N. 754 ORDINANZA (Atto di promovimento) 1 luglio 1997
N. 754 Ordinanza emessa il 1 luglio 1997 dal giudice istruttore del tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra il Comitato organizzatore Giochi del Mediterraneo e Frasca Augusto Processo civile - Terzo chiamato in causa - Proposizione da parte di questo, di domande riconvenzionali nei confronti delle parti originarie del giudizio - Possibilita' di costituzione in causa al di fuori del termine di giorni 20 dall'udienza fissata dal giudice istruttore - Mancata incidenza sulle decadenze stabilite dalla legge - Violazione del principio di eguaglianza - Lesione del diritto di azione e di difesa. (C.P.C., art. 271). (Cost., artt. 3 e 24).(GU n.45 del 5-11-1997 )
IL GIUDICE ISTRUTTORE Nel procedimento iscritto al n. 47760 del ruolo generale affari contenziosi dell'anno 1996 fra le parti: Comitato organizzatore Giochi del Mediterraneo domiciliato in Roma, via F. Carrara n. 24, presso l'avv. Vincenzo Sinisi; attore in opposizione, contro Augusto Frasca domiciliato in Roma, via Prisciano n. 67 presso l'avv. Piero Ponzelletti; convenuto in opposizione, avente ad oggetto: opposizione a decreto ingiuntivo di pagamento. Ha pronunciato la seguente ordinanza sulla dichiarazione di chiamata in causa del terzo e contestuale istanza di differimento dell'udienza di prima comparizione proposta dal convenuto sig. Augusto Frasca con comparsa di costituzione depositata il giorno 12 febbraio 1997. Il sig. Augusto Frasca - convenuto in giudizio dal Comitato organizzatore Giochi del Mediterraneo con atto di citazione notificato il giorno 26 novembre 1996 in opposizione al decreto ingiuntivo n. 4578 emesso dal presidente del tribunale di Roma il giorno 24 settembre 1996 - ha dichiarato, ai sensi dell'art. 269 c.p.c., di voler chiamare in giudizio i sig.ri Antonio Matarrese, Michele Barbone, Vito Chiarelli e Michele Bonante, promotori e componenti del Comitato, preannunciando la proposizione nei loro confronti di domanda di condanna di L. 165.800.000 oltre interessi e rivalutazione monetaria. Sulla contestuale istanza di differimento della prima udienza gia' fissata per il giorno 5 marzo 1997, appare rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 271 c.p.c., sulla costituzione del terzo, nella parte in cui non richiama le disposizioni dell'art. 167 comma 2 c.p.c. Sulla non manifesta infondatezza Preliminarmente deve essere osservato che nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo la disciplina applicabile alle posizioni di attore e convenuto va individuata facendo riferimento alla veste c.d. processuale che rispettivamente assumono l'opponente e l'intimante. Discende tale conclusione dalla constatazione che i termini fissati a pena di decadenza per il compimento delle attivita' riguardanti la delimitazione del thema decidendum e del thema probandum sono concepiti secondo un ordine conseguenziale ancorato alla costituzione del convenuto - inteso come destinatario della vocatio in ius (e quindi come soggetto effettivamente vocato in giudizio e non solo pro-vocato -, sicche' ove si invertissero le posizioni connesse a tale punto di ancoraggio (ritenendo convenuto non il destinatario ma l'autore della vocatio), l'intero sistema delle preclusioni risulterebbe scompaginato, e il principio della conseguenzialita' dialettica, cui lo stesso e' ispirato, inevitabilmente violato. Riprova di cio' e' che l'intepretazione opposta condurrebbe a riconoscere all'intimante la facolta' di proporre sino alla prima udienza di trattazione - e quindi ben oltre il termine per la sua costituzione in giudizio - le eventuali domande riconvenzionali ulteriori, nonche' di chiamare in causa il terzo sino a tale momento (sia pure previa autorizzazione del giudice), con ingiustificato vantaggio rispetto alla controparte e alterazione dell'intero meccanismo processuale introdotto con la novella. Fatta tale premessa va in primo luogo esaminata la possibilita' di interpretare il mancato richiamo alla disposizione dell'art. 167, comma 2, nel senso di escludere senz'altro il diritto del terzo chiamato in giudizio, di proporre domande riconvenzionali. A tale interpretazione si oppongono le seguenti considerazioni: a) In primo luogo la constatazione che la disposizione del comma 2 dell'art. 167 c.p.c. non attribuisce poteri processuali ma ne disciplina l'esercizio. In essa non e' infatti stabilito che il convenuto puo' proporre le eventuali domande riconvenzionali, ma che a pena di decadenza deve proporle nella comparsa di costituzione, con espressione quindi dalla quale si ricava che il potere di chiamare in giudizio il terzo pre-esiste alla previsione normativa in esame, dalla quale non e' quindi attribuito ma solo disciplinato mediante l'indicazione delle modalita' attraverso la quale va esercitato. Di qui l'impossibilita' di ricavare dall'omesso richiamo a tale norma la mancata attribuzione del potere processuale che vi e' disciplinato. b) In secondo luogo - a conferma della conclusione precedente - il ruolo essenziale che il potere di proporre domande riconvenzionali assume per l'esercizio del diritto di difesa. A tal riguardo, va rilevato che in talune fattispecie, quali quelle in cui il convenuto intenda far valere ragioni di risoluzione contrattuale per eccessiva onerosita' sopravvenuta, la proposizione di una mera eccezione riconvenzionale di risoluzione non e' sufficiente a paralizzare la domanda, avendo il convenuto l'onere di proporre domanda riconvenzionale (Cass. 3321/87). Conclusione che rende palese il legame essenziale esistente fra il potere di proporre domande riconvenzionali e il diritto di difesa, e la necessita' quindi di considerare il primo (al pari del secondo) indipendente dalla disposizione del comma 2 dell'art. 167 c.p.c. e insito nello stesso sistema processuale. c) In terzo luogo l'evidente contraddittorieta' di una disciplina che, pur consentendo al terzo ex art. 271 c.p.c. di chiamare in giudizio altri soggetti e di proporre quindi nuove domande verso costoro, non gli consentisse di proporre nuove domande verso soggetti che gia' rivestano posizione di parte processuale. Accantonata percio' la possibilita' di interpretare il mancato richiamo al comma 2 dell'art. 167 c.p.c. nel senso di escludere il diritto del terzo di proporre domande riconvenzionali va esaminata l'interpretazione opposta, secondo cui il mancato richiamo alle disposizioni dell'art. 167 comma 2 c.p.c., determinando l'inapplicabilita' dell'art. 171 c.p.c. comma 2, che alla prima fa a sua volta rinvio, comporterebbe unicamente l'inesistenza, per il terzo che agisca in via riconvenzionale, delle preclusioni e delle ulteriori disposizioni previste da tale norma. Trattasi di interpretazione che, al pari della prima, determina posizioni di evidente squilibrio fra le posizioni processuali delle parti e che tuttavia non e' superabile ne' per via di applicazione analogica di norme fondate sull'eadem ratio ne' mediante altra ipotesi interpretativa. Preliminarmente va precisato che la disciplina che si ricava da tale intepretazione, se da un lato impedisce che il terzo sia sottoposto al regime delle decadenze previsto per la costituzione del convenuto, dall'altro non esclude l'applicabilita' a tali domande delle nullita' previste per il caso di assoluta incertezza dell'oggetto e del titolo della domanda; vi osta la constatazione che alla domanda del terzo vanno comunque applicate quelle disposizioni dettate per l'atto di citazione che sono essenziali per la proposizione di qualunque domanda giudiziale e in cui sono contenute quindi norme generali - quali quelle sull'assoluta incertezza dell'oggetto e del titolo - necessariamente applicabili a qualunque domanda; soluzione che non puo' invece essere percorsa per il mancato richiamo alle decadenze previste per la proposizione delle domande riconvenzionali, stante il carattere non essenziale di tali previsioni, e atteso che la disciplina generale da richiamare sarebbe contenuta - in ipotesi - nella stessa disposizione (art. 167, comma 2, c.p.a.) di cui si discute e il cui il richiamo e' invece esplicitamente omesso. Cio' posto va rilevato che il mancato richiamo alla norma in esame contrasta con la disciplina delle forme di tali domande, disciplina che prevede, all'art. 269 c.p.c., l'utilizzazione dello strumento dell'atto di citazione, fra i cui elementi essenziali, richiesti a pena di nullita', va oggi ricompreso l'avvertimento ex art. 163 n. 7 c.p.c. sulle decadenze conseguenti alla costituzione oltre i venti (o dieci) giorni anteriori l'udienza di companzione. Di qui un'antinomia che non puo' tuttavia essere risolta, in maniera rispettosa dei principi costituzionali, attraverso l'applicazione analogica della disposizione dell'art. 167, comma 2 o l'interpretazione estensiva della stessa, atteso che tali soluzioni sarebbero consentite soltanto ove l'articolo, non contenendo alcun espresso richiamo ad altre parti dell'art. 167, c.p.c. - segnatamente alla disposizione del comma 1 dell'art. 167 c.p.c. - non denotasse, per evidente deduzione a contrario, l'esistenza di una voluntas legis tesa espressamente ad escludere l'applicabilita' alla chiamata del terzo delle disposizioni del comma 2. In altre parole il carattere esplicito di tale limitazione - con la conseguente esclusione del regime delle decadenze previsto per la costituzione del convenuto - impedisce di attribuire carattere prevalente al riferimento solo implicito al regime delle medesime decadenze ricavabile dalla previsione, per la chiamata del terzo, dello strumento dell'atto di citazione, e con esso dell'avvertimento ex art. 163 n. 7 c.p.c. che ne costituisce elemento essenziale. E cio' alla luce del criterio ermeunitico che impone di interpretare le locuzioni contenute nei testi normativi in modo che in ciascuna di esse sia riconoscibile una qualche valenza normativa, escludendo le interpretazioni che condurrebbero a privarle di qualunque valore o significato giuridico. Principio che, impedendo di escludere dal testo dell'art. 271 c.p.c. la locuzione "primo comma" riferita all'art. 167 c.p.p. e impedendo quindi di considerare richiamato l'intero articolo del codice (cosa che avverrebbe ove la proposizione fosse limitata alla frase "si applicano le disposizioni dell'art. 167 c.p.c.") porta a delineare una disciplina speciale e completa, ostativa, in quanto tale, sia dell'applicazione analogica di norme fondate su eadem ratio - stante l'assenza di lacune normative - sia dell'interpretazione estensiva delle disposizioni generali dell'art. 167, stante la gia' rilevata specialita' e completezza della norma dell'art. 271 c.p.c. Discende da tali conclusioni l'impossibilita' inoltre di far ricorso ad un'interpretazione addititiva della disposizione dell'art. 271 c.p.c. fondata sul criterio storico. L'ipotesi di un'evidente svista legislativa e' in realta' suffragata, come evidenziato da autorevole dottrina, dalla circostanza che nell'unico passo dei lavori preparatori riguardante la questione si legge: (seduta 29 novembre 1989 della seconda commissione del Senato) "questo articolo tratta della costituzione del terzo chiamato in causa, per il quale si applicano le disposizioni degli artt. 166 e 167 primo e secondo comma del codice di procedura civile", onde l'ipotesi di un vero e proprio lapsus calami nella redazione del testo finale appare evidente. Ciononostante l'univocita' del dato testuale risultato dalla stesura definitiva della disposizione non consente al giudice di seguire soluzioni di tipo additivo in quanto queste assumerebbero carattere non meramente interpetativo ma di vera rettificazione dell'errore legislativo. Procedimento evidentemente non rientrante fra i poteri degli organi giurisdizionali. Di qui la necessita' per l'interprete, impossibilitato a ricorrere a siffatti strumenti, di porsi le seguenti questioni: se la mancata previsione per il terzo chiamato in giudizio di un sistema di preclusioni speculare a quello connesso alla tardiva costituzione del convenuto introduca una rilevante differenziazione nel diritto di difesa delle parti; se tale differenziazione sia o meno fondata su una diversita' di fattispecie idonea a legittimare in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione la ipotizzata diversita' di disciplina. Partendo dal secondo quesito pare al g.i. che la circostanza che i terzi siano chiamati a partecipare al giudizio in un momento successivo a quello in cui le parti originarie hanno dato vita al rapporto processuale non comporti differenze sostanziali fra le due posizioni. Ai terzi va infatti riconosciuta la medesima posizione di parte processuale spettante agli originari soggetti privati, e cio' non solo nel caso in esame, in cui e' preannuciata la proposizione nei loro confronti di una domanda di condanna, ma per ogni altra ipotesi di chiamata in giudizio, ove si considerino le riflessioni espresse dalla migliore dottrina in ordine al fatto che la posizione di parte vada comunque disgiunta dalla titolarita' attiva o passiva dei rapporti scaturiti da specifiche domande giudiziali, ovvero, secondo altra prospettazione, che, anche nel caso della mera denuncia di lite, nei confronti del chiamato sia sempre ravvisabile una domanda di accertamento. Di qui l'impossibilita' di ravvisare, nelle fattispecie messe a confronto, differenze sostanziali idonee a legittimare discipline differenziate. Detto questo pare al g.i. che il contesto unitario entro il quale vanno considerati i precetti degli artt. 24, commi primo e secondo e dell'art. 3 della Carta costituzionale, imponendo che ad identica fattispecie processuale corrisponda identita' di diritti e oneri processuali, comporta che il contradditorio fra le parti originarie ed il terzo chiamato sia assicurato in posizione di uguaglianza; situazione che non si verificherebbe nel caso in cui il regime delle decadenze previsto per taluna delle parti fosse diverso da quello previsto per le altre. Nello schema generale del nuovo processo civile le domande riconvenzionali e le eccezioni delle parti sono soggette infatti a termini di preclusione anteriori l'udienza cui alle controparti e' consentito svolgere la propria conseguenziale attivita' difensiva; e cio' sia per l'attivita' riguardante le questioni rilevabili d'ufficio, sia per quella volta all'ampliamento del thema decidendum mediante le eccezioni in senso stretto o le domande riconvenzionali che fossero conseguenziali alla prima modificazione. A tale disciplina e' evidentemente sottesa la ratio di attribuire ai destinatari della nuova domanda o eccezione un congruo termine per l'approntamento delle proprie eccezioni e controdomande, termine che nella visione del legislatore assume pertanto carattere essenziale nella connotazione del diritto di difesa di ciascuna parte. Orbene dalla considerazione sull'essenzialita' di siffatto elemento nell'esercizio del diritto di difesa discende la conseguenza che i principi degli artt. 3 e 24 della Costituzione sarebbero violati a danno delle originarie parti processuali ove analogo termine non fosse a queste riconosciuto rispetto alle domande riconvenzionali dei terzi chiamati, cui sarebbe consentito in tal modo mutare il thema decidendum nella stessa udienza in cui fossero tardivamente costituiti. Lo squilibrio di posizioni processuali che ne deriverebbe sarebbe infatti lesivo delle ragioni difensive del convenuto, nei casi di chiamata da parte di questo, e dell'attore nei casi di chiamata autorizzata su sua istanza. Nel primo caso - riguardante la fattispecie oggetto della presente ordinanza - al convenuto non sarebbe consentito partecipare, in consapevole posizione dialettica, all'attivita' volta alla rilevazione delle questioni sollevabili d'ufficio (verifica dell'integrita' del contraddittorio e dei poteri rappresentivi delle parti, rilievi sulle nullita' riguardanti la domanda riconvenzionale del terzo ex artt. 167 comma 2, seconda e terza proposizione); attivita' normalmente svolte nell'udienza prevista dall'art. 180 c.p.c., e non meno importante, ai fini difensivi, di quella riguardante le eccezioni in senso stretto e le domande riconvenzionali, ben potendo il giudizio essere definito sulla base di questioni rilevate d'ufficio su segnalazione di parte, ed avendo quindi il legislatore proprio per tale ragione conservato, nonostante la scissione dell'udienza di prima comparizione dalla prima udienza di trattazione, il termine di costituzione del convenuto nel venti giorni anteriori l'udienza fissata ex art. 180 c.p.c. Detto questo va precisato che se e' vero che la posizione del chiamante non si presenta diversa, in tal caso, da quella del convenuto nei cui confronti l'attore abbia proposto la propria riconvenzionale, la diversita' delle situazioni in cui si trovano i due diversi rapporti processuali non giustifica l'identita' di disciplina. Nelle ipotesi di riconvenzionale proposta dall'attore l'eccezione al generale principio del termine di difesa e' invero spiegata dal fatto che il convenuto, avendo gia' avuto la possibilita', in due diversi momenti, di apportare modificazioni al thema originariamente proposto dalla controparte (termine di costituzione e termine ex art. 180 c.p.c. per le "eccezioni non rilevabili d'ufficio"), si trova in posizione di sufficiente padronanza della materia, tale, comunque, da attribuire all'eventuale ulteriore differimento dell'udienza il carattere di un eccesso di garanzia, non ravvisabile invece nei rapporti con il chiamato, ove quest'ultimo fosse assoggettato all'onere - indispensabile in tale ipotesi - della normale deduzione della propria contro-domanda nei venti giorni precedenti l'udienza; e cio' in quanto il rapporto processuale fra tali soggetti si trova ancora nelle sue fasi iniziali. Di qui l'impossibilita' di ravvisare nella disciplina della riconvenzionale dell'attore un'identita' di ratio idonea a spiegare la identita' di posizione del convenuto nei riguardi della riconvenzionale del chiamato. Nel caso di chiamata ad istanza dell'attore la violazione del diritto di difesa sarebbe poi, ancora piu' grave, in quanto il meccanismo previsto dall'art. 269 c.p.c. commi terzo e quinto, sottintendendo che la nuova udienza fissata dal g.i. sia gia' quella destinata, nei rapporti con il terzo, alla trattazione delle questioni previste all'art. 183 c.p.c., fa si' che il mancato richiamo al comma 2 dell'art. 167 c.p.c., consenta al terzo di proporre le proprie domande riconvenzionali nella medesima udienza (ex art. 183 c.p.c.) in cui la controparte sarebbe tenuta, non solo a sollevare le questioni, rilevabili anche d'ufficio, deputate all'udienza ex art. 180 c.p.c., ma anche a proporre le eccezioni e domande riconvenzionali conseguenziali alle difese del terzo, privandola, quindi, di qualunque termine per l'approntamento della normale difesa. Recita infatti l'art. 269 c.p.c., che restano ferme per le parti le preclusioni ricollegate alla prima udienza di trattazione mentre il termine eventuale di cui all'uItimo comma dell'art. 183 c.p.c. e' fissato dal giudice istruttore nell'udienza di comparizione del terzo; termine che va utilizzato tuttavia unicamente per le precisazioni o modificazioni delle domande, eccezioni e conclusioni gia' proposte, non anche per le domande o eccezioni, conseguenziali alle domande riconvenzionali del chiamato, che dovessero ancora essere proposte, le quali andrebbero pertanto immediatamente dedotte nella medesima udienza in cui le riconvenzionali del terzo venissero proposte. Di qui la conclusione che la posizione processuale delle parti costituite e' nell'attuale formulazione dell'art. 271 c.p.c. sfavorevolmente squilibrata a vantaggio del terzo chiamato, squilibrio che ad avviso del g.i., rende non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale della norma dell'art. 271 c.p.c., in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione nella parte in cui non richiama la disposizione dell'art. 167, comma 2, c.p.c. Sulla rilevanza Va a questo punto valutata la rilevanza della sospettata illegittimita' della norma nel presente giudizio in cui il terzo non ha ancora proposto alcuna domanda riconvenziale. Il carattere ipotetico di questa, e della sua tardivita', fa apparire, infatti, a prima vista, altrettanto ipotetica la violazione dei richiamati principi costituzionali e irrilevante, quindi, nella presente situazione processuale, la prospettata questione di costituzionalita'. Contrariamente all'apparenza tuttavia sembra a questo g.i. che la possibile efficacia, nel giudizio in corso, dell'eventuale sentenza di illegittimita' pronunciata dalla Corte, renda la questione medesima rilevante solo nella presente situazione processuale. La nuova normativa sarebbe infatti suscettibile di due interpretazioni, entrambe convergenti nel senso dell'attuale rilevanza della questione. Ove infatti si ritenesse che il principio tempus regit actum impedisca l'applicazione indiretta della nuova disciplina al rapporto processuale gia' costituitosi per effetto della domanda riconvenzionale tardivamente proposta dal terzo, la domanda medesima, essendo comunque retta dalla precedente disciplina, andrebbe comunque ritenuta ammissibile nel processo in corso, con conseguente inevitabile violazione dei principi costituzionali sopra richiamati, e inutilita' quindi (e irrilevanza) della questione, sollevata dopo l'effettiva (e tardiva) proposizione della domanda. Ove invece si ritenesse che la normativa risultante dalla pronuncia della Corte sia suscettibile di applicazione indiretta, nelle fasi di controllo dell'attivita' precedentemente compiuta, il diritto di difesa risulterebbe inevitabilmente violato a danno del terzo, poiche' la posizione di questi, irrimediabilmente decaduto dal potere di proporre le domande riconvenzionali che, alla luce della precedente normativa, aveva legittimamente introdotto, risulterebbe evidentemente squilibrata a vantaggio del chiamante, sicche' sarebbe proprio l'effetto della pronuncia di incostituzionalita' a determinare - sia pure in direzione contraria - una violazione del diritto di difesa. Di qui la necessita' di far riferimento nel giudizio sulla rilevanza del quesito ad una nozione che tenga conto non solo dell'attualita' delle questioni oggetto del giudizio direttamente pregiudicato ma anche dell'attualita' delle posizioni processuali il cui esercizio possa comportare l'inevitabile violazione di diritti costituzionalmente garantiti. Inevitabilita' che, stante la sua attuale proiezione sul giudizio definitivo (ancorche' futuro) rende in tal modo attuale anche la rilevanza della questione su di esso. In base a tale criterio, poiche' per effetto della chiamata in giudizio e della posizione di parte conseguentemente assunta dal terzo, quest'ultimo e' gia' investito del potere di proporre domande riconvenzionali secondo modalita' che, per le ragioni sopra esposte, appaiono in contrasto con i richiamati principi costituzionali, e poiche' alla violazione del diritto di difesa non potrebbe ovviarsi nel presente procedimento mediante la pronuncia della Corte ove la relativa questione venisse proposta soltanto dopo l'effettiva proposizione della domanda riconvenzionale (secondo modalita' reputate incostituzionali), la questione di legittimita' della norma, non essendo piu' rilevante in tale ultimo caso, e' necessariamante rilevante invece nel momento attuale, anteriore all'effettivo esercizio del potere sospettato di incostituzionalita', e posteriore all'atto (chiamata in giudizio) produttivo del potere processuale disciplinato dalla norma sospettata di incostituzionalita'. Si ricava da tale nozione di attualita', intesa come attualita' della proiezione della questione costituzionale sulla futura decisione della controversia che e' solo al momento della realizzazione della situazione processuale suscettibile di comportare la violazione del principio costituzionale che si produce la rilevanza della questione; non prima, non essendo attuale la sua futura proiezione sulla definizione del giudizio, non dopo, a potere gia' esercitato, essendo in tale momento divenuta inutile, per il giudizio in corso, l'eventuale pronuncia di incostituzionalita'. Diversamente, sarebbero le stesse norme disciplinanti il giudizio di legittimita' costituzionale a determinare, nel giudizio in corso, la violazione del diritto di difesa, atteso che, come si e' gia' detto, anche nel caso in cui si ritenesse che la pronuncia di illegittimita' costituzionale fosse applicabile alle situazioni pregresse, la posizione di una delle parti (in tal caso quella del terzo che avesse gia' tardivamente proposto la propria domanda risulterebbe inevitabilmente squilibrata a vantaggio dell'altra. Di qui il primo e piu' importante profilo di rilevanza della questione di costituzionalita'. Ad esso, all'attualita' cioe' della situazione processuale suscettibile di proiettarsi sul giudizio definitivo, sono riconducibili due aspetti ulteriori riguardanti le attivita' del chiamante e del giudice Il primo consiste nel fatto che la definizione della questione di costituzionalita', nell'uno o nell'altro senso, incide sul contenuto essenziale dell'atto di citazione che il chiamante e' tenuto a redigere e notificare, stante l'irrilevanza nell'attuale sistema processuale dell'emissione dell'avviso ex art. 163 c.p.c. n. 7 e l'essenzialita' dello stesso in caso di dichiarata incostituzionalita' della norma. Di qui la proiezione della situazione processuale sospettata di illegittimita' sul giudizio riguardante la validita' degli atti del chiamante. Il secondo (di contenuto esclusivamente pratico tuttavia.) consiste nel fatto che il decreto di fissazione della nuova udienza, pronunciato dal g.i. ex art. 269, comma 2, c.p.c., sovrapponendosi al decreto precedentemente pronunciato ex art. 168-bis ultimo comma c.p.c., va emesso tenendo conto delle medesime ragioni di razionale amministrazione del carico di lavoro alle quali e' finalizzato il secondo (identici sono infatti i termini fissati per la loro emanazione). Di qui la conseguenza che nell'emissione del primo, cosi' come nell'emissione del decreto ex art. 168-bis ultimo comma c.p.c., il magistrato, per poter cadenzare i tempi del proprio lavoro in modo da assicurare il proficuo svolgimento della prima udienza, dovra' poter anticipatamente conoscere i termini e tempi della controversia, tenendo conto del contenuto delle questioni che potranno essere sollevate nell'udienza da differire, e del tempo occorrente per la loro esauriente trattazione; contenuto, e tempo che saranno naturalmente diversi nel caso in cui nell'udienza differita il chiamato sia o non sia ammesso a proporre domande riconvenzionali, stante il maggior tempo che nel primo caso si rendera' necessario sia a lui stesso - per le necessarie verifiche d'ufficio - sia al chiamante - soggetto all'onere dell'immediato esame della domanda proposta nei suoi confronti - e del minor tempo a entrambi occorrente, invece, ove le rispettive attivita' potessero essere compiute nei venti giorni anteriori. Diversi quindi i tempi di esaurimento dell'udienza, diverso il contenuto del decreto di differimento richiesto al giudice per l'organizzazione del lavoro dell'ufficio, rilevante, di conseguenza, sul contenuto del provvedimento fin d'ora richiesto all'istruttore (anche in assenza di domande riconvenzionali gia' proposte dal chiamato) la questione di legittimita' costituzionale della norma. Trattasi naturalmente di rilevanza esclusivamente pratica, inidonea a riflettersi sulla decisione oggetto di controversia, sintomatica tuttavia dell'attualita' della questione e dei profili di rilevanza giuridica precedentemene esaminati.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87: dichiara non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 271 c.p.c., per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione della Repubblica, nella parte in cui non prevede che al terzo chiamato in giudizio si applichino, con riferimento all'udienza per la quale e' citato, le disposizioni dell'art. 167, secondo comma, e 171, secondo comma, del codice di procedura civile; Sospende il presente procedimento; Ordina l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Manda alla cancelleria di notificare la presente ordinanza alle parti ed al Presidente del Consiglio dei Ministri nonche' di curarne la comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Roma, addi' 1 luglio 1997 Il giudice istruttore: Di Benedetto 97C1200