N. 32 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 ottobre 1997

                                 N. 32
  Ordinanza  emessa  il 22 ottobre 1997 dal tribunale di Pordenone nel
 procedimento penale a carico di Moras Luigi ed altri
 Processo penale  -  Dibattimento  -  Esame  di  persone  imputate  in
    procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere
    -  Lettura  dei  verbali  delle dichiarazioni rese nel corso delle
    indagini preliminari - Preclusione salvo l'accordo delle  parti  -
    Lamentata   irripetibilita'   e   non   utilizzabilita'   di  tali
    dichiarazioni  per  la  decisione  -  Disparita'  di   trattamento
    rispetto  al regime previsto per altre fonti di prova irripetibili
    nella fase dibattimentale ma utilizzabili per la decisione  (artt.
    354,  431  e  5l2  del  cod. proc. pen.) - Lesione dei principi di
    indipendenza del giudice e di obbligatorieta' dell'azione penale.
 Processo penale - Dibattimento -  Valutazione  delle  prove  -  Nuova
    normativa   -   Disciplina  transitoria  -  Lamentata  sostanziale
    applicabilita'  della  novella  ai   procedimenti   in   corso   -
    Irragionevolezza.
 Processo  penale  -  Dibattimento  -  Valutazione delle prove - Nuova
    normativa - Disciplina transitoria - Esame di persone imputate  in
    procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere
    -  Dichiarazioni  rese  nel  corso  delle  indagini  preliminari -
    Previsione  di  limiti  alla  valutazione  come  prove   di   tali
    dichiarazioni  (attendibilita'  confermata  da  altri  elementi di
    prova) -  Irragionevole  disparita'  di  trattamento  rispetto  al
    regime previsto per altre fonti di prove - Lesione dei principi di
    indipendenza del giudice e di obbligatorieta' dell'azione penale.
 Processo  penale - Dibattimento - Valutazione delle prove - Modifiche
    normative - Esame di persona imputata in procedimento  connesso  -
    Diversita'  di  regime  a  seconda  se  tali  persone  siano state
    esaminate per la prima volta o meno successivamente all'entrata in
    vigore della novella - Incidenza sul diritto di difesa  -  Lesione
    dei  principi  di  indipendenza  del  giudice e di obbligatorieta'
    dell'azione penale.
 (C.P.P. 1998, art. 513, modificato dalla  legge  7  agosto  1997,  n.
    267, art. 1; legge 7 agosto 1997, n. 267, art. 6, commi 2 e 5).
 (Cost., artt. 2, 3, 24, 101 e 112).
(GU n.6 del 11-2-1998 )
                             IL TRIBUNALE
   Ha emesso la seguente ordinanza di rimessione degli atti alla Corte
 costituzionale.
   I. - Le premesse.
   Nell'ambito  del giudizio penale di primo grado n. 165/1995 r.g.  a
 carico di Moras Luigi, Lo  Bue  Ettore,  Lo  Bue  Francesco,  Stabile
 Rocco,  Bernardin  Antonio  e  De  Ben  Steno,  in accoglimento delle
 richieste istruttorie avanzate dal p.m. in data 25 novembre 1996, nel
 corso dell'udienza del 17 febbraio 1997  si  procedeva  all'esame  di
 Roncali  Lino,  Giuanuario  Gianfranco,  Gianuario  Raffaele,  Zaghet
 Dario, Silot Walter e Amadori Pasqua,  e  cio'  nelle  forme  di  cui
 all'art.  210  c.p.p.,  essendo  soggetti  imputati  in  procedimento
 connesso per i quali si era proceduto separatamente.
   Essendosi costoro avvalsi della  facolta'  di  non  rispondere,  su
 richiesta   del  p.m.  il  Collegio  disponeva  l'acquisizione  delle
 dichiarazioni precedentemente rese dai predetti a mente dell'art. 513
 c.p.p. nel testo anteriormente vigente alla  novella  della  legge  7
 agosto 1997, n. 267.
   L'esame  delle  suddette  dichiarazioni  evidenzia,  allo stato, la
 sussistenza di chiamate in correita' a carico di alcuni degli odierni
 imputati soprattutto da parte di Gianuario Gianfranco  e,  in  misura
 minore, da parte di Gianuario Raffaele e Roncali Lino.
   All'udienza  del  13 ottobre 1997, in accoglimento dell'istanza del
 p.m., veniva disposto un nuovo esame  di  Roncali  Lino  e  Gianuario
 Gianfranco  ai  sensi  dell'art. 6, secondo comma, legge n. 267/1997,
 che veniva effettuato nel corso della medesima  udienza,  avvalendosi
 gli stessi ulteriormente della facolta' di non rispondere.
   Premetteva  all'incombente  il  Collegio, con ordinanza allegata al
 verbale di udienza, di  ritenere  l'acquisizione  dei  verbali  delle
 dichiarazioni  precedentemente  rese  dalle  persone  di  cui  sopra,
 disposta all'udienza del 17 febbraio  1997,  formalita'  equipollente
 alla  lettura  per  le  stesse  prevista dall'originaria formulazione
 dell'art. 513 c.p.p., essendo l'acquisizione finalizzata alla lettura
 dei verbali in questione (con cio' richiamandosi ai principi espressi
 sul punto dalla suprema Corte: cfr. Cass., sez. IV, 29 ottobre  1996,
 n.  10585; Cass., sez. I, 10 febbraio 1994, n. 1723), giustificandosi
 pertanto  la rinnovazione dell'esame delle persone sopra indicate con
 il disposto della norma transitoria dell'art. 6, secondo comma, legge
 n.  267/1997  (che  appunto  presuppone  l'avvenuta   lettura   delle
 dichiarazioni precedentemente rese).
   Parimenti,  veniva  disposta  la citazione per l'udienza odierna di
 Gianuario Raffaele, Amadori Pasqua, Zaghet Dario e Silot Walter,  per
 rendere  nuovo  esame, nel corso della quale i predetti (ad eccezione
 della Amadori Pasqua, non comparsa per un impedimento) si  avvalevano
 ulteriormente della facolta' di non rispondere.
   Vale  a  questo  punto precisare che, qualora si dovesse dissentire
 dall'orientamento espresso dal Collegio  in  ordine  all'equipollenza
 tra l'acquisizione delle dichiarazioni precedentemente rese e la loro
 lettura   prevista  dall'art.  513  c.p.p.  ante  novella,  la  nuova
 audizione degli imputati in procedimento  connesso  sopra  menzionati
 deve  quantomeno  essere  ricondotta  nell'ambito  applicativo  della
 formulazione dell'art. 513 c.p.p. nel testo attualmente vigente.
   II. - La rilevanza.
   In tale contesto processuale, la rilevanza delle dedotte  questioni
 di  incostituzionalita'  e'  evidente sia in fatto sia in diritto: in
 fatto, perche' le dichiarazioni di imputati di procedimento connesso,
 che si sono avvalsi della facolta'  di  non  rispondere,  afferiscono
 all'oggetto del processo, come e' dato dimostrare sia da quanto sopra
 gia' evidenziato in ordine alle chiamate in correita' sia dalle liste
 testimoniali  richieste  dal p.m. in data 12 marzo 1996 e 13 novembre
 1996 (quest'ultima depositata a seguito del  mutamento  del  Collegio
 per  effetto  della  pronunzia  da  parte della Corte, costituzionale
 della  sentenza  n.  131  del  24  aprile   1996,   con   conseguente
 ricelebrazione  ab  imo  del giudizio), autorizzate dal presidente ed
 ammesse   dal   collegio   giudicante,    nonche'    dall'esposizione
 introduttiva   e   dalle  istanze  istruttorie  rassegnate  dal  p.m.
 all'udienza del 25 novembre 1996 (cfr. da pag. 31  a  pag.  40  della
 trascrizione)  con  riferimento  alla richiesta di audizione, tra gli
 altri, di coimputati nel medesimo procedimento  che  avevano  chiesto
 l'applicazione  della pena ex art.  444 c.p.p.; in diritto perche' le
 norme delle quali  si  eccepisce  l'incostituzionalita',  l'art.  513
 c.p.p.  e  l'art. 6 legge n. 267/1997, sono certamente applicabili al
 presente processo, che pende nel primo grado di giudizio.
   III. - La non manifesta infondatezza.
   La comprensione  dei  profili  di  incostituzionalita'  oggetto  di
 denuncia  impone,  preliminarmente,  il richiamo di alcuni dei limiti
 posti al legislatore nella elaborazione di  modelli  processuali  dal
 vigente  assetto  costituzionale, siccome individuati nel tempo dalla
 giurisprudenza della Consulta.
   La stessa Corte costituzionale, infatti, ha  segnalato  che  "(...)
 va   premesso,   sul   piano   metodologico,  che  la  considerazione
 dell'ordinamento processuale italiano va condotta  a  prescindere  da
 astratte  modellistiche sulla base del tessuto normativo positivo, la
 cui  interpretazione  e  comprensione  non  puo'  che   derivare   da
 un'attenta  lettura  dei principi e criteri direttivi enunciati dalla
 legge delega e  dei  principi  costituzionali  di  cui  questa  (...)
 richiede  attuazione.  Non  va,  cioe',  dimenticato  che  il sistema
 processuale delineato nella legge delega ed  attuato  nel  codice  e'
 affatto  originale,  dato che tende bensi' ad attuare i caratteri del
 sistema accusatorio, ma secondo i criteri  ed  i  principi  direttivi
 specificati  nelle  direttive  che  seguono; e che, poiche' la stessa
 norma detta  ancor  prima  l'obbligo  di  attuare  i  principi  della
 Costituzione,    una    adeguata    considerazione   dell'ordinamento
 effettivamente  vigente  non  puo'   prescindere   dagli   interventi
 correttivi  che  questa Corte si e' trovata a dover apportare" (Corte
 cost., sentenza n. 111/1993).
   Al riguardo, si osservi che i principi contenuti nella sentenza  n.
 254  del  1992  (con la quale e' stata ritenuta l'incostituzionalita'
 dell'originaria formulazione dell'art. 513 c.p.p., nella parte in cui
 non consentiva la lettura in sede dibattimentale delle  dichiarazioni
 rese  nella  fase  delle indagini preliminari da alcuna delle persone
 indicate da quell'articolo), ben lungi  dal  rappresentare  un  novum
 negli  orientamenti  della  Corte  costituzionale,  costituiscono  al
 contrario espressione di una costante giurisprudenza.
   Ed invero il principio di non dispersione  della  prova  ha,  nella
 costante   interpretazione   del  giudice  delle  leggi,  significato
 costituzionale e trova fondamento negli artt.  2,  3  e  25,  secondo
 comma,   Cost.,   che   in  un  sistema  orientato  dai  principi  di
 solidarieta',  uguaglianza  e  legittimita'  impongono,  quale   fine
 primario  ed  ineludibile  del  processo penale, quello della ricerca
 della verita' (cfr. Corte cost., sentenza n. 255/1992;  cfr.  in  tal
 senso Corte cost., sentenze n.  179/1994, n. 111/1993, n. 24/1992, n.
 258/1991).
   In  considerazione di cio', la Corte ha invero affermato che "(...)
 l'oralita', assunta a principio ispiratore  del  nuovo  sistema,  non
 rappresenta  nella  disciplina  del codice il veicolo esclusivo della
 formazione della prova in dibattimento; cio' perche' - e'  appena  il
 caso di ricordarlo - fine primario ed ineludibile del processo penale
 non  puo' che rimanere quello della ricerca della verita' (in armonia
 con i principi della Costituzione: come reso esplicito dall'art.   2,
 prima  parte,  e  nella  direttiva  73 della legge delega, tradottasi
 nella formulazione degli artt. 506 e 507; cfr. anche la  sentenza  n.
 258/1991  di  questa  Corte),  di  guisa che in taluni casi in cui la
 prova non possa di fatto prodursi  oralmente  e'  dato  rilievo,  nei
 limiti  ed  alle  condizioni  di  volta  in  volta  indicate, ad atti
 formatasi prima ed al di fuori del  dibattimento.  (...)  Il  sistema
 accusatorio  positivamente  instaurato ha prescelto la dialettica del
 contraddittorio   dibattimentale    quale    criterio    maggiormente
 rispondente  all'esigenza  di  ricerca  della  verita'; ma accanto al
 principio della oralita' e' presente, nel nuovo sistema, il principio
 della non dispersione degli elementi di prova non compiutamente o non
 genuinamente acquisibili con  il  metodo  orale"  (cfr.  Corte  cost.
 sentenza n. 255/1992).
   Del  pari,  il  principio della obbligatorieta' dell'azione penale,
 nella sua ineliminabile connessione con il principio di legalita', e'
 incompatibile  con  "(...)  norme  di  metodologia  processuale   che
 ostacolino  in  modo  irragionevole  il  processo di accertamento del
 fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione" (cfr.
 Corte cost., n. 111/1993).
   In conclusione, deve escludersi che sia  stato  costituzionalizzato
 un  modello  processuale  di  tipo  accusatorio  puro  - nel quale il
 processo penale sarebbe "una tecnica di soluzione tra  conflitti  nel
 cui   ambito  al  giudice  sarebbe  assegnato  un  ruolo  di  garante
 dell'osservanza delle regole di una contesa tra parti contrapposte ed
 il  giudizio avrebbe la funzione di non accertare i fatti reali, onde
 pervenire ad una decisione il piu' possibile  aderente  al  risultato
 del  diritto  sostanziale,  ma  di  attingere  a  quella sola verita'
 processuale  che  sia  possibile  conseguire  attraverso  la   logica
 dialettica  del  contraddittorio  e  nel  rispetto di rigorose regole
 metodologiche e processuali  coerenti  al  modello"  -;  inoltre,  il
 principio   della   oralita'   del   processo,  nel  vigente  assetto
 costituzionale, e' limitato da principi ad esso sovraordinati, e  tra
 essi vi e' certamente quello della conservazione delle prove.
   Orbene,  gia'  siffatte  considerazioni  sarebbero  sufficienti  ad
 evidenziare  la  non  manifesta  infondatezza  della   questione   di
 legittimita' costituzionale prospettata.
   Del resto, la possibilita' di un contrasto tra le norme di cui alla
 legge  n.  267/1997  e  l'interpretazione  delle norme costituzionali
 adottata  dalla  Corte  costituzionale  emerge  con  chiarezza  dalla
 Relazione  al  disegno  di  legge  e  dai  lavori  preparatori: nella
 prolusione al disegno di legge n. 964, comunicato alla presidenza  il
 16  luglio 1996, si legge testualmente uno specifico riferimento alla
 sentenza n. 254/1992, nella  quale,  secondo  gli  autori,  la  Corte
 costituzionale  "(...) ha visto, sbagliando, una irragionevolezza tra
 la  disciplina  prevista  nel  primo  comma  (dell'art  513   vecchia
 formulazione)  per  le  dichiarazioni  dell'imputato  e la disciplina
 prevista dal secondo comma per le dichiarazioni di  persone  imputate
 in   procedimenti   connessi   e   ha   dichiarato   l'illegittimita'
 costituzionale  del  secondo  comma  dell'art.  513   c.p.p."   (cfr.
 Relazione  al  disegno  di  legge n. 964 relativo alla modifica delle
 disposizioni del codice di procedura penale in  tema  di  valutazione
 delle  prove, p. 3, comma 1, ultimo periodo, ultimo capoverso); nella
 trentatreesima seduta della Commissione giustizia del Senato, in data
 9 ottobre 1996, si prospettava la possibilita' di un nuovo intervento
 della Corte su qualsiasi soluzione tendente a tornare alla situazione
 di diritto antecedente alla sentenza della Consulta,  possibilita'  a
 cui si obiettava che "(...) la piu' volte citata sentenza della Corte
 costituzionale    sarebbe    stata    sopravvalutata    poiche'    in
 quell'occasione  il  giudice  della  legittimita'  costituzionale  ha
 erroneamente  ravvisato una sperequazione tra la disciplina di cui al
 primo comma e quella di cui secondo comma" (cfr. Lavori Parlamentari,
 resoconto della trentatreesima seduta).
   E tuttavia, una piu' attenta analisi del contenuto  delle  norme  e
 degli  effetti che esse producono all'interno del sistema processuale
 vigente,    impone    di    individuare    ulteriori    profili    di
 incostituzionalita',  che  si traducono in reiterate violazioni degli
 artt. 3, 101, secondo comma, e 112 della Costituzione.
   III. A. - Le violazioni dell'art. 3 della Costituzione.
   1.a. - La prospettazione delle censure  d'incostituzionalita'  alle
 norme introdotte con la legge n. 267/1997 muove da alcune premesse in
 diritto  poste  dalla  giurisprudenza  della  Corte costituzionale in
 relazione al concetto di atto irripetibile.
   Al  riguardo,  la  Consulta,  nel  respingere  una   questione   di
 incostituzionalita',  ha  osservato  come  l'esercizio del diritto di
 astenersi dal rendere dichiarazioni costituisce una oggettiva  e  non
 prevedibile  impossibilita'  di  ripetizione  dell'atto dichiarativo:
 trattasi della  sentenza  n.    179  del  1994,  nella  quale  veniva
 analizzato  il problema, non dissimile dal punto di vista strutturale
 da   quello  oggetto  della  presente  questione,  delle  conseguenze
 giuridiche  connesse  all'esercizio,  in  sede  dibattimentale,   del
 diritto  di  astensione  dei prossimi congiunti, dopo che costoro, in
 sede di indagini preliminari abbiano deciso di rendere dichiarazioni.
 La  Corte  costituzionale,  al  riguardo,  ha  precisato  che  "(...)
 verificandosi  quest'ultima  ipotesi, pur se in seguito all'esercizio
 di  un  diritto,  si  determina  comunque  quella  oggettiva  e   non
 prevedibile impossibilita' di ripetizione dell'atto dichiarativo che,
 ai  sensi  dell'art.  512 c.p.p., consente di dare lettura degli atti
 assunti anteriormente al dibattimento".
   Orbene, se cosi  e',  se  cioe'  l'esercizio  del  diritto  di  non
 rispondere  costituisce  un  fatto  oggettivo  e  non prevedibile, e'
 evidente la irragionevole disparita'  di  trattamento  esistenze  tra
 l'imputato  raggiunto  da  fonti  di  prova  acquisite nelle indagini
 preliminari in assenza di contraddittorio,  irripetibili  nella  fase
 dibattimentale  e  pienamente utilizzatili per decidere - si pensi ai
 verbali degli atti irripetibili compiuti  dalla  polizia  giudiziaria
 (cfr.  art.  431, primo comma, lett. b) c.p.p) quali gli accertamenti
 ed i rilievi sullo stato dei luoghi, delle cose o delle persone (art.
 354,  secondo  e  terzo   comma,   c.p.p.),   verbali   di   arresto,
 perquisizione  e  sequestro, verbali degli atti irripetibili compiuti
 dal pubblico ministero (art.  431, lett., c), c.p.p) -  e  l'imputato
 raggiunto  da  fonti  di  prova quali le dichiarazioni di imputato di
 procedimento connesso,  irripetibili  per  l'esercizio  da  parte  di
 quest'ultimo  del diritto di non rispondere e non utilizzabili per la
 decisione.
   1.b.  -  Similmente,  analoga  ed   irragionevole   disparita'   di
 trattamento si determina tra l'imputato raggiunto da dichiarazioni di
 imputato   connesso,   assunte   in   assenza   di   contraddittorio,
 irripetibili a' sensi dell'art. 512 c.p.p.  ed  utilizzabili  per  la
 decisione,  e  l'imputato  raggiunto  dalle dichiarazioni di imputato
 connesso, irripetibili per l'esercizio del diritto di non  rispondere
 e  non  utilizzabili per la decisione (l'irragionevolezza si dimostra
 ancora piu' evidente ove si pensi che le  dichiarazioni  rese  da  un
 imputato  connesso  o collegato sono garantite dalla presenza del suo
 difensore e dalla presenza del p.m., o di una delega di  costui  alla
 p.g.,  cosa  che  non  accade  in  tutti i casi dinanzi richiamati di
 irripetibilita' degli atti).
   1.c. - E siffatte censure assumono maggiore pregnanza con specifico
 riferimento alla norma transitoria, che  sostanzialmente  estende  ai
 giudizi  in  corso  la  disciplina  prevista  dall'art.  513  c.p.p.,
 giacche', nei procedimenti ai quali si  applica  l'art.  6  legge  n.
 267/1997,  nel momento in cui sono stati assunti gli atti ed e' stata
 esercitata l'azione penale non solo era  imprevedibile  il  contenuto
 dell'esercizio  del  diritto  di  non  rispondere  ma era addirittura
 ragionevolmete prevedibile l'esistenza di un regime probatorio, quale
 quello  all'epoca  vigente,  di  piena  utilizzazione,   nei   limiti
 valutativi  dell'art.  192  c.p.p.,  delle  dichiarazioni di imputati
 connessi.
   2.a. - Ancora, avuto riguardo al parametro costituzionale dell'art.
 3, una ulteriore censura  si  pone  con  esclusivo  riferimento  alla
 disciplina  transitoria,  nella  parte  in cui, disposta la citazione
 delle persone che  si  siano  gia'  avvalse  della  facolta'  di  non
 rispondere  e  ribadito  da  parte  di  costoro  l'esercizio  di tale
 facolta',  prevede  che  le  dichiarazioni  rese  in sede di indagini
 preliminari  possono  essere  utilizzate  se  riscontrate  da   altri
 elementi di prova, presenti nel processo, che non siano dichiarazioni
 rese alla p.g., al p.m. o al g.i.p. da parte di soggetti che si siano
 avvalsi  della  facolta'  di non rispondere: orbene, anche sotto tale
 angolo di  visuale  si  introduce  una  irragionevole  disparita'  di
 trattamento  tra  l'imputato  raggiunto  da dichiarazioni di imputato
 connesso  il  cui  contenuto  sia  riscontrato  da  fonti  di   prova
 irripetibili,  anche  aventi  natura  dichiarativa  e  provenienti da
 imputati connessi, per le quali non scatta il divieto previsto  dalla
 norma transitoria, giacche' lettura ne e' data a' sensi dell'art. 512
 c.p.p.,  formatesi  in  assenza  di  contraddittorio nella fase delle
 indagini preliminari; e l'imputato che sia raggiunto da dichiarazioni
 di imputato connesso riscontrate da altre dichiarazioni  di  imputati
 connessi, irripetibili per l'esercizio del diritto di non rispondere.
   2.b.  -  Va quindi ulteriormente osservato che la norma transitoria
 di cui all'art. 6, secondo comma, legge n. 267/1997, dispone  che  il
 nuovo   esame   delle  persone  indacate  dall'art.  513  c.p.p.  sia
 subordinato alla richiesta di una delle parti processuali.
   Qualora la summenzionata richiesta abbia luogo ed i  coimputati  si
 siano  quindi ulteriormente avvalsi, nel corso del nuovo esame, della
 facolta'  di  non  rispondere,  l'art.  6,  quinto  comma,  legge  n.
 267/1997,   si  preoccupa  di  segnalare  la  valenza  probatoria  da
 riservare  alle  dichiarazioni  precedentemente  rese  dai  predetti,
 disponendo  che  "(...)  le  dichiarazioni rese in precedenza possono
 essere valutate come prova dei fatti in esse affermati,  solo  se  la
 loro  attendibilita'  sia  confermata da altri elementi di prova, non
 desunti da dichiarazioni rese al  pubblico  ministero,  alla  polizia
 giudiziaria  da questi delegata o al giudice nel corso delle indagini
 preliminari o dell'udienza preliminare, di cui sia stata data lettura
 ai sensi dell'art. 513 c.p.p. nel testo vigente prima dell'entrata in
 vigore della presente legge"  (cfr.  art.  6,  quinto  comma,  ultima
 parte, legge n. 267/1997).
   Va   quindi   rilevato  che  il  precetto  risultante  dalla  nuova
 formulazione dell'art. 513, secondo comma, c.p.p., siccome modificato
 dall'art.  1 legge n. 267/1997, risulta applicabile  ai  procedimenti
 penali  in  corso  nei confronti delle persone indicate dall'art. 210
 c.p.p. che siano state esaminate per la prima  volta  successivamente
 all'entrata  in  vigore della legge n. 267/1997, trattandosi di norma
 processuale:  cfr. artt. 2 c.p. ed 11 disp. sulla legge in generale.
   Ora, la disciplina dettata dall' art. 513, secondo  comma,  c.p.p.,
 se   da  un  lato  subordina  l'utilizzabilita'  delle  dichiarazioni
 precedentemente rese dalle persone indicate dall'art.  210  c.p.p.  -
 che  nel  corso  dell'esame  si  siano  avvalse della facolta' di non
 rispondere  -,  all'accordo  delle  parti,  dall'altro  lato   induce
 l'applicazione della norma generale di cui all'art. 192, terzo comma,
 c.p.p.   per   quanto   attiene  alla  valutazione  probatoria  delle
 dichiarazioni medesime.
   Stima il Collegio che i canoni  di  giudizio  di  cui  all'art.  6,
 quinto  comma,  ultima  parte,  legge n. 267/1997 siano indubbiamente
 piu' restrittivi  di  quelli  dettati  dall'art.  192,  terzo  comma,
 c.p.p.: nel mentre, infatti, questi consentono al giudice di valutare
 come prove le dichiarazioni rese dalle persone indicate dall'art. 210
 c.p.p.  la  cui  attendibilita'  si  deduca  da elementi probatori di
 riscontro  -  intrinseci  ed  estrinseci,  secondo  quanto piu' volte
 affermato dalla giurisprudenza della suprema Corte: cfr. Cass.  pen.,
 ss.uu.  22  febbraio  1993,  n. 1653 - anche desunti da dichiarazioni
 rese dal  medesimo  dichiarante  o  da  altro  soggetto  al  pubblico
 ministero,  alla  polizia giudiziaria da questi delegata o al giudice
 nel corso delle indagini preliminari o dell'udienza  preliminare,  di
 cui  sia  stata  data lettura ai sensi dell'art. 513 c.p.p. nel testo
 vigente prima dell'entrata in vigore della legge in commento; quelli,
 al contrario, escludono espressamente  la  facolta'  del  giudice  di
 attingere  elementi  di  riscontro,  intrenseci  ed  estrinseci, alle
 dichiarazioni  in  commento  desumendoli  da  quanto  affermato   dal
 medesimo  dichiarante o da altro soggetto al pubblico ministero, alla
 polizia giudiziaria da questi delegata o al giudice nel  corso  delle
 indagini  preliminari  o  dell'udienza  preliminare, di cui sia stata
 data lettura ai sensi dell'art. 513 c.p.p. nel  testo  vigente  prima
 dell'entrata in vigore della legge in commento.
   Ne  consegue  che,  nell'ipotesi  processuale  sin qui indagata, le
 dichiarazioni precedentemente rese dalle persone di cui all'art.  210
 c.p.p. nei cui confronti sia stata disposto un nuovo  esame  a  mente
 dell'art. 6, secondo comma, legge n. 267/1997, sono soggette a canoni
 valutativi  piu'  restrittivi rispetto a quelli di cui all'art.  192,
 terzo  comma,  c.p.p.,  riservati  al  giudizio  delle  dichiarazioni
 precedentemente rese dalle persone indacate dall'art. 210 c.p.p.  che
 siano  state  sottoposte  per la prima volta ad esame successivamente
 all'entrata in vigore della legge n.  267/1997  e  si  siano  avvalse
 della  facolta'  di  non rispondere, pur venendo i soggetti esaminati
 nell'ambito del medesimo giudizio penale in corso.
   Ritiene il Collegio che il sistema sin qui ricostruito si ponga  in
 irriducibile  contrasto  con  l'art.  3  della Costituzione, a motivo
 dell'irragionevole disparita' di  trattamento  tra  le  dichiarazioni
 rese,  nel  medesimo  giudizio  penale  in corso, da persona indicata
 dall'art. 210 c.p.p. per la quale sia stato disposto un nuovo esame a
 mente dell'art. 6, secondo comma, legge n. 267/1997,  nel  corso  del
 quale  si sia ulteriormente avvalsa della facolta' di non rispondere,
 rispetto a quelle rese nell'ambito del medesimo  giudizio  penale  da
 persona  indicata dall'art. 210 c.p.p. della quale sia stato disposto
 l'esame per la prima  volta  successivamente  all'entrata  in  vigore
 della  legge  in  commento, poiche' situazioni analoghe, verificatisi
 nel   medesimo    contesto    processuale,    ricevono    trattamenti
 irrazionalmente  diversi, con pregiudizio della posizione delle parti
 per quel che concerne non  gia  l'acquisizione  delle  prove,  quanto
 piuttosto  la  loro valutazione, cio' ponendo in insanabile antinomia
 l'art. 6, quinto comma, legge n.  267/1997  con  l'art.  1  legge  n.
 267/1997  e conseguentemente verificandosi contrasto con gli artt. 3,
 24, primo e secondo comma, 111 e 112 della Costituzione
   La  sollevata  questione  di  legittimita'  costituzionale  risulta
 ulteriormente   rilevante   ai  fini  della  decisione  del  presente
 giudizio, ne' appare manifestamente infondata, ove si osservi che  la
 diversa  valenza  probatoria  riservata  dall'art.  6,  quinto comma,
 ultima parte, legge n. 267/1997 e dall'art. 1 legge n. 267/1997  alle
 dichiarazioni  rese  da  persona  indacata  dall'art.  210 c.p.p., e'
 eventualmente idonea a provocare e condizionare i  poteri  collegiali
 di  integrazione probatoria di cui all'art. 506, primo comma, c.p.p.,
 nonche' quelli di istruzione suplettiva di cui all'art. 507 c.p.p.
   2.c. - Censure di natura analoga a quelle precedentemente esposte e
 da  aversi  qui  per  integralmente  trascritte, stima il Collegio di
 rassegnare in ordine alla norma di  cui  all'art.  6,  quinto  comma,
 legge  n.  267/1997 con riferimento alla disposizione di cui all'art.
 513, primo comma, c.p.p.: va  infatti  rilevato  che  il  riferimento
 legislativo  alle "(...) persone indicate dall'art. 513 del codice di
 procedura  penale"  operato  dall'art.  6,  quinto  comma,  legge  n.
 267/1997,  nella  parte  in  cui  si  richiama  ai  precedenti commi,
 inerisce sia alle persone indicate dall'art. 210  c.p.p.  -  e  della
 valutazione  delle  cui  dichiarazioni si e' sopra indagato -, sia ai
 coimputati nei cui confronti l'ipotesi processuale della  separazione
 del procedimento non sia stata adottata, verificandosi per costoro la
 contigenza  del  cd.  simultaneus  processus, dovendosi riprodurre in
 relazione alla  diversa  valutazione  delle  dichiarazioni  rese  dai
 coimputati  non  separati  che si siano avvalsi della facolta' di non
 rispondere anteriormente o posteriormente all'entrata in vigore della
 legge in parola, - ad esse riservata, rispettivamente, dagli artt. 6,
 quinto comma, legge n. 267/1997 e  192,  terzo  comma,  c.p.p.  -  le
 doglianze sopra evidenziate.
   3.  -  Infine, ulteriore ed irragionevole disparita' di trattamento
 ha tra l'ipotesi in cui un soggetto sia raggiunto da dichiarazioni di
 imputato  connesso  che  ritratti  o   che   decida   di   rispondere
 selettivamente  alle  domande e l'imputato raggiunto da dichiarazioni
 rese da imputati connessi che si  avvalgono  della  facolta'  di  non
 rispondere:  nel  primo  caso, infatti, a seguito delle contestazioni
 saranno pienamente utilizzabili ai fini del decidere le dichiarazioni
 rese in assenza di contraddittorio in sede di indagini preliminari.
   III. B. - Le violazioni dell'art. 101 della Costituzione.
   L'esposizione delle violazioni dell'art. 101, secondo comma,  della
 Costituzione  generate  dalla  introduzione  della nuova formulazione
 dell'art. 513 c.p.p. e della norma  transitoria  di  cui  all'art.  6
 legge   n.   267/1997,   deve  necessariamente  essere  preceduta  da
 un'analisi della giurisprudenza della Consulta in ordine al  rapporto
 esistente  tra  l'integrale  disponibilita'  della prova in capo alle
 parti ed il principio della  soggezione  del  giudice  soltanto  alla
 legge.
   Al riguardo, la Corte costituzionale ha osservato come un principio
 dispositivo  non  puo'  dirsi  neppure  "(...)  esistente  sul  piano
 probatorio,  perche'  cio'   significherebbe   rendere   disponibile,
 indirettamente,  la  res  iudicanda"  (cfr.  Corte cost., sentenza n.
 111/1993).
   In particolare, la Consulta ha affermato che il potere di decisione
 del giudice del merito  della  causa  non  puo'  essere  condizionato
 dall'esercizio  meramente  discrezionale  di  un potere delle parti e
 dalle scelte di carattere processuale, in ipotesi  anche  immotivate,
 di costoro (cfr.  Corte cost., sentenza n. 92/1992).
   Orbene,  se  l'indisponibilita' dell'oggetto del processo penale si
 traduce in una indisponibilita' della  prova  per  le  parti;  se  il
 potere  del  giudice  di  decidere  non  puo' essere condizionato nel
 merito da scelte processuali delle parti, a fortiori  il  potere  del
 giudice  di  decidere  non  puo' essere condizionato, nel merito, dal
 verificarsi  di  una  condizione  meramente  potestativa,  costituita
 dall'esercizio  del  diritto di non rispondere, rimessa alla volonta'
 di un soggetto che nel processo non assume neppure la veste di parte:
 ed e' appena il caso di osservare come il far dipendere l'esito di un
 processo dall'esercizio di un diritto siffatto esponga il titolare di
 questo  diritto  a pressioni, ricatti, blandizie di varia natura, che
 in ultima analisi finirebbero per  essere  la  ragione  vera  di  una
 sentenza di assoluzione o di condanna.
   Sempre    sulla    base    di   tali   principi,   deve   ritenersi
 l'incostituzionalita'  delle  disposizioni,  contenute  nelle   norme
 richiamate,   che  subordinano  al  consenso  di  entrambe  le  parti
 l'utilizzazione  delle  dichiarazioni  rese  da  una  delle   persone
 indicate dall'art. 210 c.p.p..
   Al  riguardo,  e'  appena  il  caso  di osservare la difficolta' di
 tradurre, nel processo  penale,  astratti  schemi  di  parita'  delle
 parti:  sul punto, la Corte costituzionale ha avuto modo di precisare
 che  "(...)     mette  conto   anzitutto   notare   che   la   stessa
 caratterizzazione  del  processo penale come processo di parti, nella
 misura in cui evoca lo schema di una contesa tra  parti  contrapposte
 operanti sul medesimo piano, non puo' non considerare che il pubblico
 ministero   e'  un  magitrato  indipendente  appartenente  all'ordine
 giudiziario, che non fa valere interessi particolari  ma  che  agisce
 esclusivamente a tutela dell'interesse generale dell'osservanza della
 legge" (cfr. Corte cost., sentenza n. 111/1993).
   III.C. - Le violazioni dell'art. 112 della Costituzione.
   La  disciplina  introdotta dalla legge n. 267/1997, con riferimento
 sia alla nuova formulazione dell'art. 513 c.p.p. sia  alla  normativa
 transitoria, e' certamente idonea a violare, e sotto piu' profili, il
 principio di obbligatorieta' dell'azione penale.
   Per  comprendere il grado di tali violazioni, anche in questo caso,
 e'  opportuno  richiamare  la  costante  giurisprudenza  della  Corte
 costituzionale sul punto.
   La  premessa  fondamentale da cui muove il corpus giurisprudenziale
 della Consulta in materia di obbligatorieta'  dell'azione  penale  e'
 che  esso  esprime,  in  connessione  con  il principio di legalita',
 l'indisponibilita'  della  tutela  giurisdizionale   assicurata   dal
 processo  penale (cfr.  Corte cost., sentenza n. 111/1993: "(...) e',
 per la verita',  incontroverso  che  sarebbe  contrario  ai  principi
 costituzionali   di   legalita'   e  di  obbligatorieta'  dell'azione
 concepire come disponibile la tutela giurisdizionale  assicurata  dal
 processo  penale. Cio', invero, significherebbe, da un lato, recidere
 il legame strutturale e funzionale tra  lo  strumento  processuale  e
 l'interesse sostanziale pubblico alla repressione dei fatti criminosi
 che   quei   principi  intendono  garantire;  dall'altro  contraddire
 all'esigenza, ad essi correlata, che la  responsabilita'  penale  sia
 riconosciuta  per  i  fatti  realmente commessi"; in tale sentenza la
 Corte  richiama  altri  suoi  provvedimenti  allineati  sugli  stessi
 principi, quali la sentenza n. 92/1992 e la sentenza n. 56/1993).
   Da  tale  assunto,  la  Consulta  fa discendere l'inesistenza di un
 principio integralmente dispositivo  sul  piano  probatorio,  perche'
 cio'  significherebbe  rendere disponibile, indirettamente, la stessa
 res iudicanda (cfr.  Corte  cost.,  n.  111/1993:  "(...)  il  metodo
 dialogico  di formazione della prova e' stato, invero, prescelto come
 metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente idoneo  al  loro
 per quanto possibile pieno accertamento, e non come strumento per far
 programmaticamente  prevalere una verita' formale risultante dal mero
 confronto dialettico tra le parti sulla verita' reale: altrimenti, ne
 sarebbe  risultata  tradita la funzione conoscitiva del processo, che
 discende dal principio di legalita' e da quel suo particolare aspetto
 costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale").
   Orbene, se il principio di obbligatorieta' dell'azione penale,  nel
 suo  ineliminabile  nesso  con il principio di legalita', preclude la
 possibilita' di una prova nella assoluta disponibilita' delle  parti,
 a fortiori e' costituzionalmente illegittima una norma che rimetta ad
 una condizione meramente potestativa, costituita dalla volonta' di un
 soggetto  che non e' neppure parte nel processo, l'utilizzabilita' di
 una prova ai fini del decidere.
   E tale censura di incostituzionalita' diviene ancora piu' pregnante
 se  la  si  considera  in  riferimento  alla  norma  transitoria,  in
 conseguenza  della quale ad azione penale gia' esercitata, la mera ed
 intollerabile volonta' di un soggetto esterno al  processo  determina
 le  sorti  della  medesima,  con  ulteriore  vulnus  del principio di
 obbligatorieta' dell'azione penale nella sua connessione con il favor
 actionis di cui all'art.    24  della  Costituzione  (sui  nessi  tra
 obbligatorieta'  dell'azione  penale  e  favor  actionis:  cfr. Corte
 cost., sentenza n. 478/1993, dove esplicitamente si afferma "(...) il
 principio di obbligatorieta' dell'azione penale  esige,  quindi,  che
 nulla  venga  sottratto  al  controllo  di  legalita'  effettuato dal
 giudice: in esso e' insito, percio', quello  che  in  dottrina  viene
 definito  favor  actionis,  nello  stesso  senso,  cfr.  Corte cost.,
 sentenza n. 88/1991; negli stessi lavori parlamentari, peraltro,  era
 stata  rappresentata  la possibilita' di una lesione, derivante dalla
 disciplina transitoria, al diritto di azione di cui all'art. 24 della
 Costituzione,  poiche'  al  pubblico  ministero   sarebbe   sottratta
 l'aspettativa  di una prova sulla quale aveva fatto affidamento nella
 previgente disciplina: cfr. lavori parlamentari, II commissione,  121
 seduta del 17 aprile 1997, resoconto pag. 29, Il capoverso).
   Ulteriore profilo di violazione dell'art. 112 della Costituzione si
 trae  dalla  considerazione  di  esso in relazione ai principi di cui
 agli artt. 2 e 3 della Costituzione.  Al  riguardo,  la  Consulta  ha
 rilevato  che  "ad  un  ordinamento  costituzionale  che  sancisce il
 pincipio di obbligatorieta' dell'azione penale, ma e' prima di  tutto
 improntato  alla  tutela  dei  diritti  inviolabili  dell'uomo  ed al
 principio di uguaglianza di f'onte alla legge, non sono consone norme
 di metodologia processuale che ostacolino in  modo  irragionevole  il
 processo  di  accertamento del fatto storico necessario per pervenire
 ad una giusta decisione".
   E certamente le previsioni di cui alle  norme  oggetto  di  censura
 costituzionale  si  pongono  come limite irragionevole al processo di
 accertamento della  realta',  poiche'  conferiscono  ad  un  soggetto
 terzo,  che  ha  gia'  esercitato  i  suoi  diritti  di imputato o di
 indagato rendendo dichiarazioni con valenza  accusatoria,  un  potere
 incontrollabile di determinare le sorti di un processo.
                                P .Q. M.
   Visti gli artt. 23 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87;
   Ritenuta  la  rilevanza  e  la  non  manifesta  infondatezza  delle
 questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 513  c.p.p.,  come
 modificato  dall'art.  1  della  legge 7 agosto 1997, n. 267, nonche'
 dell'art.   6, secondo  e  quinto  comma,  della  medesima  legge  n.
 267/1997,   in  relazione  agli  artt.  2,  3,  24,  101,  112  della
 Costituzione, nelle parti e per i profili di cui in motivazione;
   Sospende il presente procedimento;
   Manda   alla   cancelleria  per  la  notificazione  della  presente
 ordinanza alla  Presidenza  del  Consiglio  dei  Ministri  e  per  le
 comunicazioni  al Presidente della Camera dei deputati ed  Presidente
 del Senato della Repubblica;
   Dispone  la  trasmissione  degli  atti  del  procedimento  e  della
 presente ordinanza alla Corte costituzionale;
   Alla cancelleria per gli incombenti.
     Pordenone, addi' 22 ottobre 1997
                         Il presidente: Pergola
 98C0072