N. 92 ORDINANZA (Atto di promovimento) 24 ottobre 1997

                                 N. 92
  Ordinanza emessa il 24 ottobre 1997  dal  tribunale  di  Milano  nei
 procedimenti penali a carico di Sposato Pasquale ed altri
 Processo  penale  -  Dibattimento  -  Esame  di  persona  imputata in
    procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere
    - Lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese  nel  corso
    delle  indagini  preliminari  -  Preclusione  per il giudice salvo
    l'accordo  delle  parti  -  Irragionevolezza  posta  la   prevista
    utilizzabilita'  di  tali  precedenti  dichiarazioni nella diversa
    ipotesi  in  cui  non  sia  possibile  ottenere  la  presenza  del
    dichiarante  oppure  procedere all'esame in altro modo - Violazone
    dei principi di indipendenza  del  giudice  e  di  obbligatorieta'
    dell'azione penale.
 (C.P.P.  1988,  art.  513,  comma  2, modificato dalla legge 7 agosto
    1997, n. 267, art. 1).
 (Cost., artt. 3, 25, 101, secondo comma, e 112).
(GU n.9 del 4-3-1998 )
                             IL TRIBUNALE
   Ha  pronunciato  la   seguente   ordinanza   sulla   questione   di
 legittimita'  costituzionale dell'art. 513 c.p.p., nella formulazione
 risultante dalle modifiche operate con l'art. 1, legge 7 agosto 1997,
 n. 267, per violazione degli artt. 2,  3,  24,  25,  101,  112  della
 Costituzione,  nonche' dell'art. 6 della legge citata, per violazione
 degli artt.  2, 3, 24, 101, 112  della  Costituzione,  sollevata  dal
 pubblico  ministero all'udienza del 17 ottobre 1997, nel procedimento
 penale nei confronti di Sposato  Pasquale,  Narcisi  Elena,  Strangio
 Antonio,  Strangio  Sebastiano,  Cera  Domenico,  Barbaro Saverio cl.
 1966, Morfea Giuseppe, Zavettieri Carmelo, Petrulli Antonio,  Fontana
 Lucio,  Barbaro Saverio cl. 1952, Barbaro Francesco, Sergi Salvatore,
 Sergi Michele, Ferraro Rocco, Tocco  Giovanni,  Stefanelli  Vincenzo,
 Vitale Renato, Fonti Francesco, Gioco Paolo, Attardi Antonino, Celini
 Luciano,  meglio  generalizzati in atti; Strangio Sebastiano, Barbaro
 Saverio  cl.  1952,  Morfea  Giuseppe,   Barbaro   Francesco,   Sergi
 Salvatore,  Sergi  Michele  attualmente  detenuti  per  questa causa.
 Imputati dei reati di cui ai decreti che dispongono il giudizio:
                             O s s e r v a
   Premessa.
   Il presente procedimento, principalmente relativo ad una pluralita'
 di fatti di detenzione di sostanze stupefacenti (anche  in  quantita'
 ingenti)  per il consumo di terzi, trae la sua origine dallo sviluppo
 delle dichiarazioni  accusatorie  rese  da  Annunziatino  Romeo,  dal
 fratello  Bruno  e  da  Saverio  Morabito.  Si  tratta di tre persone
 ammesse  a  fruire  dello speciale programma di protezione in seguito
 alla  loro  scelta  di  collaborazione  con  la  giustizia,  maturata
 nell'ambito   di  piu'  estese  indagini  gia'  approdate  al  vaglio
 dibattimentale  con  il  processo  cosiddetto  Nord-Sud,  celebratosi
 avanti la Corte d'assise di Milano.
   Come   il   tribunale   ha   potuto  apprendere  dalla  esposizione
 introduttiva del pubblico ministero, il procedimento  contro  Sposato
 Pasquale  piu'  altri riguarda una limitata parte delle dichiarazioni
 dei citati collaboratori,  laddove  si  sono  intese  concentrare  le
 posizioni  di  coloro i quali, secondo il racconto delle citate fonti
 di prova,  intrattenevano  rapporti  commerciali  aventi  ad  oggetto
 rilevanti  quantita'  di  sostanze  stupefacenti  con  l'associazione
 criminale - notissima in ambito  milanese  -  del  cosiddetto  gruppo
 Sergi.  Rapporti  che,  sempre  secondo  l'impostazione  accusatoria,
 sarebbero stati gestiti, dietro mandato  dei  dirigenti  la  societas
 sceleris   (fra   i  quali,  appunto,  Morabito  Saverio)  e  con  un
 apprezzabile grado di autonomia, dal Romeo Annunziatino, con  l'aiuto
 del fratello Bruno.
   Cosi'  raccolte  le  dichiarazioni accusatorie e dopo una attivita'
 investigativa diretta  alla  identificazione  completa  dei  soggetti
 colpiti  da tali dichiarazioni, nonche' alla acquisizione di elementi
 di riscontro rilevanti ai sensi dell'art. 192, comma 2 c.p.p., il  26
 marzo  1996  veniva  emessa  dal  giudice per le indagini preliminari
 presso  il  tribunale  di  Milano  ordinanza  di  applicazione  della
 custodia  cautelare in carcere, ancora in esecuzione nei confronti di
 alcuni degli imputati, in epigrafe indicati.
   Disposto il giudizio avanti il tribunale con decreto emesso  il  16
 dicembre  1996,  il  dibattimento  si  sviluppava  in alcune udienze,
 celebratesi a partire dal 27 maggio 1997; in particolare, all'udienza
 del 7 luglio  1997  (e  dunque  in  epoca  precedente  all'intervento
 legislativo  del  quale  qui si discute) veniva disposto, ex art. 210
 c.p.p., l'esame di Romeo Annunziatino, che in quella sede  dichiarava
 di  avvalersi della facolta' di non rispondere; veniva di conseguenza
 disposta, a richiesta del pubblico  ministero,  l'acquisizione  delle
 dichiarazioni dallo stesso in precedenza rese, in virtu' del disposto
 dell'art.  513, comma 2 c.p.p.
   Modificata  la  composizione  del  collegio giudicante per esigenze
 relative all'organico  della  IV  sezione  di  questo  tribunale,  il
 procedimento   proseguiva   all'udienza  del  14  ottobre  1997,  con
 l'esposizione introduttiva del  pubblico  ministero  e  le  richieste
 istruttorie  delle  parti;  pronunciata ordinanza di ammissione delle
 prove,  il  17  ottobre  1997  si  procedeva   all'esame   di   Romeo
 Annunziatino,  che  dichiarava  di  avvalersi  della  facolta' di non
 rispondere per non meglio specificati "motivi  personali";  anche  il
 fratello  Bruno,  esaminato  alla  stessa  udienza,  serbava  analoga
 condotta processuale, motivando la propria scelta con l'esistenza  di
 un  contenzioso  con il Servizio centrale di protezione che si occupa
 del suo trattamento.
   All'udienza del 24 ottobre1997 anche Morabito Saverio  si  avvaleva
 della  facolta'  di  non  rispondere,  per  motivi  che diceva essere
 rilevanti in altra sede, e comunque precisava non attineti a  un  suo
 diritto di difesa.
   Poiche'    nessuna    delle   parti   private   prestava   consenso
 all'acquisizione dei verbali delle dichiarazioni rese nel corso delle
 indagini preliminari dai  tre  citati  "collaboratori",  il  pubblico
 ministero   chiedeva   a   questo   tribunale   di   dichiarare   non
 manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
 della  nuova  formulazione dell'art.   513 c.p.p. e dell'art. 6 della
 legge n. 267/1997, con i provvedimenti di conseguenza.
   Sulla rilevanza.
   Tenuto conto della indicazione delle fonti di prova  contenuta  nel
 decreto  che dispone il giudizio, dei dati rappresentati dal pubblico
 ministero  nel  corso  della  relazione  introduttiva  nonche'  delle
 richieste  di  prova  dallo  stesso  formulate ai sensi dell'art. 493
 c.p.p. (e sostanzialmente accolte dal tribunale  con  l'ordinanza  ex
 art. 495 c.p.p.) appare evidente la rilevanza della dedotta questione
 di  legittimita' costituzionale nei limiti in cui viene riferita alla
 nuova formulazione del comma 2 dell'art. 513 c.p.p.,  trattandosi  di
 processo nel quale l'impianto accusatorio poggia in larga parte sulle
 dichiarazioni  di  soggetti che si trovano nelle condizioni descritte
 dall'art.  210  c.p.p.  Tali  dichiarazioni,  in  applicazione  della
 impugnata  norma,  non  possono  trovare  ingresso  nel dibattimento,
 stante l'esercizio, da parte dei dichiaranti, della facolta'  di  non
 rispondere,  e  l'assenza  dell'accordo  delle  parti  in ordine alla
 acquisizione dei verbali delle dichiarazioni rese  dai  medesimi  nel
 corso delle indagini preliminari.
   Non   e'   invece   rilevante   l'eccezione   riferita  alla  nuova
 formulazione del comma 1  dell'art.  513  che  disciplina  un'ipotesi
 estranea al dibattimento in corso.
   Anche  la denunciata illegittimita' costituzionale della disciplina
 transitoria introdotta con l'art. 6 della legge n. 267/1997 e'  priva
 di   rilevanza,  posto  che  secondo  la  prospettazione  accusatoria
 ricavabile oltre che dalla relazione introduttiva anche dal complesso
 dei mezzi di  prova  che  il  pubblico  ministero  ha  offerto  e  il
 tribunale  ha  ammesso,  le dichiarazioni in precedenza rese da Romeo
 Annunziatino dovrebbero trovare riscontro in elementi  di  prova  non
 desunti  da  dichiarazioni  di  cui  si  sia  data  lettura  a' sensi
 dell'art. 513 c.p.p. nel testo non novellato, il  che  le  renderebbe
 utilizzabili.
   Sulla non manifesta infondatezza.
   E' avviso del collegio che la norma impugnata abbia sostanzialmente
 ripristinato  quel  vizio di manifesta irragionevolezza cui la stessa
 Corte costituzionale aveva posto rimedio con la sentenza n.  254  del
 1992,  attraverso  la  quale  era  stata dichiarata la illegittimita'
 costituzionale dell'art. 513, comma 2 c.p.p.  nella  formulazione  in
 allora  vigente  "nella  parte  in  cui  non  prevede che il giudice,
 sentite le parti, dispone la lettura dei verbali delle  dichiarazioni
 ...  rese dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p., qualora queste
 si avvalgano della facolta' di non rispondere".
   In  quella  occasione,  la  Corte  osservo'  che il principio guida
 dell'oralita' deve essere contemperato con l'esigenza di  evitare  la
 perdita  ai  fini  della  decisione  di  quanto  acquisito  prima del
 dibattimento e che in tale sede sia irripetibile, rimarcando  che  in
 tale   categoria   gia'   la   legge   delega   ricomprendeva   anche
 l'indisponibilita' dell'imputato all'esame.
   E  proseguendo  nella  strada  di  indicare principi costituzionali
 certi in materia di acquisizione e di utilizzabilita' della prova, la
 Corte,  con  una  successiva   sentenza   (n.   255/1992)   attribui'
 esplicitamente  rilievo costituzionale al "principio di conservazione
 della  prova",   osservando   che   "...   il   sistema   accusatorio
 positivamente    instaurato    ha   prescelto   la   dialettica   del
 contraddittorio    dibattimentale    quale    criterio    rispondente
 all'esigenza  di ricerca della verita'; ma accanto al principio della
 oralita' e' presente, nel nuovo  sistema  processuale,  il  principio
 della  non  dispersione  degli elementi di prova non compiutamente (o
 non genuinamente) acquisibili con il metodo orale...".
   Ancora piu' di recente,  e  avendo  sempre  presente  il  principio
 secondo  il  quale  fine  centrale  del  processo e' la ricerca della
 verita', la Corte con la sentenza n. 179 del 1994, relativamente alla
 ipotesi, invero in tutto e per tutto analoga a quella che ci  occupa,
 dell'esercizio  della  facolta'  di  astenersi dal deporre, riservata
 dall'art.  199  c.p.p.  ai  prossimi  congiunti   dell'imputato,   ha
 confermato il proprio orientamento.
   Muovendo  da  una  fattispecie  concreta in relazione alla quale il
 giudice a quo  aveva  sollevato  la  questione  di  costituzionalita'
 reputando non applicabile la disciplina prevista dall'art. 512 c.p.p.
 nel  caso di prossimo congiunto che, dopo avere reso dichiarazioni in
 sede di indagini preliminari, si avvalga della citata  facolta'  solo
 in sede dibattimentale, la Corte dichiarava la questione non fondata,
 ricorrendo  ad  una  pronuncia  c.d.  "interpretativa di rigetto" che
 concludeva  nel  senso  che  "la  testimonianza  cosi'  acquisita  e'
 legittimamente,   e   soprattutto,   stabilmente  acquisita"  ed  "e'
 certamente fuor di dubbio che l'acquisizione della prova testimoniale
 legittimamente assunta non puo' essere condizionata dall'eventualita'
 di una successiva invalidazione da parte del teste, nel  caso  di  un
 suo  tardivo  esercizio  della  facolta'  di  astensione:  non esiste
 nell'ordinamento alcuna disposizione che autorizzi un'interpretazione
 del genere". Nell'impostazione del giudice delle  leggi,  dunque,  in
 casi  consimili,  e sebbene in presenza dell'esercizio di un diritto,
 si determina una "oggettiva  e  non  prevedibile"  impossibilita'  di
 ripetizione  dell'atto  dichiarativo.    La conclusione cui la citata
 sentenza perviene (ossia  la  lettura,  ex  art.  512  c.p.p.,  delle
 dichiarazioni  in  precedenza  rese)  si pone in linea con quello che
 deve essere senz'altro definito un caposaldo della elaborazione della
 giurisprudenza costituzionale dopo l'entrata in vigore del codice  di
 procedura  penale del 1988, secondo il quale occorre "contemperare il
 rispetto del principio dell'oralita' con  l'esigenza  di  evitare  la
 perdita,  ai  fini  della  decisione,  di  quanto acquisito prima del
 dibattimento e che sia irripetibile in tale sede".
   Del resto, diversamente  opinando,  l'oralita'  si  atteggerebbe  a
 principio  fine  a  se stesso, al quale verrebbe sacrificato lo scopo
 essenziale del processo penale, che - come  il  Collegio  non  reputa
 possa  revocarsi  in  dubbio - consiste nella ricerca della verita' e
 nella pronuncia di una giusta decisione. Per un elementare  principio
 di   civilta'  giuridica,  affermato  dalla  Corte  costituzionale  e
 divenuto  patrimonio  comune,  l'impossibilita'  di   consentire   la
 dispersione  della  prova  ha  imposto  al legislatore di prevedere e
 rendere  possibile  la  lettura  di  atti  formati   nelle   indagini
 preliminari,  allorche'  per quasivoglia ragione (che puo' consistere
 anche nel puro arbitrio del soggetto) l'atto non  sia  ripetibile  in
 dibattimento.
   E cosi', di fronte al testimone che opponga un irremovibile rifiuto
 di  testimoniare,  nell'alternativa  tra il disperdere la prova e non
 fare giustizia (id est: ricercare  la  verita'  e  pervenire  ad  una
 sentenza giusta) e valorizzare invece gli atti formati anteriormente,
 il  legislatore  ha  operato  questa  seconda  scelta, consentendo la
 lettura e quindi l'utilizzazione delle dichiarazioni rese.
   Orbene, anche nel caso delle persone indicate nell'art. 210  c.p.p.
 si  e'  in  presenza  di  soggetti  che  nella  fase  delle  indagini
 preliminari non si sono avvalse della facolta' di  non  rispondere  e
 che  hanno  esercitato  tale  diritto in dibattimento rendendo l'atto
 "oggettivamente e imprevedibilmente" irripetibile.
   Nemmeno risponde a logica che le  dichiarazioni  rese  in  fase  di
 indagini preliminari possano essere utilizzate tout-court qualora non
 sia  possibile  ottenere  la presenza della persona in dibattimento o
 non sia  possibile  escuterlo  a  domicilio  o  con  altra  specifica
 modalita' (art. 513, comma 2, prima parte) e invece occorra l'accordo
 delle  parti  qualora  la persona si presenti in udienza e rifiuti di
 rispondere (art. 513, comma 2, seconda parte).
   In  entrambi  i  casi  l'atto  e'  irripetibile  oggettivamente   e
 imprevedibilmente  e  tanto  basta  perche'  in  armonia  ai principi
 costituzionali fissati in materia dalla Corte (sentenze nn. 254/1992;
 255/1992; 179/1994), il giudice se ne possa avvalere  liberamente  al
 fine  di adempiere il precetto costituzionale racchiuso all'art. 101,
 secondo comma, della Costituzione pervenendo a una  sentenza  giusta.
 Anche   da  questo  punto  di  vista,  la  norma  pecca  di  assoluta
 irragionevolezza.
   La norma impugnata appare altresi' in  evidente  contrasto  con  il
 disposto dell'art. 101, secondo comma e 112 della Costituzione: nella
 giurisprudenza  costituzionale  ormai  consolidata,  infatti,  i  due
 canoni finiscono per confondersi l'uno nell'altro, laddove portano ad
 affermare l'inesistenza di un pieno potere dispositivo delle parti in
 ordine alla prova.
   Invero, la Consulta ha piu' volte avuto modo di precisare  come  il
 potere  di  decisione  del  giudice  del merito della causa non possa
 essere vincolato dall'esercizio meramente discrezionale di un  potere
 delle parti e dalle scelte di carattere processuale, in ipotesi anche
 immotivate, di costoro. E' evidente, infatti, come il precetto di cui
 all'art.   101,   secondo  comma,  della  Costituzione  precluda  una
 esasperata ed estremistica applicazione del principio dispositivo del
 processo penale, in ragione della  indisponibilita'  degli  interessi
 pubblici  e  delle  posizioni  soggettive che di questo costituiscono
 l'oggetto; la  disponibilita'  della  prova  renderebbe  disponibile,
 indirettamente,  la  stessa res iudicanda. Come chiaramente affermato
 nella   nota   sentenza   (sempre   appartenente   al   genus   delle
 interpretative di rigetto: Corte costituzionale n. 111/1993) relativa
 alla  definizione  del  potere  istruttorio  suppletivo  riservato al
 giudice dibattimentale dall'art. 507 c.p.p., nel nuovo codice di rito
 "il metodo dialogico di formazione  della  prova  e'  stato,  invero,
 prescelto  come  metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente
 idoneo al loro per quanto piu' possibile pieno  accertamento,  e  non
 come  strumento  per  far  programmaticamente  prevalere  una verita'
 formale risultante dal mero confronto dialettico tra le  parti  sulla
 verita'  reale:  altrimenti, ne sarebbe risultata tradita la funzione
 conoscitiva  del  processo, che discende dal principio di legalita' e
 da  quel  suo  particolare  aspetto  costituito  dal   principio   di
 obbligatorieta' dell'azione penale.
   Se  e'  vero  che un potere dispositivo della prova nel processo e'
 negato alle parti, a maggior ragione cio' deve valere per  chi,  come
 le persone di cui all'art. 210 c.p.p., e' per definizione estraneo al
 processo nell'ambito del quale sia chiamato a rendere dichiarazioni.
   La  norma  impugnata, al contrario, consente di sottrarre una prova
 al  vaglio  dibattimentale,  a   seguito   di   un   atto   meramente
 discrezionale  -  e  dunque potenzialmente immotivato e capriccioso -
 compiuto da un soggetto che neppure riveste la qualita' di parte  del
 procedimento,  come  avviene  nel caso in cui la persona esaminata ex
 art. 210 c.p.p.  si avvalga della facolta' di non rispondere. A  cio'
 il  legislatore del 1997 ha ritenuto di dover aggiungere un ulteriore
 sbarramento all'ingresso della fonte di prova, riservando  (nel  caso
 in  cui  il dichiarante, in sede dibattimentale, si sia avvalso della
 facolta'  di  non  rispondere)  la  possibilita'  di   acquisire   le
 precedenti  dichiarazioni  all'accordo (rectius, al gradimento) delle
 parti.
   Nel caso di specie, risulta che, all'udienza del 17  ottobre  1997,
 Romeo  Bruno  -  collaboratore  di  giustizia ammesso al programma di
 protezione - si e' rifiutato di rispondere per asseriti contrasti con
 il Servizio centrale di protezione;  veri  o  pretestuosi  che  siano
 questi contrasti, Romeo ha dunque usato la sua condizione processuale
 di   "fonte   di   prova"   per  indurre  o  costringere  l'autorita'
 amministrativa ad esaudire le  sue  pretese.  Identico  e'  stato  il
 comportamento  di  Romeo Annunziatino e di Morabito Saverio, i quali,
 invitati ad esporre le ragioni della  loro  scelta  di  silenzio,  le
 hanno  confinate  in  "motivi  personali"  che  si puo' presumere non
 essere dissimili da quelle di Romeo  Bruno  e  che,  comunque,  nulla
 hanno a che vedere con l'ipotetico esercizio di un diritto di difesa.
   Nondimeno,   tali  scelte,  alla  stregua  della  norma  della  cui
 legittimita'  in  questa  sede  il  collegio   dubita,   condizionano
 l'esercizio  della  giurisdizione,  incidendo  in misura determinante
 sulla liberta' del giudice, nel  significato  che  tale  concetto  ha
 assunto nella giurisprudenza costituzionale.
   Il  tribunale  remittente  si  e', quindi, trovato di fronte ad una
 situazione in cui l'assunzione della prova e' stata  inibita  proprio
 dalla  scelta  arbitraria (perche' tale e', sul piano processuale, la
 condotta dei due Romeo e di Morabito) dei dichiaranti.
   Conseguenze  che  non  vengono  scongiurate  dalla  previsione  del
 meccanismo,  dell'incidente  probatorio  -  benche',  in  virtu'  del
 disposto dell'art.  4, legge n. 267/1997, lo  stesso  sia  esperibile
 indipendentemente  dalla  sussistenza  dei  requisiti previsti in via
 generale, dall'art.  392 c.p.p. - poiche' in tale sede resta comunque
 ferma la facolta' di non rendere dichiarazioni: e' evidente, percio',
 come  l'adozione  di  tale  meccanismo,  lungi   dal   poter   essere
 considerata  alla  stregua  di "valvola di sicurezza" del sistema, si
 riduca alla mera anticipazione dei  tempi  di  assunzione  di  quella
 prova,   senza   tuttavia   garantirne  l'effettiva  acquisizione  al
 processo.
   E per rimanere al caso di specie, e'  ovvio  -  e  comunque  niente
 autorizza  a  ipotizzare il contrario - che i Romeo e il Morabito non
 avrebbero tenuto un diverso atteggiamento se si fossero  trovati  non
 in  dibattimento  dinanzi  al  tribunale  ma  in  sede  di  incidente
 probatorio dinanzi al giudice per le indagini preliminari.
   L'avere riservato alla insindacabile scelta del soggetto di rendere
 o  meno  dichiarazioni  e  alla  volonta'  delle parti processuali di
 consentire alla lettura  di  dichiarazioni  in  precedenza  rese,  ha
 finito   per   rimettere  nella  totale  disponibilita'  delle  parti
 l'ingresso  di  una  prova  nel  dibattimento  e,  in  definitiva,  a
 condizionare  l'esercizio  stesso  dell'azione  penale. Che e' quanto
 accaduto nell'udienze del  17  e  24  ottobre  1997  quando  tutti  i
 difensori,  preso  atto  del  rifiuto  dei  dichiaranti di sottoporsi
 all'esame, non hanno consentito alla lettura dei  verbali  contenenti
 le dichiarazioni gia' rese.
   Si  puo'  dunque  concludere,  con  le  parole  della  stessa Corte
 costituzionale, che "ad un ordinamento costituzionale che sancisce il
 principio di obbligatorieta' dell'azione penale, ma e' prima di tutto
 improntato alla  tutela  dei  diritti  inviolabili  dell'uomo  ed  al
 principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, non sono
 consone  norme  di  metodologia  processuale  che  ostacolino in modo
 irragionevole  il  processo  di  accertamento   del   fatto   storico
 necessario  per  pervenire  ad  una  giusta  decisione"  (cfr.  Corte
 costituzionale  n.  241/1994;  nello   stesso   senso,   gia'   Corte
 costituzionale n. 111/1993).
                                P. Q. M.
   Visti  gli  artt. 134 della Costituzione; 23 e segg. della legge 11
 marzo 1953, n. 87 ritenuta rilevante e non manifestamente  infondata,
 in  relazione  agli  artt.  3,  25,  101,  secondo  comma e 112 della
 Costituzione, la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.
 513,  comma  2,  c.p.p.,  come modificato dall'art. 1, legge 7 agosto
 1997, n. 267;
   Dispone la trasmissione degli  atti  del  procedimento  alla  Corte
 costituzionale;
   Manda   alla   cancelleria  per  la  notificazione  della  presente
 ordinanza al Presidente del Consiglio dei  Ministri  nonche'  per  la
 comunicazione   ai  Presidenti  delle  Camere  del  Parlamento  della
 Repubblica;
   Sospende il dibattimento fino all'esito del giudizio incidentale di
 legittimita' costituzionale.
     Milano, addi' 24 ottobre 1997
                        Il presidente: Martino
                                       I giudici: Galioto - Balzarotti
 98C0153