N. 445 SENTENZA 16 - 30 dicembre 1997

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Ordinamento  penitenziario  -   Beneficio   della   semiliberta'   -
 Concessione  nei  confronti  dei  condannati  che prima della data di
 entrata in vigore dell'art. 15, comma 1, del d.-l. 8 giugno 1992,  n.
 306,  convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 1992, n. 356,
 abbiano raggiunto un grado  di  rieducazione  adeguato  al  beneficio
 richiesto  e  per  i  quali  non  sia  accertata  la  sussistenza  di
 collegamenti  attuali  con  la  criminalita'  organizzata  -   Omessa
 previsione  - Riferimento alle sentenze della Corte nn. 306 del 1993,
 504 del 1995, e 68 del 1995 - Violazione del principio della funzione
 rieducativa della pena - Innovazione legislativa recante connotazioni
 sostanzialmente ablative e riproduttive del carattere di "revoca" non
 fondata sulla condotta  colpevole  del  condannato  -  Illegittimita'
 costituzionale.
 
 (Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 4-bis, comma 1).
 
(GU n.1 del 7-1-1998 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
  Presidente: dott. Renato GRANATA;
  Giudici: prof. Giuliano  VASSALLI,  prof.  Francesco  GUIZZI,  prof.
 Cesare  MIRABELLI,  prof.  Fernando  SANTOSUOSSO,  avv. Massimo VARI,
 dott.  Cesare  RUPERTO,  dott.  Riccardo   CHIEPPA,   prof.   Gustavo
 ZAGREBELSKY,  prof.  Valerio  ONIDA,  prof.  Carlo  MEZZANOTTE,  avv.
 Fernanda CONTRI,  prof.  Guido  NEPPI  MODONA,  prof.  Piero  Alberto
 CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
 ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 4-bis della
 legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario  e
 sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'),
 promosso  con  ordinanza emessa il 24 settembre 1996 dal tribunale di
 sorveglianza di Roma sull'istanza proposta da Rizzi Daniele, iscritta
 al n. 1308 del registro ordinanze 1996 e  pubblicata  nella  Gazzetta
 Ufficiale  della  Repubblica  n.  50, prima serie speciale, dell'anno
 1996;
   Visto l'atto di costituzione di Rizzi Daniele;
   Udito nella camera di consiglio  del  1  ottobre  1997  il  giudice
 relatore Giuliano Vassalli.
                           Ritenuto in fatto
   1.  -  Il  tribunale  di  sorveglianza  di  Roma, premesso di dover
 decidere sulla istanza di semiliberta' proposta da persona condannata
 ad anni ventuno di reclusione per il delitto di cui all'art. 630 cod.
 pen., e nei cui confronti non poteva essere ritenuto  sussistente  il
 requisito  della utile collaborazione ex art. 58-ter dell'Ordinamento
 penitenziario (legge 26 luglio 1975 n. 354, come modificata dal d.-l.
 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella legge   12 luglio  1991,  n.
 203) ne' ricorreva il presupposto della "collaborazione inesigibile",
 dopo  aver passato in rassegna il percorso rieducativo del condannato
 alla luce, anche, della giurisprudenza costituzionale che ha preso in
 esame   il   regime   dei   divieti   stabilito    dall'art.    4-bis
 dell'Ordinamento    penitenziario,    ha   sollevato   questione   di
 legittimita' costituzionale del medesimo art. 4-bis  della  legge  26
 luglio  1975,  n.  354  (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla
 esecuzione delle  misure  privative  e  limitative  della  liberta'),
 deducendone  il  contrasto  con gli artt.   3, 27, terzo comma, e 25,
 secondo comma, della Costituzione.
   Rileva a tal proposito il giudice a quo che questa  Corte,  con  la
 sentenza   n.   306   del   1993,   ha   dichiarato  l'illegittimita'
 costituzionale della previsione contenuta nell'art. 15, comma 2,  del
 d.-l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n.
 356  e  concernente  la  revoca  delle  misure alternative in caso di
 mancata collaborazione con la giustizia, sul presupposto che, con  la
 concessione  del  beneficio,  l'aspettativa  del  condannato a vedere
 riconosciuto l'esito positivo del percorso di risocializzazione  gia'
 compiuto  si  consolida  in  un  nuovo  status, corrispondente ad uno
 stadio avanzato del  processo  di  risocializzazione,  che  non  puo'
 venire meno in assenza di motivi di demerito da parte del detenuto.
   Principi, questi, sviluppati nella sentenza n. 504 del 1995, ove si
 assimilo'  alla  revoca  delle  misure alternative la inibitoria alla
 concessione di permessi premio  al  condannato  che  ne  avesse  gia'
 fruito, osservandosi come l'interruzione dei permessi per ragioni non
 addebitabili  al  condannato si ponesse in contrasto con il principio
 di progressivita' del trattamento.
   Ed e' proprio alla luce di tali principi  che  si  profilerebbe  un
 contrasto  tra  la  norma  impugnata  e l'art. 27, terzo comma, della
 Costituzione. Dalle citate sentenze,  osserva  infatti  il  tribunale
 rimettente,  sembra  che  questa  Corte  non  abbia  soltanto  inteso
 "cristallizzare  la  posizione  del  condannato   contro   interventi
 peggiorativi da parte del legislatore, ma abbia ritenuto di dover far
 salva  la progressione trattamentale nei confronti di coloro che gia'
 si siano dimostrati meritevoli di  risocializzazione".  Da  cio'  due
 rilievi.  Da  un  lato,  se  si afferma che l'esperienza dei permessi
 premio non puo' interrompersi  perche'  funzionale  alla  concessione
 delle  misure  alternative, la norma che nella medesima situazione di
 fatto rende queste ultime inapplicabili si espone al medesimo  dubbio
 di  costituzionalita'.    Sotto  altro profilo, si e' determinata una
 fascia di  soggetti  che,  ammessi  a  fruire  dei  permessi  premio,
 maturano  aspettative  ulteriori  di  reinserimento  ma,  per ragioni
 contingenti,  non  possono  accedere  ai  benefici   che   dovrebbero
 rappresentare il naturale sviluppo del processo di risocializzazione,
 senza  che cio' si giustifichi in base alla pericolosita' sociale o a
 collegamenti con la criminalita' organizzata, gia' esclusi in sede di
 concessione dei  permessi.  Da  cio',  quindi,  anche  la  violazione
 dell'art.  3 della Costituzione, attesa l'irragionevole disparita' di
 trattamento che si genera rispetto a quanti  sono  ammessi  a  fruire
 delle  misure  alternative  sol  perche'  concesse  con provvedimento
 anteriore alla entrata in vigore della norma censurata.
   Violato  sarebbe,  infine,  l'art.   25,   secondo   comma,   della
 Costituzione,  in  quanto  anche  le norme che regolano la esecuzione
 della   pena   devono   ritenersi   assoggettate   al   divieto    di
 retroattivita',   giacche'   le   disposizioni  "che  istituiscono  e
 disciplinano i benefici penitenziari, determinandone  fra  l'altro  i
 requisiti  di  ammissibilita',  si saldano con le norme sanzionatorie
 concorrendo con queste nella determinazione in concreto della pena da
 espiare".
   2. - Con memoria depositata fuori termine si e' costituita la parte
 privata, la quale ha insistito  per  l'accoglimento  della  questione
 sulla  base  delle  argomentazioni  svolte  davanti  al giudice a quo
 allorche'   ebbe   a   formulare   l'eccezione   di    illegittimita'
 costituzionale poi recepita dal Tribunale rimettente.
                         Considerato in diritto
   1.  - Il tribunale di sorveglianza di Roma, chiamato a pronunciarsi
 sulla istanza di semiliberta' proposta da persona condannata nel 1986
 per il delitto di sequestro di  persona  a  scopo  di  estorsione  ed
 altro,  ha  sollevato, in riferimento agli artt. 27, terzo comma, 3 e
 25, secondo comma,  della  Costituzione,  questione  di  legittimita'
 costituzionale  dell'art.  4-bis  della  legge 26 luglio 1975, n. 354
 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure
 privative e limitative della liberta').
   Dopo aver posto in risalto il positivo  comportamento  intramurario
 del   condannato   e  le  relative  vicende  esecutive,  venutesi  ad
 intrecciare alle modifiche normative e  agli  interventi  operati  da
 questa   Corte   in  materia  penitenziaria,  il  giudice  a  quo  ha
 sottolineato come, nella sentenza n.  306  del  1993,  pur  essendosi
 ritenuta in se' non censurabile la scelta legislativa di privilegiare
 finalita' di prevenzione generale e di sicurezza della collettivita',
 condizionando  alla  collaborazione,  per  gli  autori di determinati
 delitti, la concedibilita' delle misure alternative alla  detenzione,
 si  e'  reputato  che  tale  scelta  di  rigore incontrasse un limite
 costituzionale  nel  rispetto   dell'iter   riabilitativo,   giacche'
 l'aspettativa  del  condannato a vedere riconosciuto l'esito positivo
 del percorso di risocializzazione si consolida in  un  nuovo  status,
 non vanificabile in assenza di motivi di demerito. Una linea, questa,
 rammenta  ancora  il  giudice a quo, portata ad ulteriori conseguenze
 nella sentenza n. 504 del 1995, ove e' stata assimilata  alla  revoca
 delle  misure alternative la mancata concessione dei permessi premio,
 nell'ipotesi  in  cui  il  condannato  ne  avesse  gia'   fruito   in
 precedenza.
   Posto,  dunque,  che  la  giurisprudenza  di questa Corte ha inteso
 salvaguardare la  progressione  del  trattamento  nei  confronti  dei
 soggetti    che    si    siano    gia'   dimostrati   meritevoli   di
 risocializzazione, la norma impugnata si porrebbe  in  contrasto  con
 l'art.  27,  terzo comma, della Costituzione, in quanto nei confronti
 delle persone ammesse a  fruire  dei  permessi  premio  e  che  hanno
 maturato  aspettative  ulteriori di reinserimento, l'esclusione dalle
 misure alternative determina un arresto del percorso rieducativo, non
 giustificato dalla pericolosita' sociale o  da  collegamenti  con  la
 criminalita'  organizzata. Compromesso risulterebbe di riflesso anche
 il principio di uguaglianza, in quanto si determina una irragionevole
 disparita'  di  trattamento  rispetto  a  chi  fruisce  delle  misure
 alternative  per  il  sol  fatto  che  il  relativo  provvedimento di
 concessione e' stato adottato prima della  entrata  in  vigore  della
 norma impugnata.
   Violato   sarebbe,   infine,   l'art.   25,  secondo  comma,  della
 Costituzione, in quanto,  saldandosi  le  norme  che  disciplinano  i
 benefici  penitenziari  a  quelle  sanzionatorie,  concorrendo  nella
 determinazione in concreto delle pene da espiare,  le  stesse  devono
 soddisfare  la  medesima  garanzia  di  prevedibilita'  da  parte dei
 consociati circa le conseguenze della propria condotta.
   2. - La questione e' fondata.
   Gia' nella sentenza n. 306 del  1993,  infatti,  questa  Corte  non
 manco'  di  sottolineare  come  la  scelta operata dal legislatore di
 inibire  l'accesso  alle  misure  alternative  alla  detenzione   nei
 confronti dei condannati per taluni gravi reati avesse comportato una
 rilevante   compressione  della  finalita'  rieducativa  della  pena,
 considerato che la tipizzazione per titoli di  reato  non  appare  lo
 strumento   piu'   idoneo   per  realizzare  appieno  i  principi  di
 proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il
 trattamento  penitenziario. Il tutto non disgiunto dalla preoccupante
 tendenza - resa evidente dalle evoluzioni subite  dalla  disposizione
 oggetto  di  impugnativa  - alla configurazione normativa di "tipi di
 autore", per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe
 non essere perseguita. Da tali premesse e dal rilievo che  la  revoca
 di  una  misura  che  ha comportato una sostanziale modificazione nel
 grado di privazione della liberta' personale dovesse  necessariamente
 conformarsi   al   canone   della   ragionevolezza  ed  a  quelli  di
 proporzionalita' e individualizzazione della pena,  cui  l'esecuzione
 deve  essere  improntata,  trasse  quindi  spunto  la declaratoria di
 illegittimita' costituzionale dell'art. 15,  comma  2,  del  d.-l.  8
 giugno  1992,  n.   306, convertito, con modificazioni, nella legge 7
 agosto 1992, n.   356, nella parte in cui  prevedeva  che  la  revoca
 delle  misure  alternative  alla  detenzione  fosse  disposta  per  i
 condannati non collaboranti, anche quando non fosse  stata  accertata
 la   sussistenza   di   collegamenti  attuali  dei  medesimi  con  la
 criminalita' organizzata.
   Tale  linea  venne  successivamente  ripresa  e  sviluppata   nella
 sentenza  n.  504  del  1995. In quella occasione, infatti, la Corte,
 chiamata a pronunciarsi in tema di permessi  premio,  non  manco'  di
 ribadire   come   l'esperienza   dei  permessi  rappresentasse  parte
 integrante del programma di trattamento, al punto da far  considerare
 quell'istituto quale fondamentale strumento di rieducazione in quanto
 idoneo  a  consentire  un iniziale reinserimento del condannato nella
 societa', cosi' da potersene trarre elementi  utili  per  l'eventuale
 concessione  di  misure  alternative  alla  detenzione.  La  funzione
 pedagogico-propulsiva assolta dal permesso premio  consentiva  dunque
 di   individuare  una  progressione  nella  premialita',  cui  fa  da
 contrappunto una regressione  nella  medesima  nei  casi  di  mancato
 rientro in istituto o di altri gravi comportamenti da cui risulti che
 il  soggetto  non  si  e'  dimostrato  meritevole  del  beneficio. Si
 dedusse,  quindi,  che  privare  di  ulteriori  permessi  premio   il
 condannato  per  uno dei reati previsti nel primo periodo del comma 1
 dell'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario, quando non sia  stata
 accertata   la   sussistenza  di  collegamenti  con  la  criminalita'
 organizzata  e   sia   stata   viceversa   accertata   l'assenza   di
 pericolosita'  sociale  in  conseguenza  della  regolare  condotta in
 istituto, comprovata dalla concessione di precedenti permessi premio,
 e'  situazione  del  tutto  analoga,  proprio  per  il   profilo   di
 progressivita'  del  trattamento  che  qualifica  il  beneficio, alla
 revoca delle misure alternative alla detenzione,  gia'  ritenuta  non
 conforme alla Costituzione dalla sentenza n. 306 del 1993.
   E'  proprio  il  principio  della  progressivita'  trattamentale  a
 rappresentare, dunque, il fulcro attorno al quale si e'  dipanata  la
 giurisprudenza  di  questa  Corte,  doverosamente attenta a rimarcare
 l'esigenza che ciascun istituto si modelli e viva nel  concreto  come
 strumento dinamicamente volto ad assecondare la funzione rieducativa,
 non  soltanto  nei  profili che ne caratterizzano l'essenza, ma anche
 per i  riflessi  che  dal  singolo  istituto  scaturiscono  sul  piu'
 generale   quadro   delle   varie   opportunita'   trattamentali  che
 l'ordinamento fornisce. Ogni misura  si  caratterizza,  infatti,  per
 essere  parte  di  un  percorso  nel  quale  i  diversi interventi si
 sviluppano secondo un ordito unitario e  finalisticamente  orientato,
 al  fondo  del  quale  sta  il necessario plasmarsi in funzione dello
 specifico comportamento serbato dal  condannato.  Qualsiasi  regresso
 giustifica,  pertanto,  un  riadeguamento  del  percorso rieducativo,
 cosi' come, all'inverso, il  maturarsi  di  positive  esperienze  non
 potra'  non  generare  un  ulteriore  passaggio  nella  "scala" degli
 istituti di risocializzazione. Ebbene, di tale biunivoca correlazione
 che  deve  necessariamente  stabilirsi  tra   la   progressione   del
 trattamento rieducativo e la risposta che lo stesso ottiene sul piano
 comportamentale,  il  caso di specie rappresenta emblematico esempio.
 Come emerge,  infatti,  dalla  stessa  ordinanza  di  rimessione,  il
 comportamento  intramurario  del  condannato e' stato caratterizzato,
 nel corso dei molti anni di detenzione,  da  correttezza  e  adesione
 alle  regole  istituzionali,  e il gruppo di osservazione ha rilevato
 convinta partecipazione al trattamento  e  volonta'  di  superare  il
 passato deviante. Alla luce di tali positivi risultati, il condannato
 e' stato ammesso ai permessi premio sin dal 1988 e, nell'aprile 1992,
 era  stato  approvato  il  programma  di trattamento che prevedeva il
 lavoro all'esterno, rimasto poi ineseguito per effetto della  entrata
 in  vigore della disciplina limitativa della concessione dei benefici
 penitenziari,  introdotta  dal  decreto-legge  n.   306   del   1992,
 convertito nella legge n. 356 del 1992. Superato l'ostacolo normativo
 per i permessi premio, a seguito della richiamata sentenza n. 504 del
 1995,  viene  ora  in  discorso  la  richiesta  di  concessione della
 semiliberta', per la quale continua ad operare la preclusione dettata
 dalla norma oggetto di impugnativa, avuto riguardo al titolo di reato
 (art. 630 cod. pen.) in relazione al  quale  e'  stata  a  suo  tempo
 pronunciata la condanna in corso di esecuzione. Il positivo evolversi
 del  trattamento  ha  dunque  subito,  nel caso di specie, una brusca
 interruzione, senza che ad essa abbia in alcun  modo  corrisposto  un
 comportamento  colpevole del condannato, mostratosi, anzi, meritevole
 di proseguire quel  cammino  rieducativo  che  proprio  gli  istituti
 previsti dall'ordinamento penitenziario - e fra essi, in particolare,
 la semiliberta' - sono chiamati ad assecondare.
   La  ratio decidendi posta a fondamento delle richiamate pronunce di
 incostituzionalita', viene, quindi, nuovamente in discorso.  Soltanto
 postulando,  infatti,  la  piena  coerenza  della scelta normativa di
 espungere dal panorama delle  opportunita'  rieducative  istituti  di
 fondamentale  risalto, quale certamente e' la semiliberta', anche nei
 confronti dei soggetti - che come nella specie - gia' si trovavano da
 tempo in fase di espiazione all'atto della entrata  in  vigore  della
 nuova  e piu' rigorosa disciplina, potrebbe ritenersi non compromesso
 il principio di uguaglianza e, al  tempo  stesso,  non  frustrata  la
 funzione  rieducativa  della  pena.  Ma  e' proprio quella coerenza a
 risultare gravemente incrinata nelle ipotesi  in  cui  il  condannato
 avesse  gia'  maturato a quell'epoca positive esperienze, al punto da
 essere  iscritto  in   un   programma   di   trattamento   fortemente
 caratterizzato da adesioni comportamentali, in se' sintomatiche di un
 percorso  rieducativo  difficilmente  regredibile.  D'altra  parte, a
 proposito della norma impugnata, questa Corte ha  in  piu'  occasioni
 avuto  modo  di  osservare  come,  pur rimanendo "sullo sfondo, quale
 generale presupposto per la concessione dei benefici,  la  verificata
 assenza   di   collegamenti  con  la  criminalita'  organizzata",  la
 normativa introdotta dal decreto-legge n. 306  del  1992,  convertito
 nella  legge  n.  356  del  1992, "ha obliterato fino a dissolverli i
 parametri   probatori   alla   cui   stregua   condurre  un  siffatto
 accertamento, per  assegnare  invece  un  risalto  esclusivo  ad  una
 condotta - quella collaborativa - che si assume come la sola idonea a
 dimostrare,  per facta concludentia l'intervenuta rescissione di quei
 collegamenti". Donde la conseguenza che, incentrandosi sulla condotta
 il presupposto per il conseguimento dei benefici,  la  compatibilita'
 con  la funzione rieducativa della pena rimane esclusa tutte le volte
 in cui la collaborazione non "risulti oggettivamente  esigibile"  (v.
 la sentenza n. 68 del 1995 e la sentenza n. 504 del 1995).
   Se,  dunque,  la  collaborazione  impossibile consente di rimuovere
 l'ostacolo alla verifica dei presupposti per  l'accesso  ai  benefici
 penitenziari  e  se,  ancora, e' proprio la condotta collaborativa ad
 essere  riguardata  come  elemento  dimostrativo  della  assenza   di
 collegamenti con la criminalita' organizzata, agli identici risultati
 non   puo'   non   pervenirsi   ove  sia  stata  la  stessa  condotta
 penitenziaria a consentire di  accertare  il  raggiungimento  di  uno
 stadio  del percorso rieducativo adeguato al beneficio da conseguire.
 In presenza di una tale situazione, la  innovazione  legislativa  che
 vieta  la  concessione  di misure alternative alla detenzione finisce
 quindi per atteggiarsi alla stregua di un meccanismo  a  connotazioni
 sostanzialmente   ablative,  riproducendo  cosi'  quei  caratteri  di
 "revoca" non fondata sulla  condotta  colpevole  del  condannato  che
 questa Corte ha gia' censurato.
   La norma impugnata deve quindi essere dichiarata costituzionalmente
 illegittima  in  parte  qua  per contrasto con gli artt. 3 e 27 della
 Costituzione, restando assorbiti gli ulteriori  profili  dedotti  dal
 giudice rimettente.
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1,
 della  legge  26  luglio  1975,  n.   354   (Norme   sull'ordinamento
 penitenziario  e sulla esecuzione delle misure privative e limitative
 della liberta'), nella parte in cui  non  prevede  che  il  beneficio
 della semiliberta' possa essere concesso nei confronti dei condannati
 che, prima della data di entrata in vigore dell'art. 15, comma 1, del
 d.-l.  8  giugno  1992,  n. 306, convertito, con modificazioni, nella
 legge  7  agosto  1992,  n.  356,  abbiano  raggiunto  un  grado   di
 rieducazione  adeguato  al  beneficio richiesto e per i quali non sia
 accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la  criminalita'
 organizzata.
   Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1997.
                        Il Presidente: Granata
                        Il redattore: Vassalli
                       Il cancelliere: Fruscella
   Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1997.
                       Il cancelliere: Fruscella
 97C1502