nella parte  in
 cui  non  prevedono  la facolta' dell'imputato di chiedere al giudice
 del dibattimento l'applicazione della  pena  relativamente  al  fatto
 diverso  o  al reato concorrente, solo "quando la nuova contestazione
 concerne un fatto che  gia'  risultava  dagli  atti  di  indagine  al
 momento dell'esercizio dell'azione penale ovvero quando l'imputato ha
 tempestivamente  e  ritualmente proposto la richiesta di applicazione
 della pena in ordine alle originarie imputazioni". In tali situazioni
 non  e'  infatti  possibile  rinvenire  "alcun  profilo  di   inerzia
 dell'imputato  e  quindi  di  ''addebitabilita'''  al  medesimo delle
 conseguenze della mancata instaurazione del rito  differenziato";  al
 contrario,  "la  libera  determinazione  dell'imputato  verso  i riti
 speciali risulta sviata da aspetti di "anomalia"  caratterizzanti  la
 condotta  processuale  del  pubblico  ministero",  derivanti "o dalla
 erroneita'  dell'imputazione  (il  fatto  e'  diverso)  o  dalla  sua
 incompletezza (manca l'imputazione relativa a un reato connesso)".
   A  differenza  delle  ipotesi in cui la contestazione suppletiva e'
 riconducibile   a   elementi    nuovi    emergenti    dall'istruzione
 dibattimentale,  in  tali  situazioni non puo' parlarsi - conclude la
 sentenza sul punto -  "di  una  libera  assunzione  del  rischio  del
 dibattimento  da  parte  dell'imputato";  con l'ovvia conseguenza che
 deve essergli riconosciuta la facolta' di essere ammesso  a  chiedere
 l'applicazione  della  pena  in  ordine  al  fatto diverso o al reato
 concorrente.
   5. - La distinzione operata dalla sentenza n. 265 del  1994  tra  i
 casi  in cui il fatto diverso o il reato concorrente emerge a seguito
 dell'istruzione dibattimentale, e quelli in cui i fatti oggetto della
 contestazione suppletiva gia' risultavano al  momento  dell'esercizio
 dell'azione,  indica  la  via  di  soluzione anche della questione di
 legittimita' costituzionale sollevata con  riferimento  all'art.  518
 cod. proc. pen.
   In  primo  luogo,  la  contestazione  suppletiva del fatto nuovo si
 riferisce per definizione, come emerge  dalla  stessa  lettera  della
 norma in esame, ad un fatto che risulta "nel corso del dibattimento",
 non  enunciato  per tale ragione nel decreto che dispone il giudizio.
 Da un lato, dunque, l'imputato non aveva potuto tenere conto di  tale
 evenienza  nell'operare le proprie scelte difensive in ordine ai riti
 alternativi; dall'altro,  la  mancata  tempestiva  contestazione  nel
 momento  dell'esercizio  dell'azione  penale  non  e' addebitabile ad
 anomalie della condotta processuale del pubblico ministero.
   Il meccanismo di contestazione del fatto nuovo tiene appunto  conto
 della  specificita' di tale situazione, in quanto non preclude in via
 assoluta,  a  differenza  di  quanto  previsto   nella   formulazione
 originaria  degli  articoli 516 e 517 cod. proc. pen., la facolta' di
 avvalersi dei riti alternativi.  Al  contrario,  la  regola  generale
 dettata  dall'art.  518, comma 1, cod. proc. pen., e' che il pubblico
 ministero proceda nelle forme ordinarie, cosi' dando all'imputato  la
 possibilita'  di  presentare  la richiesta di applicazione della pena
 sin dalle indagini preliminari. Solo  se  il  pubblico  ministero  ne
 faccia  richiesta,  e  l'imputato presti il consenso, il giudice puo'
 autorizzare la contestazione in  udienza  del  fatto  nuovo,  con  la
 conseguente  perdita  della facolta' di chiedere l'applicazione della
 pena. L'imputato e' quindi arbitro di  decidere  se  usufruire  della
 facolta'  di essere ammesso all'applicazione della pena su richiesta,
 ovvero se rinunciarvi, accettando la contestazione dibattimentale del
 fatto nuovo.
   Le censure di irragionevole disparita' di  trattamento  prospettate
 dal  giudice  rimettente  risultano  pertanto infondate, in quanto la
 disciplina dei rapporti tra contestazione  dibattimentale  del  fatto
 nuovo  e  facolta'  di  chiedere  l'applicazione  della  pena  non e'
 assimilabile alla disciplina della contestazione del fatto diverso  e
 del  reato  concorrente, quale risultante dopo l'integrazione operata
 dalla sentenza n. 265 del 1994.
   Al riguardo,  e'  opportuno  tenere  presente  che,  con  specifico
 riferimento  al  giudizio  abbreviato,  tale soluzione era gia' stata
 adombrata dalla sentenza n. 316 del 1992, che aveva appunto  rilevato
 che  "la  disciplina  delle  nuove  contestazioni e', nel sistema del
 codice, razionalmente differenziata, dato che, ove si tratti di fatto
 "nuovo", la sua contestazione nello stesso dibattimento e'  possibile
 solo  se  l'imputato  vi  consente:    si' che, occorrendo altrimenti
 procedersi nelle forme ordinarie, la richiesta per esso del  giudizio
 abbreviato resta possibile".
   6.  -  Infondate  sono  pure  le  ulteriori censure prospettate dal
 giudice rimettente in  ordine  all'ingiustificabile  dilatazione  dei
 tempi   processuali   e   all'irragionevole  aggravio  dell'attivita'
 giudiziaria che deriverebbero dalla disciplina denunciata:  i  valori
 della  speditezza  e  dell'economia processuale non trovano, infatti,
 diretto  riconoscimento  costituzionale,  salvi  i  casi  in  cui  la
 disciplina  determini  il  rischio  di  paralisi  del processo (v. da
 ultimo sentenza n. 10 del 1997), ovvero comporti un  irragionevole  e
 ingiustificato   trattamento   deteriore   in   danno  dell'imputato.
 Situazioni che, per le considerazioni sopra svolte, non ricorrono nel
 caso in esame, ove all'imputato che non abbia  prestato  il  consenso
 alla contestazione suppletiva e' offerta l'opportunita' di presentare
 richiesta  di  applicazione  della pena sin dalle prime battute delle
 indagini preliminari disposte dal pubblico  ministero  in  ordine  al
 fatto nuovo.
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  non  fondata  la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art.  518  del  codice  di  procedura  penale,   sollevata,   in
 riferimento  all'art.  3 della Costituzione, dal pretore di Pinerolo,
 con l'ordinanza in epigrafe.
   Cosi' deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 19 maggio 1997.
                         Il Presidente: Granata
                          Il redattore: Vari
                       Il cancelliere: Di Paola
   Depositata in cancelleria il 23 maggio 1997.
                Il direttore della cancelleria: Di Paola
 97C0534