N. 462 ORDINANZA 16 - 30 dicembre 1997

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Processo  penale - Procedimento penale a carico di iscritti all'albo
 degli avvocati e  procuratori  -  Deroga  alle  regole  ordinarie  di
 competenza  per  territorio  -  Estensione  come  per  i magistrati -
 Insussistenza di analogia fra  le  situazioni  poste  a  raffronto  -
 Manifesta infondatezza.
 
 (C.P.P., art. 11).
 
 (Cost., art. 3).
 
(GU n.1 del 7-1-1998 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
  Presidente: dott. Renato GRANATA;
  Giudici:  prof.  Giuliano  VASSALLI,  prof.  Francesco GUIZZI, prof.
 Cesare MIRABELLI, prof.  Fernando  SANTOSUOSSO,  avv.  Massimo  VARI,
 dott.   Cesare   RUPERTO,   dott.  Riccardo  CHIEPPA,  prof.  Gustavo
 ZAGREBELSKY,  prof.  Valerio  ONIDA,  prof.  Carlo  MEZZANOTTE,  avv.
 Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI MODONA, prof. Annibale MARINI;
 ha pronunciato la seguente
                               Ordinanza
 nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 11 del codice
 di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 24 gennaio 1997
 dal pretore di Padova, nel procedimento penale a carico di  Campiglio
 Pierluigi,   iscritta  al  n.  267  del  registro  ordinanze  1997  e
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  21,  prima
 serie speciale, dell'anno 1997;
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito nella camera di consiglio del 10  dicembre  1997  il  giudice
 relatore Guido Neppi Modona;
   Ritenuto  che  il  pretore  di Padova, nel corso di un procedimento
 penale a carico di un avvocato iscritto  all'albo  dell'Ordine  degli
 avvocati  e  procuratori  di  Padova,  ha  sollevato,  in riferimento
 all'art.     3  della   Costituzione,   questione   di   legittimita'
 costituzionale  dell'art.    11 del codice di procedura penale, nella
 parte in cui la norma "non si applica agli iscritti all'albo  di  uno
 degli  ordini  degli  avvocati  e  dei  procuratori del distretto cui
 appartiene l'ufficio giudiziario competente per il giudizio";
     che ad avviso del  rimettente  le  ragioni  che  giustificano  la
 deroga  alle  ordinarie  regole  della  competenza per territorio nei
 procedimenti in cui un magistrato  assume  la  qualita'  di  imputato
 ovvero  di  persona  offesa  o  danneggiata dal reato - riconducibili
 all'esigenza  di  "assicurare  oggettivamente  un  giudizio  il  piu'
 possibile  scevro da inevitabili condizionamenti ambientali", nonche'
 di  "valorizzare  pubblicamente  il  requisito  della  terzieta'  del
 giudice  rispetto ai soggetti comunque coinvolti nelle cause che deve
 decidere" - sussisterebbero anche nei confronti  degli  esercenti  la
 professione forense;
     che  "la  condanna  a  vivere  insieme  che accomuna magistrati e
 legali" comporterebbe, secondo il rimettente, le medesime conseguenze
 negative,   sotto   il   profilo    "dei    rapporti    professionali
 interpersonali" e della "immagine pubblica dell'amministrazione della
 giustizia",  che  la  disciplina dell'art. 11 cod. proc. pen. mira ad
 evitare nei  confronti  dei  magistrati,  e  giustificherebbe  quindi
 l'estensione  della  deroga  dettata  per  i magistrati agli iscritti
 all'albo degli avvocati e procuratori;
     che l'obbligo di astensione e  la  facolta'  di  ricusazione  non
 sarebbero  pertinenti,  in  quanto  istituti  attinenti  a situazioni
 diverse e non idonei a fronteggiare  le  esigenze  per  le  quali  e'
 prevista la disciplina di cui all'art. 11 cod. proc. pen;
     che  e'  intervenuto  in giudizio il Presidente del Consiglio dei
 Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata, in quanto
 le situazioni che il rimettente erroneamente ritiene analoghe sono in
 realta'  diverse,  non  sussistendo  tra magistrati e avvocati quella
 "condivisione di esperienze e di vita professionale" che caratterizza
 i rapporti tra gli appartenenti all'ordine giudiziario;
   Considerato che le ragioni della deroga alle  regole  ordinarie  di
 competenza  predisposta  dall'art. 11 cod. proc. pen. vanno ravvisate
 nella necessita'  di  assicurare  la  serenita'  e  obiettivita'  dei
 giudizi,  nonche'  l'imparzialita'  e  la  terzieta'  del giudice (v.
 sentenze n.  109 del 1993 e n. 390 del 1991), anche  con  riferimento
 all'esigenza   di  eliminare  presso  l'opinione  pubblica  qualsiasi
 sospetto di parzialita' determinato  dal  rapporto  di  colleganza  e
 dalla  normale  frequentazione  tra  magistrati  operanti  in  uffici
 giudiziari appartenenti al medesimo distretto di corte di appello;
     che tali ragioni non possono ritenersi sussistenti in relazione a
 procedimenti riguardanti iscritti  agli  ordini  degli  avvocati  del
 distretto  cui  appartiene  l'ufficio  giudiziario  competente per il
 giudizio, per  la  diversa  natura  dei  rapporti  fra  magistrati  e
 soggetti che esercitano la professione legale;
     che,   infatti,   l'abituale  frequentazione  fra  magistrati  ed
 avvocati (non dissimile, del resto, da quella che  si  determina  fra
 magistrati  e  personale di cancelleria, ovvero altro operatore della
 giustizia) non riveste i caratteri propri del rapporto di  colleganza
 fra  appartenenti  all'ordine  giudiziario,  rapporto ragionevolmente
 individuato dal legislatore  come  situazione  tipica  potenzialmente
 idonea  a  ledere  il  principio  di imparzialita' del giudice, anche
 sotto il profilo della sua immagine di  terzieta'  e  di  neutralita'
 presso l'opinione pubblica;
     che,  inoltre, l'art. 4, regio decreto-legge 27 novembre 1933, n.
 1578 (Ordinamento  delle  professioni  di  avvocato  e  procuratore),
 abilita gli iscritti all'albo ad esercitare la professione "davanti a
 tutte le corti d'appello, i tribunali e le preture della Repubblica",
 senza  alcun  limite  territoriale (limite che, invece, era stabilito
 nei confronti dei procuratori legali prima della  entrata  in  vigore
 della  legge  24  febbraio  1997,  n.  27),  e  non pone quindi alcun
 ostacolo all'esercizio,  anche  abituale,  delle  funzioni  difensive
 fuori   delle   circoscrizioni   territoriali,  di  natura  meramente
 amministrativa, cui fanno capo i vari albi degli avvocati;
     che anche sotto questo profilo non vi e' dunque  alcuna  analogia
 fra  le  situazioni  poste a raffronto, poiche' l'iscrizione all'albo
 degli avvocati non  implica  l'esercizio  di  funzioni  professionali
 nell'ambito  di un determinato distretto giudiziario, diversamente da
 quanto postula l'art. 11 cod. proc. pen. per  i  magistrati,  la  cui
 attivita'  e'  necessariamente  riferibile  a uffici ben individuati,
 organizzati secondo regole di competenza territoriale;
     che, d'altro canto, ove i rapporti tra il  giudice  e  l'avvocato
 parte   del   processo   siano   tali  da  pregiudicare  in  concreto
 l'imparzialita'  del  giudizio,   soccorrono   gli   istituti   della
 astensione  e ricusazione del giudice (v. sentenza n. 390 del 1991 e,
 piu' in generale, sentenze nn. 306, 307 e 308 del 1997);
     che pertanto la questione deve essere  dichiarata  manifestamente
 infondata.
   Visti  gli  artt.  26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti
 alla Corte costituzionale.
                            Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara la manifesta infondatezza della questione di  legittimita'
 costituzionale   dell'art.   11   del  codice  di  procedura  penale,
 sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal  pretore
 di Padova, con l'ordinanza in epigrafe.
   Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1997.
                        Il Presidente: Granata
                      Il redattore: Neppi Modona
                       Il cancelliere: Fruscella
   Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1997.
                       Il cancelliere: Fruscella
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