N. 212 SENTENZA 19 giugno - 3 luglio 1997

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Ordinamento penitenziario - Detenuto condannato in via definitiva  -
 Diritto di conferire con il difensore fin dall'inizio dell'esecuzione
 della  pena  -  Mancata  previsione  -  Incidenza  sull'esercizio del
 diritto di difesa,  del  quale  il  colloquio  con  il  difensore  e'
 necessario  strumento, e che deve potersi esplicare non solo in vista
 di procedimenti contenziosi gia' instaurati, ma  anche  in  vista  di
 possibili  procedimenti  instaurandi e dunque anche in relazione alle
 esigenze  di  preventiva  conoscenza  e   valutazione,   tecnicamente
 assistita,  degli  istituti  e  rimedi  apprestati dall'ordinamento -
 Illegittimita' costituzionale parziale.
 
 (Legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modifiche, art. 18).
 
 (Cost., art. 24, secondo comma).
 
(GU n.28 del 9-7-1997 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
  Presidente: dott. Renato GRANATA;
  Giudici:  prof.  Giuliano  VASSALLI,  prof.  Francesco GUIZZI, prof.
 Cesare MIRABELLI, prof.  Fernando  SANTOSUOSSO,  avv.  Massimo  VARI,
 dott.   Cesare   RUPERTO,   dott.  Riccardo  CHIEPPA,  prof.  Gustavo
 ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof.  Guido  NEPPI  MODONA,  prof.
 Piero Alberto CAPOTOSTI;
 ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel  giudizio  di  legittimita' costituzionale dell'art. 18, legge 26
 luglio  1975,  n.  354  (Norme   sull'ordinamento   penitenziario   e
 sull'esecuzione  delle misure privative e limitative della liberta'),
 promosso con ordinanza emessa il 23  marzo  1996  dal  Magistrato  di
 sorveglianza  di  Brescia sul ricorso proposto da Beltrami Gianluigi,
 iscritta al n. 527 del registro ordinanze  1996  e  pubblicata  nella
 Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  25, prima serie speciale,
 dell'anno 1996.
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito  nella  camera  di  consiglio  del  9  aprile 1997 il giudice
 relatore Valerio Onida.
                           Ritenuto in fatto
   1. - Chiamato a provvedere sul reclamo avanzato, ai sensi dell'art.
 35 della  legge  26  luglio  1975,  n.  354  (Norme  sull'ordinamento
 penitenziario  e  sull'esecuzione delle misure privative e limitative
 della liberta'),  da  un  detenuto  ristretto  in  carcere  in  forza
 dell'ordine  di  esecuzione di una condanna definitiva, a cui non era
 stato consentito dall'amministrazione carceraria un colloquio con  il
 difensore,  il  magistrato  di sorveglianza di Brescia, con ordinanza
 del 23 marzo 1996, pervenuta a questa Corte il  13  maggio  1996,  ha
 sollevato  questione  di  legittimita' costituzionale, in riferimento
 all'art. 24, secondo comma, della Costituzione, dell'art.   18  della
 legge   citata   -   che   disciplina   "colloqui,  corrispondenza  e
 informazione" dei detenuti - "nella  parte  in  cui  non  prevede  il
 diritto   del   difensore   del   condannato   definitivo   detenuto,
 regolarmente nominato, a fruire di colloqui con le stesse modalita' e
 nella stessa misura prevista, per gli imputati detenuti, dagli  artt.
 96  e seguenti cod. proc. pen. (ed in particolare dall'art. 104 dello
 stesso codice)", nonche' "nella  parte  in  cui  il  difensore  viene
 considerato  come  terzo  abilitato  al  colloquio,  su discrezionale
 decisione del direttore dell'istituto,  esclusivamente  nel  caso  di
 pendenza  di 'procedimenti giurisdizionali' in relazione ai quali sia
 stato regolarmente nominato".
    Il remittente premette che il reclamo e' ammissibile,  trattandosi
 dell'unico rimedio che l'ordinamento concede al condannato in tema di
 colloqui,   e   ancorche'   nessuna  norma  del  vigente  ordinamento
 penitenziario  preveda  speciali  regole  per  i  colloqui   fra   il
 condannato  definitivo  ed  il  suo  difensore;  e  che egualmente e'
 ammissibile in sede  di  reclamo  la  proposizione  di  incidente  di
 costituzionalita',  trattandosi  pur sempre di un procedimento che ha
 luogo davanti al magistrato di sorveglianza, che  e'  da  considerare
 autorita' giurisdizionale.
   Nel  merito,  il giudice a quo osserva preliminarmente che la legge
 delega per il nuovo codice di  procedura  penale  ha  voluto  che  il
 codice  offrisse  garanzie  di  giurisdizionalita'  nella  fase della
 esecuzione, con riferimento ai procedimenti concernenti le pene e  le
 misure  di sicurezza, e sancisse l'obbligo di notificare o comunicare
 al difensore, a pena di nullita', i provvedimenti relativi  (art.  2,
 n.  96,  della  legge  16  febbraio 1987, n. 81); e che ormai la fase
 dell'esecuzione, che inizia con l'emissione dell'ordine di esecuzione
 da  parte  del  pubblico  ministero,  notificato  al  difensore   del
 condannato  (art.    656,  comma  4,  cod.  proc.  pen.), costituisce
 autonoma fase giurisdizionale, come conferma  l'art.  655,  comma  5,
 cod.  proc.  pen.,  che  impone,  a  pena di nullita', la notifica al
 difensore  all'uopo  nominato  (e  non  al   difensore   della   fase
 precedente, prorogato), entro trenta giorni dalla loro emissione, dei
 provvedimenti  del  pubblico  ministero (attinenti all'esecuzione dei
 provvedimenti   giurisdizionali)   dei   quali   e'   prescritta   la
 notificazione   al  difensore:  onde  si  aprirebbe  un  procedimento
 giurisdizionale, indipendentemente dal fatto che sia  instaurato  uno
 specifico    procedimento    di   esecuzione   davanti   al   giudice
 dell'esecuzione medesima, a norma dell'art. 666 cod. proc. pen.
   Con queste premesse contrasta, ad avviso del  remittente,  la  tesi
 dell'amministrazione  penitenziaria,  avallata  anche  da pareri resi
 dall'ufficio legislativo del Ministero di grazia e giustizia, secondo
 cui i colloqui col difensore possono bensi'  essere  autorizzati  dal
 direttore  dell'istituto,  ai  sensi  dell'art.  18  dell'ordinamento
 penitenziario e dell'art.  35  del  regolamento  di  esecuzione,  per
 ragioni  di  giustizia,  ma  a  condizione  che penda un procedimento
 davanti  al  giudice   dell'esecuzione   o   alla   magistratura   di
 sorveglianza, non trovando applicazione, nei confronti del condannato
 in  via  definitiva,  l'art.  104 del codice di procedura penale, che
 sancisce il diritto dell'imputato in stato di custodia  cautelare  di
 conferire  con  il  difensore  fin  dall'inizio dell'esecuzione della
 misura.
   Secondo il giudice a quo invece, pur mancando una norma ad hoc  che
 legittimi pienamente la posizione del difensore nella fase esecutiva,
 tale fase nella sua interezza deve essere assistita dalla garanzia di
 difesa;  e del resto il diritto costituzionale alla difesa si collega
 ai  diritti  inviolabili  dell'uomo   di   cui   all'art.   2   della
 Costituzione,  e  si  applica,  come  ha affermato questa Corte nelle
 sentenze n. 53 del 1968 e n. 76 del 1970,  a  qualunque  procedimento
 che,  indipendentemente  dalla  sua  qualificazione  giurisdizionale,
 possa sfociare un una misura limitativa della liberta' personale.
   Richiamata ulteriore giurisprudenza di  questa  Corte  in  tema  di
 diritto di difesa, il remittente sottolinea che, sebbene non vi siano
 termini  di  decadenza  perche' il condannato in via definitiva possa
 adire la magistratura, anche ad esso, come all'imputato  destinatario
 del  decreto  di  citazione  a  giudizio,  deve  essere assicurata la
 possibilita' di conoscere i suoi diritti e di operare al piu'  presto
 e in modo adeguatamente assistito le proprie scelte difensive, basate
 sulla conoscenza di tutte le soluzioni che l'ordinamento gli offre: e
 da  questo punto di vista la notifica dell'ordine di esecuzione ha la
 stessa funzione della notifica del decreto di citazione a giudizio.
   2.  -  E'  intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
 Ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile,  e
 in subordine infondata.
   L'inammissibilita'   deriverebbe,  secondo  l'Avvocatura  erariale,
 dalla mancanza, nella specie, di un "giudizio", in quanto il  reclamo
 al  magistrato di sorveglianza in materia di colloqui da' luogo ad un
 contenzioso di carattere amministrativo.
   Nel merito, la difesa del Presidente del Consiglio sostiene che  la
 questione  e' infondata, anzitutto, perche', mirando a parificare, in
 ordine al diritto al colloquio con il  difensore,  la  posizione  del
 condannato  definitivo  a quella dell'imputato, indicata come tertium
 comparationis prospetta in realta' una violazione  del  principio  di
 eguaglianza, e non solo del diritto di difesa: ma la differenziazione
 fra  le  due  discipline  sarebbe  pienamente  ragionevole,  data  la
 diversita' delle situazioni messe a confronto.
   Per quanto attiene al diritto di  difesa,  esso  sarebbe  vulnerato
 solo  se venisse sacrificato o reso estremamente difficoltoso nel suo
 esercizio, ed inoltre dovrebbe essere contemperato con  altri  valori
 costituzionali.  Ora,  secondo  l'Avvocatura  erariale, la necessita'
 dell'autorizzazione del direttore per  il  colloquio,  autorizzazione
 che  secondo la prassi deve essere concessa, salvo che non sussistano
 specifici motivi che  lo  sconsigliano,  nella  misura  necessaria  a
 soddisfare   le  esigenze  di  giustizia,  non  e'  tale  da  rendere
 estremamente difficoltoso  l'esercizio  del  diritto  di  difesa  del
 condannato; ed e' destinata a contemperare l'interesse del condannato
 con  quello, anch'esso costituzionalmente protetto, quanto meno sotto
 il profilo dell'art. 97, primo comma, della Costituzione, dell'ordine
 e della sicurezza degli istituti di pena.
                         Considerato in diritto
   1. -  La questione sollevata investe il mancato riconoscimento  del
 diritto del detenuto condannato in via definitiva di conferire - alla
 stessa  stregua  di quanto e' previsto dall'art. 104 cod. proc.  pen.
 per l'imputato in stato  di  custodia  cautelare  -  con  il  proprio
 difensore,  nominato  ai  sensi  dell'art.  655, comma 5, a cui viene
 notificato l'ordine di esecuzione della condanna  a  pena  detentiva,
 come   previsto  dall'art.  656,  comma  4,  indipendentemente  dalla
 pendenza di uno specifico  procedimento  giurisdizionale  davanti  al
 giudice  dell'esecuzione o alla magistratura di sorveglianza: mancato
 riconoscimento che si assume  essere  in  contrasto  con  l'art.  24,
 secondo comma, della Costituzione.
   2.   -   L'eccezione,   sollevata   dall'Avvocatura   erariale,  di
 inammissibilita' della questione per carenza  di  legittimazione  del
 giudice a quo non puo' essere accolta.
   Gia'  in  altra  non  recente  occasione  questa  Corte, chiamata a
 pronunciarsi su una questione sollevata dal giudice  di  sorveglianza
 (previsto  dall'ordinamento allora in vigore) in tema di diritto alla
 difesa nel procedimento di applicazione di una  misura  di  sicurezza
 detentiva,  ebbe  a  superare  i  dubbi  sulla  ammissibilita'  della
 questione, in rapporto all'alternativa tra carattere amministrativo e
 carattere  giurisdizionale  del  procedimento,  osservando  che   "il
 termine  'giudizio'  e'  da  interpretare nel senso piu' lato di ogni
 procedimento davanti a un giudice", e affermando, nel merito, che  la
 questione  relativa  al  diritto  di  difesa  poteva e doveva "essere
 impostata su un piano diverso e piu' alto, che non e' quello  formale
 dell'appartenenza del procedimento all'una o all'altra categoria (dei
 procedimenti   amministrativi   o   giurisdizionali),  bensi'  quello
 dell'interesse umano oggetto del procedimento,  vale  a  dire  quello
 supremo    della   liberta'   personale";   ritenendo   dunque   che,
 "amministrativo o giurisdizionale che sia il procedimento  nel  quale
 un  tale  interesse  viene  in questione davanti a un giudice, spetti
 sempre al soggetto il diritto ad una  integrale  difesa:  e  cio'  in
 riguardo  a  tutte  le  misure che incidano sulla liberta' personale"
 (sentenza n. 53 del 1968).
   E' ben vero che, in quell'occasione, cio' di cui si  discuteva  era
 proprio  il  diritto  di  difesa  nello  stesso procedimento, nel cui
 ambito la questione era stata sollevata; mentre nel caso presente  si
 discute  della  ammissibilita' di una questione sollevata nell'ambito
 di un procedimento di reclamo, volto  a  far  valere  il  diritto  di
 difesa  che si assume violato nella fase di esecuzione, genericamente
 intesa, della condanna a pena detentiva.  Tuttavia  e'  indubitabile,
 come  sottolinea  il  remittente,  che  il  reclamo  al magistrato di
 sorveglianza, a norma dell'art.  35  dell'ordinamento  penitenziario,
 costituisce  l'unico rimedio apprestato dall'ordinamento in vigore al
 condannato detenuto,  che  intenda  far  valere  una  violazione  del
 proprio diritto di difesa, sotto specie del diritto ad avere colloqui
 con  il  proprio  difensore,  diritto  che si assume illegittimamente
 negato dall'autorita' amministrativa penitenziaria.
   Ora, poiche' nell'ordinamento, secondo il principio di assolutezza,
 inviolabilita'   e   universalita'   del    diritto    alla    tutela
 giurisdizionale  (artt. 24 e 113 Cost.), non v'e' posizione giuridica
 tutelata di diritto sostanziale, senza che vi sia un giudice  davanti
 al  quale  essa possa essere fatta valere, e' inevitabile riconoscere
 carattere giurisdizionale al reclamo al magistrato  di  sorveglianza,
 che l'ordinamento appresta a tale scopo.
   L'unica  alternativa  sarebbe,  in  astratto, quella di ritenere la
 materia rimessa al giudice amministrativo in  sede  di  giurisdizione
 generale  di  legittimita'.  Ma, nella specie, cio' che il reclamante
 lamenta non e'  il  cattivo  esercizio  di  un  potere  discrezionale
 dell'amministrazione  penitenziaria, bensi' il mancato riconoscimento
 - in  forza  della  lacuna  normativa  denunciata  -  di  un  diritto
 fondamentale,  com'e'  il diritto inviolabile alla difesa, sub specie
 di diritto al colloquio con il proprio difensore.
   Il detenuto, infatti, pur trovandosi in  situazione  di  privazione
 della  liberta' personale in forza della sentenza di condanna, e' pur
 sempre titolare di diritti incomprimibili, il cui  esercizio  non  e'
 rimesso  alla semplice discrezionalita' dell'autorita' amministrativa
 preposta  all'esecuzione  della  pena  detentiva,  e  la  cui  tutela
 pertanto  non sfugge al giudice dei diritti (cfr. sentenza n. 410 del
 1993).
    D'altra  parte,  sebbene  l'ordinamento  penitenziario  non  abbia
 esplicitamente   e  compiutamente  risolto  il  problema  dei  rimedi
 giurisdizionali idonei ad assicurare la tutela di tali diritti (tanto
 che questa Corte ha dovuto talora intervenire in  materia  affermando
 in via interpretativa l'estensione di rimedi esplicitamente previsti:
 sentenza  n.  410  del  1993), sta di fatto che, nel configurare (nei
 capi II e II-bis del titolo secondo) l'organizzazione dei "giudici di
 sorveglianza" (magistrati e tribunale di sorveglianza), esso ha  dato
 vita  ad  un  assetto  chiaramente  ispirato  al  criterio per cui la
 funzione di tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti e'  posta
 in capo a tali uffici della magistratura ordinaria. Alla luce di tale
 criterio  assume  rilievo  anche la generale competenza attribuita al
 magistrato di sorveglianza per la  verifica  di  eventuali  elementi,
 contenuti nel programma di trattamento, "che costituiscono violazione
 dei  diritti del condannato o dell'internato", e per l'adozione delle
 disposizioni "dirette ad eliminare eventuali violazioni  dei  diritti
 dei  condannati  e  degli  internati"  (art. 69, comma 5, ordinamento
 penitenziario).
   Sicche'  si  puo'  concludere  che   il   procedimento   instaurato
 attraverso   l'esercizio   del  generico  "diritto  di  reclamo"  del
 detenuto, che puo' rivolgersi sia ad autorita'  amministrative  o  ad
 autorita'    politiche   o   comunque   estranee   all'organizzazione
 penitenziaria  (assumendo  volta  a  volta   carattere   di   reclamo
 amministrativo  o  di  semplice  istanza  o esposto o petizione), sia
 all'organo   giudiziario   specificamente   preposto    al    sistema
 penitenziario,  vale  a  dire  al  magistrato  di  sorveglianza, puo'
 assumere, anche in quest'ultimo caso, veste  e  carattere  diversi  a
 seconda  dell'oggetto  del  reclamo  e  del  contenuto della domanda.
 Mentre in alcune ipotesi  le  determinazioni  che  il  magistrato  di
 sorveglianza  e'  chiamato ad adottare non fuoriescono verosimilmente
 dall'ambito amministrativo, altre volte, come nella specie, quando e'
 posta in discussione la concreta tutela di un diritto  del  detenuto,
 che  solo  in  quella sede possa essere fatto valere, potra' e dovra'
 riconoscersi al relativo procedimento natura di "giudizio", nel corso
 del quale puo' essere sollevata una questione di costituzionalita'.
   Per  le  stesse  ragioni,  non  vi   e'   contraddizione   fra   il
 riconoscimento,   in   queste   ipotesi,   della  legittimazione  del
 magistrato di sorveglianza, e la sua negazione in casi,  come  quelli
 talvolta  esaminati  da  questa Corte, in cui lo stesso magistrato di
 sorveglianza  esplica  una  funzione  meramente  consultiva   e   non
 decisoria  (cfr.  sentenza n. 8 del 1979, ordinanza n. 382 del 1991),
 ovvero comunque e' sprovvisto di  potere  decisorio  in  ordine  alla
 applicazione  della  norma,  della  cui costituzionalita' egli dubiti
 (cfr. sentenza n. 109  del  1983),  o  interviene  in  funzione  solo
 istruttoria  o  servente  rispetto ad un giudizio attribuito ad altro
 giudice (ordinanze n. 207 e n. 290 del 1990).
   3. - Nel merito, la questione e' fondata.
   Il diritto di  difesa  e'  diritto  inviolabile,  che  si  esercita
 nell'ambito  di  qualsiasi  procedimento  giurisdizionale  ove sia in
 questione    una    posizione    giuridica    sostanziale    tutelata
 dall'ordinamento  (cfr. sentenze n. 18, del 1982, n. 53, del 1968), e
 che deve essere garantito nella sua effettivita'  (cfr.  sentenze  n.
 220,  del  1994,  n. 144, del 1992).   Esso comprende il diritto alla
 difesa tecnica (cfr. sentenze n. 125, del 1979, n. 80, del  1984),  e
 dunque  anche  il  diritto - ad esso strumentale - di poter conferire
 con il difensore (cfr. sentenza n. 216,  del  1996),  allo  scopo  di
 predisporre  le  difese  e  decidere le strategie difensive, ed ancor
 prima  allo  scopo  di  poter  conoscere  i  propri  diritti   e   le
 possibilita'  offerte  dall'ordinamento per tutelarli e per evitare o
 attenuare le conseguenze pregiudizievoli  cui  si  e'  esposti.  Deve
 quindi  potersi  esplicare  non  solo in relazione ad un procedimento
 gia' instaurato, ma  altresi'  in  relazione  a  qualsiasi  possibile
 procedimento  contenzioso  suscettibile  di  essere instaurato per la
 tutela delle posizioni garantite, e dunque anche  in  relazione  alla
 necessita'  di  preventiva  conoscenza  e  valutazione - tecnicamente
 assistita  -  degli  istituti  e   rimedi   apprestati   allo   scopo
 dall'ordinamento.
   Il  diritto  di  conferire con il proprio difensore non puo' essere
 compresso o condizionato dallo stato di detenzione, se non nei limiti
 eventualmente disposti  dalla  legge  a  tutela  di  altri  interessi
 costituzionalmente   garantiti  (ad  esempio  attraverso  temporanee,
 limitate sospensioni dell'esercizio del diritto, come quella prevista
 dall'art. 104, comma 3, cod. proc. pen.: cfr. sentenza  n.  216,  del
 1996),  e  salva  evidentemente  la  disciplina  delle  modalita'  di
 esercizio del diritto, disposte  in  funzione  delle  altre  esigenze
 connesse  allo stato di detenzione medesimo: modalita' che, peraltro,
 non possono in alcun caso trasformare il diritto  in  una  situazione
 rimessa  all'apprezzamento  dell'autorita'  amministrativa,  e quindi
 soggetta ad una vera e propria autorizzazione discrezionale.
   4. - Non e' necessario, ai  fini  del  giudizio  che  deve  rendere
 questa  Corte, dirimere gli interrogativi circa la configurabilita' o
 meno, secondo l'impostazione data al problema dal giudice a quo di un
 procedimento giurisdizionale comprendente tutta la fase esecutiva,  a
 prescindere   dalla   instaurazione   di   taluno   degli   specifici
 procedimenti che la legge prevede possano essere avviati  davanti  al
 giudice  dell'esecuzione o davanti alla magistratura di sorveglianza.
 E' sufficiente infatti osservare che, come si e' detto, il diritto  a
 conferire  col  difensore  deve  essere  comunque garantito in quanto
 strumentale rispetto all'esercizio del diritto di  difesa,  anche  in
 vista  di  procedimenti  instaurandi  anziche'  di  procedimenti gia'
 instaurati.
    Di questa esigenza si e'  dimostrato  consapevole  il  legislatore
 allorquando  ha  imposto di notificare entro un termine perentorio, a
 pena  di  nullita',  l'ordine  di  esecuzione,  emesso  dal  pubblico
 ministero,  al  difensore,  all'uopo  nominato, del condannato (artt.
 655, comma 5, e 656, comma  4,  ultimo  periodo,  cod.  proc.  pen.).
 Tuttavia  non  ha tratto le necessarie conseguenze per quanto attiene
 al diritto del condannato detenuto di conferire col difensore:  cosi'
 che  la  materia  dei  colloqui  e'  rimasta affidata alla disciplina
 dell'art.   18 dell'ordinamento penitenziario,  e  dell'art.  35  del
 relativo regolamento, in termini inidonei e insufficienti a garantire
 il  vero  e  proprio  diritto  al  colloquio  col difensore di cui il
 detenuto deve essere riconosciuto titolare, come l'imputato in  stato
 di  custodia  cautelare,  nei  cui  riguardi  viceversa  il codice ha
 espressamente sancito il diritto medesimo.
   5. - L'art. 18 dell'ordinamento penitenziario contempla i colloqui,
 anche con persone diverse dai congiunti, nell'ambito delle "modalita'
 di trattamento" del detenuto di cui si occupa il capo III del  titolo
 I   della   legge,  in  una  prospettiva  informata  all'esigenza  di
 assicurare al detenuto, in  una  certa  misura,  il  mantenimento  di
 relazioni  familiari e sociali, e anche di consentirgli il compimento
 di   "atti   giuridici"   (art.   18,   primo   comma,    ordinamento
 penitenziario),   ma   sempre  astraendo  dallo  specifico  interesse
 protetto al colloquio col  difensore  (nominato  solo  dall'art.  35,
 sesto comma, del regolamento, per prevedere appositi locali destinati
 ai  colloqui  dei  detenuti  con i loro difensori), come strumento di
 esercizio del diritto di difesa. E infatti la disciplina dei colloqui
 e' ispirata al criterio di affidare all'autorita' carceraria  -  dopo
 la pronuncia della sentenza di primo grado, e dunque in ogni caso per
 il    condannato    "definitivo"    -   il   compito   di   ammettere
 discrezionalmente i detenuti ai  colloqui  con  persone  diverse  dai
 congiunti e dai conviventi, in base all'apprezzamento di "ragionevoli
 motivi" (art. 35, primo comma, regolamento penitenziario).
   Ma  l'esercizio  del  diritto di conferire col difensore, in quanto
 strumentale al diritto di difesa, non puo', per cio' che si e' detto,
 essere rimesso a valutazioni discrezionali dell'amministrazione.   In
 assenza di ogni altra norma che riconosca tale diritto - posto che la
 previsione   dell'art.   104   del  codice  di  procedura  penale  e'
 univocamente limitata all'imputato in stato di custodia cautelare  -,
 l'art.   18   dell'ordinamento   penitenziario,   unica  disposizione
 legislativa vigente in tema di colloqui del condannato  "definitivo",
 deve  essere  dunque  dichiarato costituzionalmente illegittimo nella
 parte in cui non prevede che  il  condannato  in  via  definitiva  ha
 diritto di conferire con il difensore fin dall'inizio dell'esecuzione
 della  condanna.    Resta  ferma  ovviamente  -  come  del  resto nei
 confronti  degli  imputati  in  stato  di  custodia  cautelare  -  la
 competenza dell'autorita' carceraria a disporre le modalita' pratiche
 di  svolgimento  dei colloqui col difensore, senza peraltro che possa
 essere esercitato alcun potere di apprezzamento  discrezionale  sulla
 necessita' e sui motivi dei colloqui medesimi.
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  l'illegittimita'  costituzionale dell'art. 18 della legge
 26 luglio  1975,  n.  354  (Norme  sull'ordinamento  penitenziario  e
 sull'esecuzione  delle misure privative e limitative della liberta'),
 come sostituito dall'art.  2  della  legge  12  gennaio  1977,  n.  1
 (Modificazioni  alla  legge  26 luglio 1975, n. 354, sull'ordinamento
 penitenziario, e all'art.   385  del  codice  penale),  e  modificato
 dall'art. 4 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge
 sull'ordinamento   penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle  misure
 privative e limitative della liberta' personale), nella parte in  cui
 non  prevede  che il detenuto condannato in via definitiva ha diritto
 di conferire con il difensore fin dall'inizio  dell'esecuzione  della
 pena.
   Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 19 giugno 1997.
                        Il Presidente: Granata
                          Il redattore: Onida
                       Il cancelliere: Fruscella
   Depositata in cancelleria il 3 luglio 1997.
                       Il cancelliere: Fruscella
 97C0778