N. 106 ORDINANZA (Atto di promovimento) 9 gennaio 1998

                                N. 106
  Ordinanza  emessa  il  9 gennaio 1998 dal tribunale di Castrovillari
 nel procedimento penale a carico di Foscaldi Gianfranco ed altro
 Processo penale  -  Dibattimento  -  Esame  di  persona  imputata  in
    procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere
    - Lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese al pubblico
    ministero - Preclusione per il giudice salvo l'accordo delle parti
    - Disparita' di trattamento tra le parti processuali - Lesione dei
    principi  di  legalita'  e  obbligatorieta'  dell'azione  penale -
    Incidenza sulla formazione del convincimento del giudice.
 Processo penale  -  Dibattimento  -  Esame  di  persona  imputata  in
    procedimento   connesso,   gia'   condannata,   che   abbia   reso
    dichiarazioni  indizianti  a  carico  di  soggetti  non   presenti
    all'atto  di  assunzione dinanzi al pubblico ministero - Esercizio
    della facolta' di non rispondere - Irragionevolezza - Lesione  dei
    principi  di  indefettibilita' della funzione giurisdizionale e di
    obbligatorieta' dell'azione penale.
 (C.P.P. 1988, art. 513, comma 2,  sostituito  dalla  legge  7  agosto
    1997, n. 267, art. 1, in relazione al c.p.p. 1988, art. 210, comma
    4,  in relazione al c.p.p. 1988, art. 513, sostituto dalla legge 7
    agosto 1997, n. 267, art. 1).
 (Cost.,  artt.  3,  24,  secondo  comma, 25, secondo comma, 101, 102,
    primo comma, 111 e 112).
(GU n.9 del 4-3-1998 )
                             IL TRIBUNALE
   Decidendo nel processo penale n. 93/1996 reg.  trib.  a  carico  di
 Foscaldi  Gianfranco  e  Spagnuolo Giuseppe, imputati rispettivamente
 dei reati di cui agli artt. 416-bis, 81 c.p.v., 110, 112 nn. 1) e 2),
 629 commi 1 e 2, in relaz. all'art. 628 III nn. 1) e 3) c.p., 7 legge
 n. 203/1991, artt. l e 2 legge n. 895/1967 e succ. modif.,  423,  635
 cmmi  1  e  2  n.  3),  56, 575, 577 c.p., artt. 10, 12 e 14 legge n.
 497/1974, 648, 482 in relaz. all'art. 476 c.p. e 110,  416-bis,  110,
 56, 575, 577 n. 3) c.p., 7 legge n. 203/1991;
                                Osserva
   In  data 16 maggio 1997 il tribunale, sentite le richieste avanzate
 dalle parti, emetteva ordinanza di ammissione  delle  prove,  tra  le
 quali   l'esame  dell'imputato  in  procedimento  connesso  Montesano
 Francesco,  avendone  fatto  apposita  richiesta  la   difesa   degli
 imputati,  per cui veniva disposta la sua citazione per l'udienza del
 6 giugno 1997; tuttavia in detta occasione il medesimo non  compariva
 spontaneamente,  pur in presenza di regolare notifica, per cui veniva
 disposto il suo accompagnamento coattivo per  il  14  novembre  1997,
 occasione  in  cui  il  Montesano,  pur  comparendo  al  cospetto del
 collegio, con l'assistenza  del  difensore  d'ufficio  avv.  Cordasco
 Mauro,  si  avvaleva  della  facolta'  di  non rispondere. Essendo in
 itinere mutato il tenore normativo dell'art. 513 c.p.p. il presidente
 innanzi alla richiesta del p.m.  volta ad acquisire  al  procedimento
 le  dichiarazioni rese dal Montesano al p.m. nel corso delle indagini
 preliminari, interpellava i difensori per l'espressione del  consenso
 all'acquisizione,  ma  questi  lo  negavano.   Di conseguenza il p.m.
 sollevava eccezione di illegittimita'  costituzionale  dell'art.  513
 c.p.p.  cosi'  come  modificato dalla legge n. 267/1997, per tutte le
 ragioni di cui al verbale di trascrizione della relativa udienza.
   Interpretazione dell'art. 513 c.p.p., come novellato dall'art.    l
 legge n. 267 del 1997.
   L'art.  513  c.p.p, come sostituito dall'art. 1, legge n. 267/1997,
 dispone: "il Giudice, se l'imputato e' contumace  o  assente,  ovvero
 rifiuta  di  sottoporsi all'esame, dispone, a richiesta di parte, che
 sia data lettura dei verbali delle dichiarazioni  rese  dall'imputato
 al  p.m.  o  alla polizia giudiziaria su delega del p.m. o al giudice
 nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza  preliminare,  ma
 tali  dichiarazioni  non  possono  essere utilizzate nei confronti di
 altri senza il loro consenso.
   Se  le  dichiarazioni  sono  state  rese  dalle  persone   indicate
 nell'art.    210  c.p.p.  il  giudice, a richiesta di parte, dispone,
 secondo i casi, l'accompagnamento coattivo del dichiarante o  l'esame
 a domicilio ... ovvero l'esame in altro modo previsto dalla legge con
 le  garanzie  del  contraddittorio.  Se  non e' possibile ottenere la
 presenza del dichiarante, ovvero procedere all'esame in uno dei  modi
 suddetti,   si   applica   la  disposizione  dell'art.  512,  qualora
 l'impossibilita' dipenda da  fatti  e  circostanze  imprevedibili  al
 momento delle dichiarazioni.
   Qualora il dichiarante si avvalga della facolta' di non rispondere,
 il  giudice  dispone  la  lettura  dei verbali contenenti le suddette
 dichiarazioni soltanto con l'accordo delle parti.
   Se  le  dichiarazioni  di  cui ai commi l e 2 del presente articolo
 sono  state  assunte  ai  sensi  dell'art.  392,  si   applicano   le
 disposizioni di cui all'art. 511 c.p.p.".
   Come traspare con evidenza la norma novellata, con riferimento alla
 posizione dell'imputato in procedimento connesso - che e' l'unica che
 qui  rileva - e' finalizzata ad ottenerne la presenza in dibattimento
 per poter sottoporre il medesimo ad esame, nel contraddittorio  delle
 parti,  e  nell'evenienza che questi si avvalga della facolta' di non
 rispondere prevede, come condizione per procedere alla  lettura,  con
 correlata    acquisizione    al   fascicolo   dibattimentale,   delle
 dichiarazioni gia' rese nel corso delle indagini preliminari (di  cui
 al  comma  1),  l'accordo di tutte le parti presenti nel processo. Ne
 consegue l'evidente attribuzione della potesta', conferita ex lege, a
 ciascuna  delle  parti  di  vietare  la  lettura,  l'acquisizione   e
 l'utilizzazione  delle  dichiarazioni  suindicate  mediante  la  mera
 negazione del consenso, che impedisce il perfezionamento di una sorta
 di "accordo  sulla  acquisizione"  finendo  tuttavia  con  l'incidere
 radicalmente sulla fase di acquisizione della prova, momento centrale
 del processo penale.
   L'art.  6  commi 1 e 2 della legge n. 267/1997 prevede una sorta di
 "regime transitorio", allorquando statuisce  che:  "Nei  procedimenti
 penali in corso il p.m. puo' avvalersi della facolta' di cui al comma
 l  lett.  c)  e  d) dell'art. 392 c.p.p., come modificate dall'art. 4
 della presente legge, anche dopo l'esercizio dell'azione  penale,  se
 ne  fa richiesta al giudice delle indagini preliminari entro sessanta
 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge.
   Nel giudizio di primo grado in corso, quando e' stata  disposta  la
 lettura,  nei  confronti di altri senza il loro consenso, dei verbali
 delle dichiarazioni rese dalle persone indicate nell'art. 513  c.p.p.
 al  p.m. alla polizia giudiziaria da questi delegata o al giudice nel
 corso delle indagini preliminari o all'udienza  preliminare,  ove  le
 parti  lo  richiedano, il giudice dispone la citazione delle predette
 persone per un nuovo esame".
   Nell'ordinanza emessa in data 16 maggio 1997 questo tribunale aveva
 ritenuto, a fronte delle richieste del p.m. di acquisire al fascicolo
 del dibattimento tutti gli atti istruttori (verbali di prova) assunti
 nell'ambito del procedimento  penale  n.  525/1993  (da  considerarsi
 "principale" rispetto al processo odierno, incardinatosi in seguito a
 stralcio,  operato  dal  giudice  a  quo  per difetti di notifica nei
 confronti di tre imputati), ai sensi dell'art. 238 c.p.p., tra cui le
 dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari al p.m.    da
 Montesano  Francesco,  collaboratore  di  giustizia  - che non veniva
 escusso personalmente dal giudice del procedimento originario, che si
 limitava   ad   acquisirne   le    propalazioni    accusatorie    (ed
 autoaccusatorie)  ai  sensi del previgente testo dell'art. 513 c.p.p.
 che tali dichiarazioni  non  potevano  essere  acquisite,  avendo  il
 dettato  normativo dell'art.  238 c.p.p. delimitato tale evenienza ai
 soli atti "assunti", cioe' compiuti nel dibattimento a  quo  cui  non
 possono  essere evidentemente equiparate le dichiarazioni "acquisite"
 ex art. 513 comma 2 c.p.p.,  per  cui  respingeva  in  parte  qua  la
 richiesta  probatoria  del p.m.  disponendo la personale comparizione
 del Montesano che, successivamente, (accompagnato  coattivamente  dai
 Carabinieri,   giusta  ordinanza  del  Collegio)  si  avvaleva  della
 facolta' di non rispondere. Appare fin troppo  evidente,  in  merito,
 che  nel  corso  della celebrazione del dibattimento, con riferimento
 alle dichiarazioni dell'imputato in procedimento connesso di cui  non
 sia  stata  data  lettura  e' doverosamente applicabile la disciplina
 ordinaria stabilita dall'art. 513 comma  3  c.p.p.,  come  sostituito
 dall'art.  l  (cui  fa  sostanziale  riferimento  l'art.  6) legge n.
 267/1997, senza che al p.m. sia consentito  di  chiedere  l'incidente
 probatorio  nella  fase  processuale  in  cui  il procedimento versa,
 quella  della  istruzione  dibattimentale,   come   tale   successiva
 all'emissione  dell'ordinanza  ex  art.  495 c.p.p. Cio' in quanto e'
 ragionevole  ritenere  che   nel   corso   della   celebrazione   del
 dibattimento   non   appare   neanche   prospettabile  l'esigenza  di
 anticipare le forme di assunzione della prova che gli  sono  proprie,
 al  fine di prevenire la inefficacia di una prova ritualmente assunta
 (ed acquisibile,  nelle  evenienze  di  legge),  presumibilmente  non
 rinnovabile  in  futuro. Ma anche ritenendo (per mera astrazione) che
 l'esperimento dell'incidente probatorio  fosse  ammissibile  in  tale
 fase,  si  finirebbe  con il conferire ad una sola parte il potere di
 sottrarre al giudice procedente quell'immediato contatto con la prova
 nel  momento  della  sua  genesi  e  del   suo   pieno   dispiegarsi,
 compromettendo  altresi'  la sua potesta' di formulare al dichiarante
 nuove domande (art. 506 c.p.p.). Di fronte  all'applicabilita'  della
 nuova  disciplina  senza  poter far ricorso agli istituti processuali
 del regime transitorio disegnati dal legislatore  della  novella,  il
 p.m.  ha prospettato un dubbio di costituzionalita' in relazione alla
 mancata previsione di un meccanismo  di  recupero  analogo  a  quello
 previsto  dall'art.   6, comma 5, legge n. 267/1996, nel caso in cui,
 come quello che ci occupa, il  dibattimento  sia  gia'  iniziato,  ma
 l'imputato  in  procedimento connesso non sia stato ancora sottoposto
 ad esame, avvaldosi della facolta' di non rispondere.
   In realta', ritiene il Collegio, che la norma da ultimo citata  non
 contenga  affatto  un  meccanismo volto a recuperare le dichiarazioni
 rese dai soggetti che si trovano in  una  simile  posizione,  ma,  al
 contrario  introduca  un  limite  di  valutazione  della  prova  gia'
 acquisita.  Il fine perseguito, invero, pare essere quello di cercare
 un contemperamento  tra  la  nuova  disciplina  e  quella  pregressa,
 consapevole  dell'impossibilita' di creare una singolare categoria di
 "inutilizzabilita' sopravvenuta".  Pertanto la disposizione in parola
 si  caratterizza,  in  via  principale,  per   uno   spiccato   favor
 defentionis  in  linea  con  l'intera ratio ispiratrice della riforma
 (sostanzialmente,  il  legislatore,  sembra  aver  aderito  a  quella
 autorevole  dottrina  che  considera  l'intera disciplina della prova
 quasi  parasostanziale,  esplicante   i   suoi   effetti   favorevoli
 all'imputato anche successivamente all'introduzione della norma).
   Se  questo  e' l'angolo prospettico abbracciato dal legislatore nel
 dettare la disposizione di cui al comma 5 dell'art. 6,  l.  cit.,  e'
 chiaro  che  la  norma  non  puo' essere invocata per i fini indicati
 dalla pubblica accusa.
   Cio' nondimeno, ritiene il Collegio, che debba essere valutata,  in
 ogni caso, la conformita' a costituzione della disciplina introdotta,
 la sola applicabile, come osservato, nel caso di specie.
   E'  opportuno  premettere  che  la previsione della c.d. disciplina
 transitoria assume comunque rilievo  al  solo  fine  di  vagliare  la
 concreta  possibilita'  per  il  p.m. di azionare il nuovo meccanismo
 "allargato" dell'incidente probatorio. Di certo scopo della norma  e'
 quello  di  favorire  l'instaurazione  effettiva  del contraddittorio
 dibattimentale, sia verificando, con l'ammissione delle parti ad  una
 nuova  richiesta  di  citazione,  l'interesse  che  esse  manifestino
 all'esercizio effettivo di quella facolta'  (ed  in  tal  caso  delle
 dichiarazioni  lette in precedenza permane la piena utilizzabilita'),
 che imponendo un nuovo esame del soggetto dichiarante nel caso in cui
 siffatta richiesta venga avanzata da una  delle  parti,  che  proprio
 azionando tale facolta' puo', in concomitanza di condotte che rendano
 di  tali atti impossibile il compimento, o perche' il soggetto non si
 e' presentato (ed e' la situazione che si riferisce  all'imputato)  o
 perche'  si  e'  avvalso della facolta' di non rispondere (situazione
 che  puo'  verificarsi   sia   con   riferimento   all'imputato   che
 all'imputato  in  un procedimento connesso), influenzare il regime di
 utilizzabilita' delle dichiarazioni  gia'  acquisite,  che  verra'  a
 mutare  secondo  quanto disposto dal comma 5 del citato art. 6 (Cass.
 pen. sez. I ud. 29 settembre 1997, sent.   n. 1213  imp.  Cascino  ed
 altri). Siffatta norma introduce, come osservato, non gia' una regola
 di  ammissione  od  assunzione della prova, che anzi la legge suppone
 avvenute, ma una regola di valutazione della prova che si atteggia in
 termini  di  parziale  esclusione   del   valore   probatorio   delle
 dichiarazioni  predibattimentali delle persone indicate nell'art. 513
 c.p.p.  previgente,  nel  senso   che   esse   possono   fondare   la
 dichiarazione  del  risultato  di prova quando la loro attendibilita'
 sia confermata aliunde (da altri elementi di prova), ma  non  possono
 svolgere  esse  stesse  la  funzione  di  conferma;  in  tal  modo il
 legislatore  attribuisce  efficacia   generatrice   di   prova   alle
 dichiarazioni  acquisite  ai  sensi  dell'art.  513 previgente la cui
 credibilita'  sia  confermata  da  elementi  di  prova   diversi   da
 dichiarazioni  della  medesima  natura,  contestualmente operando una
 negazione del valore probatorio a dichiarazioni di quel genere che si
 confermino reciprocamente.
   Va infine puntualizzato che la norma transitoria di cui all'art.  6
 legge n. 267/1997, a lungo  citata  dal  p.m.  d'udienza  che  ne  ha
 lamentato  la incostituzionalita', trova applicazione in tutti i casi
 in cui, durante il giudizio di primo grado e prima della sua  entrata
 in  vigore,  sia stata disposta la lettura oppure, anche senza previa
 lettura, siano stati acquisiti al fascicolo del dibattimento ex  art.
 513  c.p.p.  verbali di dichiarazioni rese dalle persone ivi indicate
 al p.m., alla polizia giudiziaria su delega del p.m., al giudice  nel
 corso delle indagini preliminari o dell'udienza preliminare.
   Viceversa,   nel   corso   del   giudizio  di  primo  grado,  trova
 applicazione la disciplina ordinaria - art. 513 comma 2  c.p.p.  come
 sostituito  dall'art.  l  legge  n.  267/1997  in tutti i casi in cui
 l'esame degli imputati in procedimento connesso  non  si  sia  ancora
 svolto alla data di entrata in vigore della norma novellatrice.
   Tanto premesso questo Collegio ritiene non manifestamente infondato
 prospettare  d'ufficio profili di illegittimita' costituzionale della
 normativa de qua sotto un duplice aspetto logico sistematico.
   Rilevanza della questione di legittimita'  concernente  l'art.  513
 c.p.p. come sostituito dall'art. 1 legge n. 267/1997.
   Non  puo'  disconoscersi,  dalla  valutazione  della fattispecie in
 esame, la rilevanza della eccezione di costituzionalita' del disposto
 dell'art.  513  comma  2  c.p.p.,  come  sostituito  dalla  legge  n.
 267/1997,  risultando evidente che l'esame di Montesano Francesco era
 gia'  stato  ammesso dal tribunale, che aveva ritenuto "assolutamente
 necessario" l'esperimento di tale mezzo di prova, atteso  che,  nella
 prospettazione  accusatoria,  le  dichiarazioni  del predetto vengono
 dedotte a conforto delle propalazioni  accusatorie  rese  da  Recchia
 Antonio,  esaminato,  nel  contraddittorio delle parti, nel corso del
 procedimento  "principale"  celebratosi  innanzi  al   tribunale   di
 Castrovillari (in diversa composizione) e le cui verbalizzazioni sono
 state  acquisite al fascicolo del dibattimento che ci occupa (essendo
 state assunte ex art. 238 c.p.p.) con ordinanza del 16 maggio 1997, e
 che  la   norma   in   questione   subordina   l'acquisizione   delle
 dichiarazioni  del Montesano, che si e' avvalso della facolta' di non
 rispondere nel corso della udienza del 14 novembre 1997, al  consenso
 delle  parti,  cioe'  al verificarsi di una condicio sine qua non, la
 cui  previsione  e'  oggetto  dei   piu'   penetranti   sospetti   di
 incostituzionalita'.
   A)  Non  manifesta  infondatezza  della  questione  di legittimita'
 costituzionale  dell'art.  513  comma  2  c.p.p.,   come   sostituito
 dall'art. 1, legge n. 267/1997, nella parte in cui subordina soltanto
 all'accordo  delle  parti  la lettura dei verbali de quibus e la loro
 acquisibilita' al fascicolo del dibattimento.    In  via  preliminare
 occorre   evidenziare   che  la  normativa  di  cui  si  sospetta  la
 illegittimita' costituzionale va ad innestarsi nel delicato  rapporto
 di equilibri delineato dal tracciato del codice vigente, il cui punto
 nodale va individuato nella regolamentazione dei rapporti tra la fase
 delle  indagini  preliminari e quella dibattimentale, da contemperare
 con  i  principi  a  lungo  elaborati  dalla  stessa   giurisprudenza
 costituzionale   circa  l'esercizio  dei  poteri  delle  parti  nella
 formazione   dibattimentale   della   prova,   da    valutarsi    non
 disgiuntamente  ai  criteri  informatori  del  razionale  e  motivato
 convincimento personale. Nessun dubbio puo' nutrirsi sul fatto che le
 norme di cui si denuncia l'incostituzionalita' siano ispirate  ad  un
 evidente  depotenziamento  del  valore  probatorio delle acquisizioni
 avvenute in fasi  di  indagini  ed  in  assenza  di  contraddittorio,
 ricorrendo  al  conferimento  alle  parti  di un potere discrezionale
 circa il loro ingresso nel fascicolo  per  il  dibattimento,  cui  e'
 riconnesso  un  meccanismo  innovativo  di  esclusione  della  prova.
 Orbene, nel prendere consapevolezza  del  fatto  che  la  scelta  del
 legislatore    si   e'   sostanzialmente   tradotta   nella   marcata
 accentuazione di alcuni aspetti particolari del processo  accusatorio
 come   processo   di   parti   (che   si   e'   concretizzato   nella
 positivizzazione, del tutto innovativa, del principio dispositivo  in
 materia  di  prova), occorre operare una puntuale verifica al fine di
 valutare se, alla stregua dei principi elaborati dalla giurisprudenza
 venutasi  a  formare  nelle  materie  coinvolte   dalla   innovazione
 normativa,  non  si  siano  ecceduti  i limiti costituzionali, che la
 stessa Corte ha sovente evidenziato,  alla  introduzione  nel  nostro
 ordinamento di un processo penale conforme ad un modello astratto (di
 stampo   puramente   accusatorio)   di   processo  penale  di  parti.
 Giurisprudenza della Corte  costituzionale  in  tema  di  valutazione
 della  prova  e  di  regole  di  esclusione  dei mezzi di prova.   In
 subiecta materia sovente la Corte costituzionale ha incentrato il suo
 intervento "correttivo",  ogni  qualvolta  la  lesione  dei  principi
 costituzionali  lo  rendeva  necessario;  partendo  da  una  premessa
 metodologica  di  base,  il  giudice  delle  leggi  ha  avuto modo di
 affermare   il   principio    secondo    cui    "la    considerazione
 dell'ordinamento   processuale   penale   italiano   va  condotta,  a
 prescindere dalle astratte  modellistiche,  sulla  base  del  tessuto
 normativo  positivo,  la  cui interpretazione e comprensione non puo'
 che derivare da un'attenta lettura dei principi e  criteri  direttivi
 enunciati  dalla  legge  delega  e dei principi costituzionali di cui
 questa ... richiede l'attuazione. Non va  cioe'  dimenticato  che  il
 sistema  processuale  delineato  nella legge delega poi concretamente
 attuato nel codice e' tutt'affatto originale, dato che  tende  bensi'
 (art.  2, comma 1) ad attuare i caratteri del sistema accusatorio, ma
 secondo i principi ed  i  criteri  specificati  nelle  direttive  che
 seguono (sentenza n. 88 del 1991) e che poiche' la stessa norma detta
 ancor  prima  l'obbligo  di  attuare  i  principi della Costituzione,
 un'adeguata considerazione  dell'ordinamento  effettivamente  vigente
 non  puo' prescindere dagli interventi correttivi che questa Corte si
 e' trovata ad apportare".  Cio' in quanto la stessa  natura  "ibrida"
 del  modulo  processuale  delineato nel codice di rito (continuamente
 innovato dal legislatore, anche in funzione dei mutamenti  sociali  e
 culturali,   magmaticamente  in  atto  nel  paese)  imponeva  (ed  ha
 inevitabilmente comportato)  un  costante  controllo  della  Consulta
 sulla  compatibilita'  degli istituti processuali positivizzati con i
 principi  costituzionali  di  riferimento,   imponendo   sovente   la
 enunciazione   di   parametri   guida  cui  rapportare  la  frenetica
 evoluzione  normativa  che,  con  particolare  riguardo  a  tematiche
 processuali  di particolare rilievo (tra cui quella della valutazione
 delle prove assurge a ruolo primario), non puo',  in  conseguenza  di
 cio',  che  uniformarsi,  nella  quotidiana  produzione legislativa e
 nella ermeneutica che la involge,  alle  direttrici  sistematicamente
 indicate dalla Corte; tra queste non possono essere sottaciute quelle
 affermazioni e decisioni in cui sono stati puntualmente esplicitati i
 caratteri  costituzionali  propri  della azione e della giurisdizione
 penale,  la  funzione  euristica  assegnata   al   processo   penale,
 all'interno del quale svolge un ruolo di assoluta pregnanza il valore
 costituito  dalla ricerca della verita' c.d. reale o materiale, quasi
 in contrapposizione a quella formale o processuale.
   Cio' premesso va innanzitutto evidenziato che, per  quanto  attiene
 alla  delicata  opera  di individuazione dei paradigmi costituzionali
 dell'azione e della giurisdizione penale la Corte, pronunciandosi  in
 tema  di  reiterazione  di  dichiarazioni  di ricusazione fondate sui
 medesimi motivi, ha di recente avuto modo di ribadire  (sent.  n.  11
 del  1997)  la esistenza del "... principio di indefettibilita' della
 giurisdizione, ricollegabile a vari principi  costituzionali,  fra  i
 quali l'art. 101 della Costituzione invocato dal giudice a quo (oltre
 alla  sentenza  n.  353/1996 e l'ordinanza n. 5/1997, cfr le sentenze
 nn.  460/1995,  114/1994,  289/1992,  178/1991)".  In  tutte   queste
 occasioni le pronunce del giudice delle leggi, ponendo a raffronto il
 principio  de  quo  con quello di uguaglianza, inteso come "canone di
 coerenza dell'ordinamento giuridico, cui devono uniformarsi pure  gli
 istituti  processuali",  ha  contestualmente puntualizzato: "E qui va
 riconosciuta, certo, la discrezionalita' del legislatore  per  quanto
 attiene alla individuazione delle scansioni processuali, tuttavia nel
 rispetto   del   principio   di   ragionevolezza  perche'  non  venga
 compromessa, di fatto, la nozione stessa di processo. Si che sono  da
 censurare,  pure  alla  luce del principio di razionalita' normativa,
 istituti o regole quando si prestino  ad  un  uso  distorto,  recando
 cosi'    lesione    dell'efficiente    svolgimento   della   funzione
 giurisdizionale".   Per quanto attiene  alla  funzione  ed  al  ruolo
 svolto,  all'interno  del processo penale, dal p.m., la Corte ha gia'
 avuto occasione per esprimersi in modo assai chiaro nella sentenza n.
 88/1991 "Va innanzitutto ricordato, al proposito, quanto questa Corte
 ebbe  ad  affermare  nella  sentenza  n.  84  del  1979,  cioe'   che
 l'obbligatorieta'  dell'esercizio  della  azione  penale ad opera del
 p.m. ... e' stata  costituzionalmente  affermata  come  elemento  che
 concorre   a   garantire   da   un   lato   l'indipendenza  del  p.m.
 nell'esercizio della propria funzione  e,  dall'altro,  l'uguaglianza
 dei  cittadini  di  fronte  alla  legge penale"; ne consegue che tale
 esercizio  dell'azione  e'  attribuito  all'organo  istituzionalmente
 preposto   "senza  consentirgli  alcun  margine  di  discrezionalita'
 nell'esercizio di tale doveroso ufficio".
   In sostanza la Consulta ha gia' inequivocamente ribadito,  in  piu'
 di  una  occasione,  che  il  principio  di  legalita' (art. 25 comma
 secondo, Cost.) che rende inderogabilmente doverosa la repressione di
 condotte violatrici della legge penale non puo'  disgiungersi,  nella
 sua  concreta  attuazione,  dalla  legalita'  del procedere, che puo'
 effettivamente operare in un sistema  come  il  nostro,  fondato  sul
 principio  di  uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, soltanto
 coniugandosi  con  il  principio   dell'obbligatorieta'   dell'azione
 penale;   e  questo  sara'  ipotizzabile  soltanto  se  l'organo  cui
 l'esercizio dell'azione penale e' demandato e' indipendente da  altri
 poteri,  sicche' il requisito della indipendenza del p.m. si appalesa
 imprescindibile, per la pregnanza del ruolo che riveste nel  processo
 penale.    Difatti  questi, al pari del giudice, e' soggetto soltanto
 alla legge (art. 101, comma secondo, Cost.) e si qualifica  come  "un
 magistrato  appartenente  all'ordine giudiziario, collocato come tale
 in una posizione di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro
 potere", che nell'adempimento della doverosa iniziativa  penale  "non
 fa  valere  interessi  particolari, ma agisce esclusivamente a tutela
 dell'interesse generale all'osservanza della legge (sentenze nn.  190
 del  1970  e  96  del  l975)".   Ben si comprende, da una valutazione
 sinottica  dei  principi  suesposti,  che  realizzare  la   legalita'
 nell'uguaglianza,    mediante   il   principio   di   obbligatorieta'
 dell'esercizio  dell'azione  penale,  e'  il  frutto  di  una  scelta
 consapevolmente  operata dal costituente come punto di convergenza di
 un complesso  di  principi  cardine  dell'impianto  processuale,  che
 l'introduzione  del  nuovo  modello  processuale  non  ha minimamente
 incrinato (ne' avrebbe potuto farlo), dal momento che la ripartizione
 dei  ruoli  finalizzata  alla  eliminazione  di  ogni  contaminazione
 funzionale  tra  giudicante  ed  organo  dell'accusa, con particolare
 riferimento alle scottanti tematiche della liberta' personale e della
 formazione della prova, non inferisce necessariamente che, sul  piano
 strutturale  ed  organico,  il  p.m.  venga  considerato avulso dalla
 Magistratura, costituita in ordine autonomo ed indipendente; basti in
 merito considerare che "nell'architettura della delega,  infatti,  il
 ruolo  del  p.m.  non  e' quello di mero accusatore, ma pur sempre di
 organo di giustizia obbligato a ricercare tutti gli elementi di prova
 rilevanti  per  una  giusta  decisione,  ivi  compresi  gli  elementi
 favorevoli  all'imputato"  (cfr  dir. n. 37 ...), principio confluito
 nella redazione del nuovo art. 190 dell'ordinamento giudiziario (art.
 29 del testo allegato al d.P.R. 22 settembre 1988 n. 449).
   Dal  principio di obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale
 consegue, quale  naturale  corollario,  l'esigenza  che  nulla  venga
 sottratto  al  controllo  di  legalita'  effettuato  dal giudice, che
 finisce con il ricomprendere una sorta di favor actionis, che, se  da
 un   lato  comporta  il  bando  di  ogni  contrapposto  principio  di
 opportunita' processuale (concepibile nei soli sistemi improntati  da
 un  esercizio  facoltativo  dell'azione penale), impone che, nei casi
 dubbi, l'azione venga esercitata e non omessa (in dubio pro actione).
 Proprio in merito  alla  assoluta  inderogabilita'  ai  principi  su'
 menzionati  la  Corte  ha  sovente  enunciato  che  l'esigenza  della
 indisponibilita' degli stessi deve ritenersi immanente alla struttura
 processuale introdotta nel  1988,  valutata  nell'ottica  legalitaria
 costituzionale,  dal  momento  che ha reiteratamente enunciato, quali
 cardini irrinunciabili  nel  sistema  processuale,  il  principio  di
 tendenziale  completezza  delle  indagini  (cfr sentenza n. 92/1992);
 quello  di  tutela  della  effettivita'  dell'azione,  finalizzato  a
 contrastare  i  casi di suo esercizio meramente apparente (per questo
 insoddisfacente), mediante la  predisposizione  di  istituti  ad  hoc
 quali  l'indicazione,  da  parte  del  g.i.p.  di  ulteriori indagini
 ritenute necessarie (artt. 409 comma 4, 415, 554, comma 2,  c.p.p.  -
 cfr  sentenze  n.  409/1990  e 445/1990), l'opposizione della persona
 offesa alla richiesta di archiviazione, il potere di  avocazione  del
 procuratore  generale,  l'ordine  di  formulare  l'imputazione  (c.d.
 coattiva  o  iussu  iudicis  ex  art.  409  comma  5  c.p.p.).  Tutte
 argomentazioni  riprese  ed  ulteriormente valorizzate dalla Consulta
 che, nel portato contenutistico della sentenza  n.    111  del  1993,
 nell'individuare  i  naturali  limiti  costituzionali  ad un processo
 penale inteso come "processo di parti, nella misura in cui  evoca  lo
 schema  di  una  contesa tra parti contrapposte operanti sul medesimo
 piano",  riportando  sui  binari  della  pari   dignita'   dialettica
 nell'agone  processuale  (come  tecnica di risoluzione dei conflitti)
 cio' che,  a  livello  concettuale,  poteva  postulare  velleitarismi
 dispositivi  che  stridono  con  i principi di riferimento con cui il
 processo deve armonizzarsi.   Cio' in quanto lo  scopo  del  processo
 penale  deve  essere  individuato nell'esigenza di "accertare i fatti
 onde pervenire ad una decisione il piu' possibile  corrispondente  al
 risultato  voluto  dal  diritto  sostanziale", finalita' che non puo'
 ritenersi travolta (o sovvertita) dalla entrata in vigore del  codice
 del  1988,  ad impianto tendenzialmente accusatorio, avendo sul punto
 la  Corte  inequivocamente  puntualizzato  che  "fine   primario   ed
 ineludibile  del  processo  penale non puo' che rimanere quello della
 ricerca della verita'" (sentenze nn. 111/1993, 255/1992 e  258/1991);
 il  fondamento  costituzionale  di  siffatte pronunce viene rinvenuto
 dalla  valutazione  combinata  del  principio  di   uguaglianza   dei
 cittadini  dinanzi alla legge penale, dal principio di legalita' (che
 rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate, cfr
 sentenze n. 111/1993 ed 88/1991) e di inviolabilita'  della  liberta'
 personale,  cui  si potrebbero agevolmente aggiungere il principio di
 personalita' della responsabilita' penale (ciascuno risponde solo per
 il fatto commesso che gli sia psicologicamente  imputabile,  per  cui
 appare  chiaro  che  sono  il  fatto e la sua imputabilita' l'oggetto
 dell'accertamento giudiziale), il principio  di  presunzione  di  non
 colpevolezza  (l'onere della prova in capo al sostenitore dell'accusa
 e'  criterio  logico   e   garantistico,   che   dimostra   l'impegno
 dell'ordinamento  nella  ricerca  della  verita'),  il  principio  di
 obbligatorieta' dell'azione penale (che si giustifica proprio perche'
 non tende ad altro se non all'accertamento,  secondo  verita',  della
 ipotesi   contenuta   nella   notizia  di  reato  ed  alla  obiettiva
 applicazione della legge), nel principio di difesa (la  verita'  puo'
 essere  affermata  solo  se  garantita  dalla  effettiva presenza del
 difensore nel processo), nel principio  di  indipendenza  e  liberta'
 morale  del giudice nel momento del giudizio (principi che potrebbero
 rivelarsi inutili o dannosi se il giudizio dovesse mirare  a  qualche
 cosa   di   diverso   dalla  ricostruzione  veritiera  del  fatto  ed
 all'applicazione della legge).  Tutte le suesposte  finalita'  devono
 tuttavia  essere  perseguite  mediante la celebrazione di un processo
 contraddistinto dal contraddittorio dibattimentale,  individuato  dal
 legislatore   come   metodo   migliore   per   perseguire   lo  scopo
 istituzionalmente  devoluto  alla  giurisdizione  che,  in  una   con
 l'esigenza di accentuare la terzieta' del giudice, aveva "condotto ad
 introdurre,  di  massima, un criterio di separazione funzionale delle
 fasi processuali, allo scopo  di  privilegiare  il  metodo  orale  di
 raccolta  delle  prove,  concepito  come  strumento  per  favorire la
 dialettica del contraddittorio e la formazione, nel  giudice,  di  un
 convincimento  libero da influenze pregresse" (sentenza n. 111/1993).
 La Corte, tuttavia, ha collateralmente osservato che proprio  perche'
 il fine del processo penale e' da individuarsi solo ed esclusivamente
 nella   ricerca  della  verita',  "l'oralita',  assunta  a  principio
 ispiratore del nuovo sistema, non rappresenta, nella  disciplina  del
 codice,   il   veicolo   esclusivo  di  formazione  della  prova  nel
 dibattimento ...  di guisa che in taluni casi in  cui  la  prova  non
 possa,  di  fatto,  prodursi oralmente e' dato rilievo, nei limiti ed
 alle condizioni di volta in volta indicate, ad atti  formatisi  prima
 ed  al di fuori del dibattimento" (sentenza n. 255/1992); ne consegue
 che "ad un ordinamento improntato al principio di legalita' (art.  5,
 comma  secondo, Cost.) che rende doverosa la punizione delle condotte
 penalmente  sanzionate  -  nonche'  del  connesso   principio   della
 obbligatorieta'  dell'esercizio  dell'azione  penale (cfr sentenza n.
 88/1991) non  sono  consone  norme  di  metodologia  processuale  che
 ostacolino  in  modo  irragionevole  il  processo di accertamento del
 fatto  storico  necessario  a  pervenire  ad  una  giusta  decisione"
 (sentenza n. 111/l993).
   D'altro  canto  i  giudici  della  Consulta hanno gia', nel recente
 passato,   indicato   i   numerosi   casi   in   cui   ben   potrebbe
 (legittimamente)  verificarsi una formazione della prova in deroga ai
 principi  del  contraddittorio  dibattimentale  o  a   quello   della
 oralita',  costituito  dall'immediato  approccio  del  giudice con la
 prova, nel momento della sua formazione (artt. 392, 431,  500,  comma
 4, 503, comma 5 e 6, 512, 513 - sentenza n. 255/1992); cio' in quanto
 la  necessita' di non disperdere elementi di prova "non compiutamente
 (o non genuinamente) acquisibili con il metodo orale" giustificava le
 menzionate  eccezioni  informandolo  al  c.d.   principio   "di   non
 dispersione delle prove" (sentenza n. 255/1992) in tal modo indicando
 la  coesistenza, tra le pieghe del codice di rito, di un procedimento
 probatorio alternativo e sussidiario rispetto  a  quello  principale,
 fondato   sul   contraddittorio   nella   formazione   della   prova,
 percorribile  allorquando quest'ultimo (che resta l'asse portante del
 nuovo rito) si trovi, per qualsivoglia motivo, o nella impossibilita'
 di funzionare o si riveli inadeguato a  produrre  elementi  di  prova
 genuini.      La  coesistenza  di  tale  procedimento  alternativo  e
 sussidiario, come costantemente configurato  dalle  recenti  pronunce
 surrichiamate,  trova  il  suo  fondamento  per un verso sulla figura
 costituzionale del p.m. e per l'altro nella esigenza  di  riaffermare
 la indefettibilita' della giurisdizione penale, principio intimamente
 correlato a quelli di uguaglianza e di legalita'.
   Proprio  elaborando le tematiche suesposte con riferimento non solo
 alla fase procedimentale della ammissione della prova, ma altresi'  a
 quello  della  valutazione  degli  elementi  acquisiti,  la  Corte ha
 puntualmente  affermato  che  siffatte  regole  di  predeterminazione
 legale   del  valore  euristico  delle  prove,  nel  momento  in  cui
 ostacolino in modo irragionevole  il  processo  di  accertamento  del
 fatto  storico,  necessario per pervenire ad una giusta decisione, si
 appalesano dissonanti rispetto ai principi informatori del codice  di
 rito che "fa salvo il principio del libero convincimento, inteso come
 liberta' del giudice di valutare la prova secondo il proprio prudente
 apprezzamento,  con l'obbligo di dar conto in motivazione dei criteri
 adottati e dei risultati conseguiti" (art. 192 c.p.p.,  cfr  sentenza
 n.  255/1992)  -  sentenza  n. 111 del 1993.   Sul tema poi del ruolo
 delle parti del processo, cui si correla la pretesa  coesistenza,  in
 materia  di  prova,  del  c.d. principio dispositivo, la Corte, nella
 sentenza n. 111/1993, ha  statuito:  "la  configurazione  del  potere
 istruttorio  conferito  al  giudice  dall'art. 507 come eccezionale e
 quindi da escludere in caso di decadenza o inattivita'  delle  parti,
 discende,   nella   logica   presupposta   dai   giudici  remittenti,
 dall'assunzione dell'immanenza nel  nuovo  codice,  come  conseguenza
 della  scelta  accusatoria, di un principio dispositivo in materia di
 prova. Si tratta, pero', di un assunto che non  trova  riscontro  ne'
 nei  principi  della  delega, ne' nel tessuto normativo concretamente
 disegnato dal codice".  E' per la verita' incontroverso  che  sarebbe
 contrario    ai   principi   costituzionali   di   legalita'   e   di
 obbligatorieta' dell'azione  concepire  come  disponibile  la  tutela
 giurisdizionale  assicurata dal processo penale; in caso contrario si
 verrebbe a  recidere  il  legame  strutturale  e  funzionale  tra  lo
 strumento   processuale   e  l'interesse  sostanziale  pubblico  alla
 repressione delle  condotte  criminose,  che  quelle  norme  vietano.
 Difatti  si  appalesa  assai  indicativo riconoscere che il codice di
 rito non prevede procedure in cui la concorde richiesta  delle  parti
 vincoli  il  giudice  sul  merito  della  decisione, come dimostra il
 considerare che ad un simile esito  non  conduce  neanche  l'istituto
 dell'applicazione  di  pena su richiesta delle parti, contraddistinto
 dall'intervento,  integratore  dell'efficacia   dell'accordo,   della
 pronuncia  del  giudice,  che  non  puo'  omettere  il  suo  doveroso
 controllo fino a giungere a sindacare,  nel  merito,  la  correttezza
 della   qualificazione   giuridica  del  fatto,  dell'applicazione  e
 comparazione  delle  circostanze  prospettate  dalle  parti  e  della
 congruita'  della  pena  concordata,  ai  fini  e  nei  limiti di cui
 all'art. 27, comma terzo,  Cost. (cfr sentenza n. 313/1990).  Orbene,
 argomentando  ex adverso dalla logica inferenza dei riferiti principi
 costituzionali, puo' affermarsi che un principio dispositivo non puo'
 ritenersi esistente neanche sul  piano  probatorio,  in  quanto  cio'
 significherebbe  rendere  disponibile, sia pure in modo indiretto, la
 stessa res iudicanda.
   E la riprova sul punto la  si  rinviene  da  una  non  superficiale
 valutazione  delle  norme che regolamentano lo svolgimento dell'altro
 rito speciale (il giudizio abbreviato),  in  cui  maggior  spazio  e'
 riservato  alla  volonta'  delle  parti,  dal  momento  che l'accordo
 intervenuto  tra  queste  sulla  utilizzabilita'  degli  indizi  (che
 diventano  prove) rinvenibili nel fascicolo del p.m. e sol per questo
 utilizzabili, non vincola  il  giudizio  sulla  loro  concludenza  ed
 idoneita'  a  sorreggere  una delibazione di merito "allo stato degli
 atti",  dovendo  la  fusione  delle  volonta'  formare  oggetto   del
 controllo   del   giudicante  circa  la  concreta  decidibilita'  del
 procedimento,  alla  stregua   degli   elementi   gia'   disponibili.
 Aggiungasi  che  la  Corte,  con  la  sentenza  n.  81  del 1991, nel
 dichiarare la illegittimita' costituzionale  parziale  del  combinato
 disposto  di  cui agli artt. 438, 439, 440, 442 c.p.p.  ha affermato:
 "E' invece fondata la questione proposta in  riferimento  all'art.  3
 della  Costituzione  sotto il profilo dell'irrazionale disparita' cui
 la normativa impugnata, vista dall'interno  della  sua  applicazione,
 darebbe  luogo,  tanto  nei rapporti tra p.m. ed imputato, quanto nei
 rapporti fra  imputato  ed  imputato.  Non  risponde,  infatti,  alle
 esigenze di coerenza e di ragionevolezza una disciplina che autorizza
 il  p.m.   ad opporsi non soltanto ad una determinata scelta del rito
 processuale ..., ma anche ad una consistente riduzione della pena  da
 infliggere  all'imputato  in  caso  di condanna, senza neppure dovere
 esternare  le  ragioni  di  tale  opposizione,   cosi'   sottraendola
 all'obiettiva  ed  imparziale valutazione del giudice. Per giunta, in
 un sistema, come quello del nuovo codice, imperniato sul principio di
 partecipazione dell'accusa e della difesa su basi di parita' in  ogni
 stato  e  grado del procedimento (art. 2 n. 3 legge 16 febbraio 1987,
 n. 81), non dovrebbe essere consentito che i  rapporti  tra  p.m.  ed
 imputato si sbilancino al punto che il primo, con un semplice atto di
 volonta' immotivato e, percio', incontrollabile, si trovi in grado di
 privare  il  secondo di un rilevante vantaggio sostanziale" (sentenza
 n. 81/1991).  Di tale sentenza e di quella n. 66 del  1990  la  Corte
 rendeva  interpretazione  autentica  nel momento in cui, in seno alla
 pronuncia n. 92 del 1992, evidenziava che "il  nucleo  essenziale  di
 tali  decisioni  sta  nel riconoscimento dell'incompatibilita' con un
 ordinamento costituzionale fondato  sui  principi  di  uguaglianza  e
 legalita'  della  pena,  di  una  disciplina  che affida(va) a scelte
 discrezionali, immotivate e quindi insindacabili, del p.m.  l'accesso
 dell'imputato  ad  un  rito  dal  quale  scaturiscono automaticamente
 rilevanti effetti sulla determinazione della pena".    D'altro  canto
 l'assunzione  di  un  principio  dispositivo  in materia di prova non
 trova riscontro nella normativa positiva,  neanche  sul  terreno  del
 giudizio  ordinario;  valga in merito quanto ribadito dalla Consulta:
 "il metodo dialogico di formazione  della  prova  e'  stato,  invero,
 prescelto  come  metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente
 idoneo al loro, per quanto possibile, pieno accertamento e  non  come
 strumento  per  far programmaticamente prevalere una verita' formale,
 risultante dal mero confronto dialettico tra le parti, sulla  verita'
 reale:   altrimenti   ne   sarebbe   risultata  tradita  la  funzione
 conoscitiva del processo, che discende dal principio di  legalita'  e
 da   quel   suo  particolare  aspetto  costituito  dal  principio  di
 obbligatorieta' dell'azione penale...". Come a dire che la formazione
 della  prova  in  dibattimento  nel  contraddittorio  delle parti (ed
 assicurando l'oralita' dell'assunzione) e' obiettivamente il migliore
 dei  metodi  acquisitivi,  ma  resta  comunque  uno   strumento   per
 assicurare  l'acquisizione  di un atto istruttorio, non puo' divenire
 il fine ultimo della dinamica processuale che tende, di contro,  alla
 ricerca  della  verita'  reale,  al di la' delle opportunita' e delle
 convenienze di questa o quell'altra parte in contesa.
   Ancor  piu'  marcatamente  l'affermazione  di  siffatto   principio
 traspare  dalla  positiva  previsione,  nel codice di rito, dell'art.
 507, che postula in modo  inequivoco  la  inesistenza  di  un  potere
 dispositivo delle parti in materia di prova; sul punto: "questa Corte
 ha  gia' avuto modo di dire, nella sentenza n. 241 del 1992, che tale
 norma, inserita in un sistema  processuale  imperniato  su  un  ampio
 riconoscimento  del diritto alla prova e nel quale l'acquisizione del
 materiale probatorio e' rimessa in primo luogo alla iniziativa  delle
 parti,  conferisce  al  giudice  il  potere - dovere di integrazione,
 anche di ufficio, delle prove per  l'ipotesi  in  cui  la  carenza  o
 insufficienza,  per  qualsiasi  ragione,  dell'iniziativa delle parti
 impedisca al dibattimento di assolvere la funzione di  assicurare  la
 piena  conoscenza,  da  parte  del  giudice,  dei  fatti  oggetto del
 processo, onde consentirgli di pervenire ad  una  giusta  decisione".
 Per  cui,  previo  espresso  richiamo al pronunciamento delle sezioni
 unite della Corte di cassazione n.  11227 del 6 novembre-21  novembre
 1992,  nonche'  alla direttiva n.  73 delle legge delega, che prevede
 il "potere del presidente... o del pretore  di  indicare  alle  parti
 temi  nuovi  o incompleti utili alla ricerca della verita'" (potesta'
 prevista  finanche  con  riguardo  alla  celebrazione  della  udienza
 preliminare  ex  art.  422  c.p.p.,  a  nulla  rilevando  la  diversa
 finalita' cui la stessa e' orientata, costituendo una mera  pronuncia
 sul  rito,  connotata  per  questo  da  una  minorata  probatio) e di
 rivolgere domande dirette, la  Corte  proseguiva  chiarendo  che  "il
 legislatore  delegante  ha cioe' esattamente considerato - in armonia
 con l'obiettivo di eliminazione delle disuguaglianze di  fatto  posto
 dall'art.  3,  comma secondo, Cost. - che la parita' delle armi delle
 parti, normativamente enunciata, puo' talvolta non  trovare  concreta
 verifica nella realta' effettuale, si' che il fine di giustizia della
 decisione  puo' richiedere un intervento riequilibratore del giudice,
 atto a supplire alle  carenze  di  taluna  di  esse,  cosi'  evitando
 assoluzioni  o  condanne  immeritate.  Il potere conferito al giudice
 dall'art. 507 c.p.p. e' dunque un potere  suppletivo,  ma  non  certo
 eccezionale...  E'  del resto evidente che sarebbe contraddittorio da
 un lato  garantire  l'effettiva  obbligatorieta'  dell'azione  penale
 contro  le negligenze o le deliberate inerzie del p.m., conferendo al
 giudice per le indagini preliminari  il  potere  che  costui  formuli
 l'imputazione...  e  dall'altro  negare  al giudice dibattimentale il
 potere  di  supplire  ad  analoghe  condotte  della  parte  pubblica"
 (sentenza n. 111/1993).
   Traspare  con  evidenza che nella sentenza surrichiamata il giudice
 delle  leggi   ha   riconosciuto   incompatibile   con   i   principi
 costituzionali di uguaglianza, legalita', obbligatorieta' dell'azione
 penale  un  processo  penale  inteso come "... tecnica di risoluzione
 delle controversie  nel  cui  ambito  al  giudice  sarebbe  riservato
 essenzialmente  un  ruolo  di garante dell'osservanza delle regole di
 una contesa tra parti contrapposte ed il giudizio avrebbe la funzione
 non  di  accertare  i fatti reali, onde pervenire ad una decisione il
 piu'  possibile  corrispondente  al  risultato  voluto  dal   diritto
 sostanziale,  ma  di  attingere,  nel  presupposto  di  un'accentuata
 autonomia finalistica del processo, quella sola  verita'  processuale
 che  sia  possibile  conseguire  attraverso  la logica dialettica del
 contraddittorio e nel rispetto di  rigorose  regole  metodologiche  e
 processuali  coerenti al modello".  In sintonia con siffatte premesse
 la Corte  concludeva  circa  la  incompatibilita'  con  i  menzionati
 principi  della operativita', propria di un processo di parti, "di un
 principio dispositivo sotto il profilo probatorio", cui conseguirebbe
 "... da un lato l'espansione degli spazi  di  discrezionalita'  della
 parte  pubblica e l'accentuazione della oralita' come strumento della
 formazione della prova in dibattimento, dall'altro la  configurazione
 del  potere  di  intervento  del  giudice  in  materia  di prova come
 eccezionale...".  Traendo le dovute  conseguenze  dalle  affermazioni
 summenzionate  la  Corte,  con  riferimento  alla fase dibattimentale
 istituzionalmente  devoluta   alla   formazione   della   prova,   ha
 considerato  ostacoli  irragionevoli  (o in se' stessi, o rispetto al
 sistema):
     il divieto di testimonianza de relato della  polizia  giudiziaria
 (sentenza n. 24 del 1992);
     l'omessa  previsione  della acquisizione delle dichiarazioni rese
 da imputati in procedimento connesso,  anche  se  rese  alla  polizia
 giudiziaria  su  delega  del  p.m., quando essi si fossero avvalsi in
 dibattimento della facolta' di non rispondere (sentenze nn.  254  del
 1992 e 60 del 1993);
     l'utilizzo, ai soli fini della valutazione della credibilita' dei
 testimoni,   delle   dichiarazioni   dagli   stessi   rese   in  fasi
 predibattimentali, acquisite al fascicolo dibattimentale sotto  forma
 di contestazioni (sentenza n. 255 del 1992).
   Inoltre la Corte ha riconosciuto:
     l'acquisibilita',  ex  art.  512 c.p.p., delle dichiarazioni rese
 dai prossimi congiunti che si siano avvalsi, in  dibattimento,  della
 facolta' di non rispondere (sentenza n. 179 del 1994);
     l'acquisibilita',  ex art. 512 c.p.p. delle dichiarazioni rese in
 fase predibattimentale dal teste  affetto  da  amnesia  assoluta  sui
 fatti  di causa dovuta a sopraggiunta infermita' (ordinanza n. 20 del
 1995).
   Sempre sulla  spinta  delle  medesime  motivazioni  (modellate  sui
 medesimi  principi),  la Corte ha inoltre dichiarato legittimo l'art.
 507 c.p.p, solo se interpretato nel senso che possa consentire, nella
 inerzia delle parti, l'impulso giudiziale  nella  acquisizione  della
 prova (sentenza n. 111 del 1993).
   Ostacolo  irregionevole  alla formazione della prova, alla funzione
 conoscitiva del dibattimento  ed  all'esercizio  della  giurisdizione
 mediante  l'individuazione  di  un  meccanismo  di disposizioni della
 prova: contrasto con gli artt.  3,  25,  comma  secondo,  101,  comma
 primo,  112,  comma  1, della Costituzione.   L'art. 11 della legge 7
 agosto 1997 n. 267 (nella parte  in  cui  prevedono  l'applicabilita'
 dell'art.  513  c.p.p., come modificato dalla legge ora citata, anche
 ai processi in corso per i quali e' stata esercitata l'azione  penale
 ed  e' intervenuto rinvio a giudizio) viola i principi costituzionali
 di uguaglianza dei cittadini di fronte  alla  legge  (art.  3,  comma
 primo,  Cost.)  e  di  obbligatorieta'  dell'azione  penale (art. 112
 Cost.).    Uguaglianza  dei  cittadini  davanti   alla   legge   vuol
 significare   (anche,  ed  innanzitutto)  uguaglianza  dei  cittadini
 davanti alla legge penale.  Si osserva, preliminarmente, che gia' nel
 diritto penale sostanziale vige il principio  della  legalita'  della
 pena,  per  il quale l'applicazione della sanzione penale in concreto
 non puo' essere rimessa all'arbitrio di alcuno, non puo' dipendere da
 scelte insindacabili ed immotivate.   La Corte  costituzionale  (cfr.
 Corte  cost.  sentenza  n.  92  del  1992)  ha  riscontrato,  invero,
 l'incompatibilita' con il nostro ordinamento costituzionale,  fondato
 sui  principi di uguaglianza e legalita' della pena, della disciplina
 del giudizio abbreviato che affidava a scelta arbitraria del pubblico
 ministero l'accesso dell'imputato ad un rito  dal  quale  scaturivano
 effetti rilevanti sulla determinazione della sanzione (come detto).
   Anche  il  nostro  sistema  penale  processuale  (al pari di quello
 sostanziale),  peraltro,  rifiuta  il  "principio  dispositivo";   si
 consideri  che  neppure  la richiesta concorde delle parti vincola il
 giudice: ne' sul piano dell'accertamento di responsabilita' (si pensi
 ai poteri del giudice in presenza di una richiesta ai sensi dell'art.
 444 c.p.p. - sentenza Corte cost. n. 313 del  1990),  ne'  sul  piano
 della  prova  (si pensi agli artt. 495 comma 4 c.p.p; 508 c.p.p.; 189
 c.p.p.; 603 comma 3  c.p.p.,  che  prevede  la  possibilita'  per  il
 giudice  di  appello  di  ordinare  la  rinnovazione  dell'istruzione
 dibattimentale anche d'ufficio; 606  lett.  d)  c.p.p.  che  prevede,
 quale  caso  di  ricorso  in Cassazione, la mancata assunzione di una
 prova decisiva; e all'art. 507 c.p.p.  cosi' come interpretato  dalla
 sentenza  Corte  cost.  n. 111 del 1993).  Cio' accade in ossequio ai
 principi  di  uguaglianza  dei  cittadini  davanti  alla  legge,   di
 legalita' e di obbligatorieta' dell'azione penale.  L'obbligatorieta'
 dell'azione  penale  tende  ad assicurare l'uguaglianza dei cittadini
 davanti  alla  legge:  sottraendo  al   pubblico   ministero   potere
 dispositivo  in  ordine  al  processo  penale  (e'  appena il caso di
 osservare che le determinazioni del pubblico  ministero  sono  sempre
 portate al vaglio del giudice, che ha efficaci strumenti per superare
 l'inerzia  del  procuratore della Repubblica), tale principio tende a
 garantire in concreto un'applicazione della legge uguale per tutti.
   Per  ben  comprendere  il  senso  della  prospettata  questione  di
 legittimita'  costituzionale,  va,  pero',  chiarito  il  significato
 profondo di tale principio.
   "Esercitare l'azione penale"  non  vuol  significare,  soltanto  (e
 semplicisticamente),   "elevare  un'imputazione".  Se  finalita'  del
 principio sono  quelle  di  assicurare  l'eguaglianza  dei  cittadini
 davanti  alla  legge  e  di  garantire  l'effettivita'  della  tutela
 giurisdizionale  (all'esercizio  dell'azione  penale   corrispondono,
 invero,  legittime  aspettative  delle persone offese e delle persone
 danneggiate dal reato), nel suo senso piu' profondo esso  impone  "la
 necessaria  sottoposizione  al  giudice  di  tutte  le fonti di prova
 legittimamente raccolte affinche'  sia  il  giudice,  sulla  base  di
 quelle prove, a condannare o ad assolvere".
   Ne   consegue  che  obbligatorieta'  dell'azione  penale  significa
 obbligatorieta' dell'accertamento di responsabilita', concetto che  a
 sua  volta inferisce la necessaria sottoposizione al giudice di tutte
 le fonti di prova legittimamente - secondo, per quel che qui  rileva,
 la  normativa all'epoca vigente - raccolte (altrimenti l'accertamento
 sarebbe  obbligatorio  nella  forma, ma non nella sostanza).  D'altro
 canto, le norme che regolano la sottoposizione al giudice delle fonti
 di prova devono essere eguali per tutti: affinche'  il  principio  di
 uguaglianza  sia  rispettato,  l'accertamento di responsabilita' deve
 avvenire, con la stessa efficacia, e pregnanza, per tutti i cittadini
 che versino in situazioni simili; cosicche' non sembra rispettoso  di
 questo  principio  un  sistema  che rimetta all'arbitrio di una delle
 parti la scelta di sottoporre al giudice  una  fonte  di  prova  gia'
 raccolta.
   L'accertamento   di  responsabilita'  deve  avvenire,  dunque,  con
 adozione di  criteri precostituiti ed uguali per tutti  gli  imputati
 che  versino  in  situazioni simili, tali da consentire al giudice di
 conoscere (salvo il rispetto dei  diritti  di  difesa  positivizzati)
 tutte le prove legittimamente acquisite.
   Si  vede  bene  che  l'elevare  imputazione e', in definitiva, atto
 (bensi' di ineludibile garanzia, ma) meramente prodromico rispetto  a
 tale  necessaria  sottoposizione  al  giudice  delle  fonti  di prova
 legittimamente   raccolte,   perche'   il   giudice    si    pronunci
 sull'accertamento di responsabilita'.
   Obbligatorieta'  dell'azione  penale  e  principio  di  uguaglianza
 postulano,  dunque,  un  modello  processuale  che  tenda  (sia  pure
 attraverso   lo  schema  dialogico)  all'accertamento  della  verita'
 "reale".    Se  la  prova  diviene  disponibile,  il   principio   di
 uguaglianza e quello di obbligatorieta' dell'azione penale risultano,
 nella  sostanza,  violati.    Si  potranno,  in definitiva, celebrare
 processi in cui la decisione sara' aderente alla realta', e  processi
 in  cui  la  decisione  sara'  aderente  ad  un  modello  astratto  e
 processuale di verita' (quelli  in  cui  al  giudice  si  sottraggono
 elementi   di   conoscenza  della  verita'),  con  ingiustificata  ed
 irragionevole disparita' di trattamento tra imputati che  versano  in
 simili  condizioni  e  tra  persone  offese  che  versano  in  simili
 condizioni,  a  seconda  della  prevalenza  dell'uno  piuttosto   che
 dell'altro   modello   processuale   (e'   violato  il  principio  di
 uguaglianza).
   Vi potranno essere, difatti, processi in cui la decisione non sara'
 aderente  alla  verita'  storica,  benche'  questa  emerga  da   atti
 processuali  che il giudice non puo', tuttavia, conoscere (e' violata
 la disposizione dell'art. 112 Cost.: se la produzione  di  una  prova
 decisiva  e' rimessa all'arbitrio di una delle parti, l'azione penale
 rimane obbligatoria formalmente, ma l'accertamento di responsabilita'
 cui essa tende diviene del tutto  aleatorio  nella  sostanza,  ed  il
 principio  e', pertanto, inesorabilmente violato).  Del resto la tesi
 qui esposta si ricava dalla sentenza n. 113 del 1993, con la quale la
 Corte cost. ha affermato che "Il metodo dialogico di formazione della
 prova e' stato prescelto come metodo di conoscenza dei fatti ritenuto
 maggiormente idoneo al  loro  ...  pieno  accertamento,  e  non  come
 strumento  per  far  programmaticamente prevalere una verita' formale
 ... su una verita' reale; altrimenti ne sarebbe risultata tradita  la
 funzione  conoscitiva  del  processo  che  discende  dal principio di
 legalita' e da quel suo particolare aspetto costituito dal  principio
 di obbligatorieta' dell'azione penale".
   L'oralita'  e'  dunque  un  mezzo, un mezzo eletto ma pur sempre un
 mezzo, per giungere all'accertamento della verita'. Non puo' divenire
 un fine.  Pertanto, tutte le fonti di prova raccolte nel rispetto dei
 diritti di difesa, cosi come processualmente garantiti, devono  poter
 essere  sottoposte  alla  cognizione  del  giudice che, naturalmente,
 sara' nella condizione di conferire  loro  il  correlato  significato
 euristico;  cio'  significa che deve esistere un sistema di norme che
 stabilisca a priori ed ex ante  condizioni  certe  (di  garanzia  per
 l'imputato,  ma  altrettanto  garante  dell'esigenza  che il processo
 consegua il fine che gli e' proprio), rispettate le quali,  la  fonte
 di   prova  legittimamente  raccolta  e'  sottoponibile  al  giudice.
 Ammettere casi in cui una fonte di prova, pur legittimamente raccolta
 (senza violazioni processuali) divenga (per  cause  non  prevedibili,
 ne' superabili da una ragionevole attivita' da svolgersi ex ante) non
 conoscibile  dal  giudice  vuol  dire  violare i suddetti principi di
 uguaglianza,   legalita',   obbligatorieta'    dell'azione    penale,
 effettivita' della tutela giurisdizionale.
   Cio',  ad avviso del tribunale, accade certamente con la disciplina
 dell'art. 513 c.p.p. nella parte in cui esso e' applicabile anche  ai
 processi per i quali e' gia' intervenuto (magari da anni) il rinvio a
 giudizio.
   In  realta',  in sintonia con i principi enunciati, tutto il nostro
 sistema processuale e' pervaso (conformemente alla legge  delega  del
 1988)  dalla  garanzia  di  salvezza  delle  prove  non ripetibili in
 dibattimento:   art. 511 c.p.p.; art. 360  c.p.p.;  art.  392  c.p.p.
 L'esigenza  dell'oralita'  del  processo  e'  temperata  (proprio  in
 ossequio ai detti principi costituzionali enunciati  dalla  Consulta)
 da un sistema di norme che:
     salvano  il  valore  degli atti gia' compiuti qualora questi, per
 circostanze non prevedibili, siano divenuti irripetibili;
     danno,  comunque,  alle  parti  la  possibilita'  di   anticipare
 l'acquisizione  di  prove,  se e' prevedibile che queste non potranno
 essere escusse davanti al giudice del dibattimento.
   La nuova disciplina processuale ha invece introdotto casi in cui al
 giudice e'  precluso  (per    circostanze  non  prevedibili,  poiche'
 rimesse ad una scelta legislativa che trova applicazione anche per il
 passato)  conoscere  una fonte di prova, benche' le parti non abbiano
 avuto, a suo (ragionevole) tempo, ex ante:
     ne' la possibilita' di prevedere tale evenienza;
     ne', soprattutto,  la  possibilita'  di  porvi  rimedio  (poiche'
 l'incidente  probatorio  era,  al  tempo  in cui la fonte di prova in
 questione veniva - legittimamente - raccolta, consentito a condizioni
 non sussistenti  nei  casi  di  odierno  rifiuto  del  coimputato  di
 sottoporsi ad esame in dibattimento); e cio' al di fuori di qualsiasi
 sanzione processuale collegata a violazione del diritto di difesa.
   E'  pur  vero che la disciplina in vigore riconosce la possibilita'
 di chiedere l'incidente probatorio anche se e'  gia'  intervenuto  il
 rinvio  a  giudizio,  ma e' proprio questo il punctum dolens: se, nel
 frattempo (anche per il lungo tempo trascorso,  in  alcuni  processi,
 tra  la data del rinvio a giudizio e l'udienza, concretantesi a volte
 in diversi anni), e' maturata nell'imputato di procedimento  connesso
 la  decisione  di  non  rispondere,  tale decisione - pur essendo, di
 fatto, una causa sopravvenuta, non prevedibile (al tempo  in  cui  il
 p.m.  assumeva  l'interrogatorio  di quella persona) e non superabile
 (al tempo in cui veniva raccolta la dichiarazione) riceve trattamento
 affatto diverso:  sia  rispetto  alle  altre  cause  sopravvenute  ed
 imprevedibili  che  rendono  impossibile la ripetizione dell'atto (le
 quali   consentono   la  lettura  dei  verbali  degli  atti  divenuti
 irripetibili); sia rispetto alla  decisione  di  non  rispondere  che
 dovesse   maturare   in   imputati   per   i  quali  -  oggi  -  puo'
 tempestivamente cristallizzarsi la prova  (prima  che  essi  maturino
 questa  decisione).   E' evidente, allora, che gli artt. 1 e 6, comma
 1, legge 7 agosto 1997 n. 267, in  quanto  consente  l'applicabilita'
 dell'art.  513  come  modificato dalla legge citata anche ai processi
 gia' in corso di trattazione per i quali e' stata esercitata l'azione
 penale, viola gli artt. 3, 112, 24 della Costituzione.  Se vi e'  sin
 dall'inizio  una  scelta  di  non rispondere da parte di un imputato,
 rimane nel  processo  un  difetto  di  conoscenza  che  dovra'  -  se
 possibile  -  essere  superato con altri strumenti processuali; ma se
 l'imputato ha reso dichiarazioni  davanti  ad  organi  legittimati  a
 raccoglierle,  non puo' tale imputato restare arbitro della scelta se
 investire o meno  l'organo  giudicante  della  conoscenza  di  queste
 dichiarazioni,  pur  non  avendo  avuto il p.m., al tempo in cui tali
 dichiarazioni furono rese, la possibilita' di premunirsi contro  tale
 scelta.    Si rappresentano, ad esempio, alcuni casi di macroscopiche
 disparita' di trattamento che deriverebbero  dall'applicazione  della
 norma  in esame ai processi per i quali e' gia' intervenuto il rinvio
 a giudizio.   Si  consideri  inoltre,  con  riferimento  al  generale
 principio   ispiratore   della  nuova  normativa,  la  disparita'  di
 trattamento tra imputati in indagini preliminari tutt'ora  in  corso,
 che  subiscono gli effetti di un incidente probatorio tempestivamente
 richiesto, ed  imputati  nei  cui  confronti  solo  irragionevolmente
 potrebbe chiedersi l'incidente probatorio, per essere, ormai da anni,
 intervenuto il rinvio a giudizio ed essere imminente il dibattimento:
 l'atteggiamento  processuale  che  i  coimputati  in  questi processi
 potrebbero tenere nel corso dell'incidente probatorio e' equiparabile
 a quello che potrebbero tenere in udienza, con l'eguale risultato  di
 fare  entrare  il  doveroso accertamento della verita' in una fase di
 stallo  insuperabile,  superabile  soltanto  con  una  decisione   di
 assoluzione  per  essere  venuta  meno la prova della commissione del
 singolo fatto criminoso, il che finisce con il travolgere  la  stessa
 giuridica sussistenza del fatto - reato oggetto di imputazione.
   Si   consideri  la  disparita'  di  trattamento  tra  imputati  che
 subiscono  gli  effetti  di  dichiarazioni  precedentemente  rese  da
 coimputati, per sopravvenuta impossibilita' di ripetizione dell'esame
 (nel  caso di morte del coimputato); ed imputati (magari nello stesso
 processo dei primi) che non subiscono gli effetti delle dichiarazioni
 di altri coimputati pur essendovi una causa sopravvenuta (rifiuto  di
 rispondere)  che  riceve  un  irragionevole  trattamento  processuale
 diverso.  Nel primo caso il giudice conosce e valuta le dichiarazioni
 precedentemente rese dal coimputato (ai sensi dell'art. 192, comma  3
 c.p.p.), nel secondo caso no. La norma in questione, pertanto, sembra
 funzionale ad un modello di processo che non tende alla ricerca della
 verita',  ma  ad  una decisione correttamente presa in una contesa in
 cui  un  esito  processuale  vale  l'altro,  purche'  "correttamente"
 ottenuto:    tale  modello  processuale  e' quanto di piu' lontano vi
 possa essere dal nostro ordinamento costituzionale, che garantisce  i
 diritti  di  difesa  come  presupposto  di  un processo che tenda pur
 sempre (artt.  3, 24 e 112 della Costituzione), nel rispetto di  quei
 diritti, ad accertare la verita' e ad assicurare l'effettivita' della
 tutela  giurisdizionale.   Difatti garanzia degli inviolabili diritti
 della  difesa  non  puo'  tradursi  nell'esigenza  di  assicurare una
 aprioristica impunita' a persone  nei  cui  confronti  vi  sono  (per
 essersi  le  stesse previamente e legittimamente formate, sia pure in
 embrione) fonti di prova di colpevolezza solo perche' queste  ultime,
 per il capriccio di una delle parti, imprevedibile ed insuperabile al
 momento   della   loro  embrionale  formazione,  non  possono  essere
 conosciute dal giudice.  Sul punto, difatti, non  puo'  omettersi  di
 rilevare  che  l'esercizio  della facolta' di non rispondere da parte
 dei   soggetti   predetti   impedisce   in   toto   la   rinnovazione
 dibattimentale  degli  atti  (che comunque erano stati legittimamente
 formati) ed una nuova acquisizione, nel contraddittorio delle  parti,
 di elementi probatori provenienti dalla stessa fonte, per cui, pur in
 presenza  di  tutti  i  presupposti  (in astratto) per una formazione
 della  prova  con  metodo   dialogico,   interviene   l'imprevedibile
 esercizio,  da  parte  di  imputato  di procedimento connesso, di una
 facolta' riconosciutagli dalla legge  ad  impedire  e  precludere  la
 possibilita'   del   contraddittorio;   cio'   a  causa  di  un  atto
 discrezionale, immotivato, insindacabile,  frutto  di  una  personale
 valutazione  che l'imputato in un procedimento connesso fa dei propri
 interessi processuali (ed anche extraprocessuali), tuttavia in  grado
 di ripercuotersi irrimediabilmente sull'intero procedimento penale in
 corso,  che  sol  per  effetto  di  tale  opzione  non appare piu' in
 condizione di conseguire il fine che gli e' proprio, addivenire  alla
 ricerca  della  verita'  reale.    Orbene non puo' disconoscersi che,
 quantomeno  con  riferimento  ai  casi  in   cui   siffatta   impasse
 sopravvenga  in  un processo penale gia' da tempo incardinato (e gia'
 in fase dibattimentale), si verifichi una situazione  parificabile  a
 quella della irripetibilita' sopravvenuta di atti, pur legittimamente
 formatisi, che tuttavia non possono piu' in alcun modo essere oggetto
 di  vaglio  da  parte  del  giudicante;  aggiungasi  che  la assoluta
 imprevedibilita' di siffatta evenienza la si verifica considerando la
 natura dell'atto che da luogo  alla  "irripetibilita'"  (la  semplice
 dichiarazione  di  avvalersi  della  facolta' di non rispondere) ed i
 diversi e contrapposti interessi che possono muovere il soggetto  che
 e'  (diventato)  titolare  di  quella  facolta',  alla  decisione  di
 esercitarla.
   D'altro canto chi abbia reso, nella fase di  indagini  preliminari,
 dichiarazioni  a carico di altri ben si rende conto (anche nelle fasi
 processuali  successive)  che   le   stesse   possono   avere   gravi
 conseguenze,  sia  per lui medesimo nel caso di confessione ovvero di
 falsita' (articoli 367 e segg. c.p.), che per il terzo che ne risulti
 coinvolto;   e'   evidente   che   tale   pregressa   assunzione   di
 responsabilita'  indurrebbe  a  ritenere (secondo l'id quod plerumque
 accidit) che l'imputato, o l'imputato in  un  procedimento  connesso,
 reiterera'  le  dichiarazioni  a carico degli accusati.  In virtu' di
 queste considerazioni, ed alla stregua della valutazione del soggetto
 che puo'  esercitare  siffatta  opzione,  dei  motivi  (assolutamente
 imponderabili)  che possono sospingerlo a cio', ben si puo' affermare
 che non e' possibile prevedere, prima che  l'atto  sia  concretamente
 compiuto,  se la facolta' verra' esercitata o meno. Ne' d'altro canto
 puo' ragionevolmente pretendersi che operi impossibili previsioni sui
 comportamenti delle controparti del  processo  o  di  altri  processi
 (magari  gia' conclusi con sentenza di condanna emessa dalla Corte di
 appello, e non ancora passati in  autorita'  di  cosa  giudicata)  in
 quanto in tale ipotesi, ed in assenza di una disciplina positivizzata
 (e  generalizzata) sui rapporti  tra e collaboranti, si finirebbe per
 riconoscere effetti giuridici  (sub  specie  inutilizzabilita'  della
 prova)  a possibili comportamenti strumentali e/o ingannatori di tali
 soggetti nei confronti del medesimo (estensibili, per il suo tramite,
 alla giustizia  in  senso  concettuale  che  lo  stesso,  per  volere
 costituzionale,  personifica).    Sorge  a  questo punto legittimo il
 dubbio  se  risulti  compatibile  con   i   principi   costituzionali
 l'innesto,  nella  disciplina degli articoli 512 e segg. c.p.p. (come
 tralaltro rivisti dagli interventi modificatori  della  Consulta,  in
 particolare  sulla  originaria  disciplina dell'art.   513 c.p.p.) di
 meccanismi  che,  allo  scopo  di  assicurare   il   contraddittorio,
 impediscano,   in   toto,  l'utilizzabilita'  di  elementi  di  prova
 legittimamente raccolti dal pubblico ministero, sia pure connotati da
 una assenza  di  contraddittorio,  e  di  cui  sia  imprevedibilmente
 sopravvenuta   la   "irripetibilita'"   (id   est  impossibilita'  di
 rinnovazione dell'atto divenuto inutilizzabile).
   Di certo non puo' omettersi  di  considerare,  sul  punto,  che  al
 pubblico  ministero, attesa la fase processuale in cui il processo si
 trova, e'  ontologicamente  preclusa  la  possibilita'  di  chiedere,
 l'assunzione   della   prova   mediante   esperimento  dell'incidente
 probatorio, i cui presupposti di ammissione sono  stati  notevolmente
 ampliati solo con l'entrata in vigore della stessa legge n. 267/1997,
 all'art.  4,  comma  1,  ne'  appare  siffatta preclusione probatoria
 recuperabile in qualche modo dalla solerte  iniziativa  del  titolare
 della    pubblica   accusa,   non   essendo   neanche   astrattamente
 prospettabile l'esigenza di anticipare le forme di  assunzione  della
 prova  che gli sono proprie, al fine di evitare la perdita di un atto
 istruttorio, obiettivamente divenuto non rinnovabile;  ne  deriva  la
 necessita',   imposta   dal   principio   di  cui  all'art.  3  della
 Costituzione,  di   assimilare,   quanto   all'aspetto   della   loro
 utilizzabilita'  dibattimentale,  la  disciplina degli atti divenuti,
 come nel caso di  specie,  irrimediabilmente  irripetibili  a  quella
 degli  atti  divenuti imprevedibilmente irripetibili.  Cio' premesso,
 il dubbio poc'anzi evidenziato circa la compatibilita' del meccanismo
 delineato (dal legislatore della novella) ai principi costituzionali,
 sembra alimentato dalla stessa filosofia  codicistica  che  traspare,
 sin  dall'origine  del  varo del nuovo modulo processuale, in tutti i
 casi  di  imprevedibile  irripetibilita'  dell'atto,  ove  era  stato
 previsto  un meccanismo che consentisse il recupero dello stesso.  Si
 prevedeva, in altri termini, che nel caso in cui  (senza  che  taluna
 delle  parti vi avesse dato luogo) si fosse verificata una ipotesi di
 irripetibilita' del singolo atto processuale, in funzione probatoria,
 il metodo di  acquisizione  probatoria  principale  (improntato  alla
 oralita'   ed   al   contraddittorio),   per  motivi  contingenti  ed
 imprevedibili ex  ante,  faceva  posto  ad  un  metodo  di  recupero,
 eventuale e sussidiario, che seppur improntato a diverse connotazioni
 formative,  comunque  consentiva  di utilizzare le dichiarazioni gia'
 rese, conferendo poi  al  giudice  il  prudente  apprezzamento  delle
 stesse  in  funzione  decisoria.   Al contrario il recente intervento
 novellatore della disciplina dell'art.  513 c.p.p. ha direttamente ed
 esplicitamente introdotto un  meccanismo  di  blocco,  a  discrezione
 delle  parti,  del  regime  sussidiario  ed alternativo di formazione
 della   prova,   esperibile   nella   sola   evenienza   della    sua
 irripetibilita'   dibattimentale,   delineando  un  singolare  modulo
 acquisitivo fondato sulla subordinazione  al  consenso  di  tutte  le
 parti, compresi i soggetti a carico dei guali sono stati raccolti gli
 elementi  in  sede  di  indagini,  dell'assunzione  al  fascicolo del
 dibattimento  degli  elementi  di  prova  divenuti  imprevedibilmente
 "irripetibili"  (rectius  imprevedibilmente  "non  ripetuti").  Ed il
 sospetto di illegittimita' costituzionale del  menzionato  meccanismo
 di  recente  introdotto nella dizione normativa dell'art. 513 c.p.p.,
 non puo'  appalesarsi  manifestamente  infondato,  alla  stregua  dei
 principi  su  evidenziati,  sistematicamente riaffermati da non poche
 pronunce della Corte costituzionale.
   Con particolare riferimento, poi, alla conformita' della disciplina
 in parola al principio di ragionevolezza nell'esercizio  obbligatorio
 dell'azione  penale  (artt. 3 e 112 della Costituzione), non puo' che
 rimarcarsi che gli atti de quibus sono stati indubbiamente formati in
 assenza di contraddittorio ed in segreto, nel  corso  delle  indagini
 preliminari,  ma  si  tratta  pur  sempre  di atti (giova rimarcarlo)
 compiuti da un organo giudiziario,  pubblico,  indipendente,  la  cui
 azione   e'   orientata   solo   ed  esclusivamente  all'applicazione
 imparziale della legge  (sentenza  n.  88/1991);  aggiungasi  che  si
 tratta  di  atti  che  godono  di  particolari  garanzie  quanto alla
 rispondenza alla realta' del loro contenuto, trattandosi di  verbali,
 ossia  documenti  a  fede  privilegiata  fino  a querela di falso. Si
 consideri altresi che la  utilizzazione  delle  risultanze  emergenti
 dalle  indagini  (tra  le  quali vanno ricomprese, a pieno titolo, le
 dichiarazioni rese dai coimputati e dagli  imputati  in  procedimento
 connesso) non e' per il p.m. facoltativa, bensi' obbligatoria ex art.
 112  della Costituzione; per questo disporre che atti sui quali il ha
 fondato  il  doveroso  esercizio  dell'azione  penale  e  della   sua
 articolata   funzione,   guando   siano   divenuti  imprevedibilmente
 "irripetibili" (con conseguente esclusione  del  contraddittorio  non
 imputabile  al  medesimo) siano utilizzabili in dibattimento solo con
 il consenso di tutte le altre parti  processuali,  ivi  compresi  gli
 imputati  nei  confronti  dei quali il contenuto di tali atti ha gia'
 dispiegato, in base alla legge, i propri dannosi effetti, si atteggia
 come un irragionevole  ostacolo  al  naturale  esercizio  dell'azione
 penale  ed una insuperabile contraddizione ordinamentale. Risulta, in
 altri  termini,  gravemente  contraddittorio  da  un  lato  garantire
 l'effettiva   obbligatorieta'  dell'azione  penale  contro  eventuali
 negligenze o deliberate inerzie del p.m. conferendo al giudice per le
 indagini  preliminari  tutti  i  poteri  di  controllo  positivizzati
 nell'art.  409 c.p.p., e dall'altro consentire che l'utilizzo di atti
 delle  indagini,  sui  quali  si  e'  gia'   legittimamente   fondato
 l'esercizio  dell'azione  penale  sino a guel momento espletatasi - e
 che   siano   divenuti   imprevedibilmente    ed    irrimediabilmente
 irripetibili,  possa  essere  impedito  dall'imputato in procedimento
 connesso con una  nuda  ed  immotivata  manifestazione  di  volonta',
 concretizzatasi nell'espressione del rifiuto di rispondere.  Ne' puo'
 valere   a   fungere   da   riequilibratore   di   una  evidente  (ed
 irragionevole) sperequazione il rimedio positivizzato, fondato  sulla
 formazione   dell'accordo   delle  parti  circa  la  consistenza  del
 materiale probatorio  sottoponibile  alla  valutazione  del  giudice;
 basti  sul  punto  considerare  gli  effetti devastanti riconducibili
 all'eventualita' (invero non solo meramente astratta) in cui  sia  lo
 stesso  p.m.  (convinto di poter agire quale mera parte processuale e
 dimentico   dei   doveri   impostigli   per   legge)    ad    opporsi
 all'acquisizione  delle  dichiarazioni  rese,  in  sede  di  indagini
 preliminari, dai soggetti indicati dall'art.  210 c.p.p., e  divenuti
 imprevedibilmente  "irripetibili";  ci  si troverebbe, appare con fin
 troppa  evidenza,  in  presenza  di  un  obiettivo  ed   irreparabile
 annichilimento  del  diritto  di  difesa dell'imputato (art. 24 della
 Costituzione), nel caso in cui si concretizzasse nella impossibilita'
 processuale  di  acquisire  elementi  a  lui  favorevoli,  ed  ad  un
 insuperabile   "paradosso   processuale"  nell'evenienza  in  cui  il
 titolare della pubblica accusa operasse una specie  di  ritrattazione
 dell'esercizio    dell'azione    penale,    ove    dia   luogo   alla
 materializzazione del divieto investendo elementi posti a  fondamento
 della  tesi accusatoria.   Con riferimento specifico alla fattispecie
 concreta sottoposta al vaglio del tribunale, la ragionevolezza  della
 introduzione  del  delineato  ostacolo alla formazione del giudiziale
 convincimento dell'organo decidente si presta ad insuperabili censure
 nel momento  in  cui  ingenera  una  ingiustificabile  disparita'  di
 trattamento  tra  i  coindagati  dei  medesimi  fatti che siano stati
 sottoposti  al  giudizio  c.d  principale,  celebratosi  innanzi   al
 tribunale  di Castrovillari e gia' riesaminato in sede di giudizio di
 appello, e gli odierni indagati, le cui posizioni, solo a causa di un
 banale difetto di notifica, venivano stralciate dal procedimento gia'
 incardinatosi nei confronti di altri coimputati (che per esigenze  di
 celerita' nella sua definizione non poteva ulteriormente appesantirsi
 di ulteriori dilazioni) e giudicate a parte dal tribunale, riunito in
 diversa   composizione,   a   seguito  della  pronuncia  della  Corte
 costituzionale n. 371/1996.
   Concludendo il nuovo assetto normativo, se da  un  verso  viola  il
 diritto  di  difesa  qualora  nei confronti dei coimputati siano gia'
 state pronunciate sentenze definitive utilizzabili in  malam  partem,
 per   l'altro  lascia  all'imputato  eccessivo  margine  nel  momento
 dell'acquisizione della prova, innovazione quantomeno  singolare  che
 fortemente  e  negativamente  incide  sul doveroso accertamento della
 verita' "reale" e si proietta oltre i dichiarati fini  di  garantismo
 processuale.
     B)  Non  manifesta  infondatezza  della questione di legittimita'
 dell'art. 210, comma 4, in relazione all'art. 513 c.p.p. (cosi'  come
 novellato  dall'art.  1,  legge  n.  267 del 1997) nella parte in cui
 prevede che l'imputato in procedimento  connesso  (la  cui  posizione
 processuale  sia  stata  gia'  definita  con  sentenza  di  condanna,
 ancorche'  non  definitiva)  il  quale   abbia   reso   dichiarazioni
 direttamente  od  indirettamente  indizianti a carico di soggetti non
 presenti all'atto di assunzione davanti al p.m., possa avvalersi, nel
 dibattimento a  carico  di  quei  soggetti,  della  facolta'  di  non
 rispondere.
   Dal  tenore letterale della "novella" del 1997 emerge con chiarezza
 la scelta del legislatore (valorizzatrice, tra l'altro, del principio
 fondamentale della separazione, tendenzialmente netta, delle  diverse
 fasi  procedimentali,  con  la  correlativa distinzione dei regimi di
 efficacia  e  utilizzabilita'  degli  atti  in  esse   compiuti)   di
 "rafforzare"   (rectius:   riaffermare   nello   specifico  "contesto
 dibattimentale" di formazione del materiale probatorio, rilevante  ai
 fini  di  una  giusta  decisione giurisdizionale) la salvaguardia del
 contraddittorio,  sub specie di diritto all'esame e controesame, come
 inviolabile  diritto  delle  parti:  scelta  quest'ultima,  in  piena
 sintonia  con  lo  spirito  informatore  della  normativa processuale
 introdotta  nel  1988,  la  quale  -  nell'ottica   di   un   sistema
 tendenzialmente  accusatorio - ha appunto fatto proprio e valorizzato
 come principio cardine quello dell'oralita'  nella  formazione  della
 prova  in  dibattimento,  cioe'  nel  contraddittorio  delle parti di
 fronte al giudice investito della potesta' deliberativa, nel  merito,
 dell'ipotesi  accusatoria  formulata dal p.m. e portata al suo vaglio
 giurisdizionale; cio', in attuazione,  tra  l'altro,  delle  garanzie
 processuali  delineate  dall'art.  6,  comma  2,  lett.    d),  della
 Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo.
   Cio' posto, - e pur a voler condividere, in via  di  principio,  la
 ratio  ispiratrice  dell'intervento  novellatore  del legislatore del
 1997 - ritiene il Collegio  che  il  ''meccanismo''  processuale,  al
 riguardo,  prescelto  (limitatamente  alla posizione dell'imputato in
 procedimento  connesso),   e   cioe'   l'aver   ''condizionato''   la
 possibilita'  di lettura - e la conseguente acquisizione al fascicolo
 del dibattimento - delle dichiarazioni rese  ai  sensi  del  comma  1
 dell'art.  513  c.p.p.,  al previo accordo di tutte le parti presenti
 nel processo, appare irrazionale se rapportata al riconoscimento (non
 oggetto di alcuna ''contestuale'' modifica normativa) della facolta',
 in capo a detto soggetto - ancorche' regolarmente  comparso  in  sede
 dibattimentale  -  di  avvalersi,  comunque,  della  facolta'  di non
 rispondere.
   Ed   invero,   il   principale   motivo   di   non   ragionevolezza
 dell'intervento  (rectius:  del  mancato intervento ''sistematico'' e
 coordinato) normativo de quo, emerge in  maniera  alquanto  evidente,
 laddove  si  pongano a confronto due punti nodali del processo penale
 attualmente vigente (cosi'  come  ''costituzionalmente''  specificati
 dal  noto  intervento  della  Corte  costituzionale con la sentenza 8
 maggio-3 giugno 1992, n. 254):
     1) la valenza delle dichiarazioni rese al  p.m.  da  imputati  di
 reati  connessi  (contro  cui  si  sta attualmente procedendo o si e'
 proceduto in  un  giudizio  conclusosi  con  sentenza  di  condanna),
 circondata  da  un  alone  di diffidenza rispetto alla incondizionata
 utilizzazione che di esse faceva il codice abrogato (art. 465);
     2) la formazione della prova in dibattimento e, cioe',  (come  e'
 stato   efficacemente   sottolineato   da   autorevole  dottrina)  il
 "passaggio dal contraddittorio sulla prova al contraddittorio per  la
 prova".
   Orbene, sembra potersi desumere - alla stregua del tenore letterale
 del  nuovo  disposto normativo di cui si discute - che il legislatore
 abbia voluto chiarire (sostanzialmente recependo, in  parte  qua,  le
 numerose  perplessita'  suscitate  "a caldo" dalla citata sentenza n.
 254/1992)  l'effettivo  rilievo  da   attribuire   ai   surrichiamati
 principi,  nel  senso che sembra aver voluto attribuire prevalenza al
 principio, anch'esso di carattere  generale,  di  cui  all'art.  192,
 comma  3, c.p.p., secondo cui l'obbligo di valutare "le dichiarazioni
 rese  dal  coimputato  del  medesimo  reato  o  da  persona   in   un
 procedimento connesso ... unitamente agli altri elementi di prova che
 ne  confermano  l'attendibilita'"  si  ricollega  ad  un  criterio di
 garantismo nella  valutazione  di  queste  dichiarazioni,  ignoto  al
 vecchio rito, laddove si consentiva ex art.  465, comma 2, la lettura
 degli  interrogatori  degli  imputati  "di  reato  connesso" anche se
 condannati, senza  subordinarne  l'attendibilita'  alla  presenza  di
 ulteriori elementi probatori. Si evince, pertanto, l'intendimento del
 legislatore  di  contenere l'acquisizione di tali dichiarazioni (art.
 210, comma 3,  c.p.p.),  connotate  da  un  preconcetto  giudizio  di
 disvalore,  nell'alveo del processo accusatorio, rispetto al quale le
 letture dibattimentali, com e stato acutamente osservato, si  pongono
 "... con la rudezza di una eccezione deviante, agli antipodi del polo
 accusa  tono,  da  interpretare,  percio',  con il rigore imposto dai
 pericoli  di  ogni  ipotetico  abuso";  ne  deriva,  quale   naturale
 corollario  di  una  tale  precisa scelta legislativa di fondo (lo si
 ripete,  non  irrazionale),  che  -  persistendo,  tuttora,  per  gli
 imputati  di  un  reato  collegato  o  in  un  procedimento connesso,
 l'incompatibilita'   con   l'ufficio   di   testimone   (salvo   loro
 proscioglimento con sentenza divenuta irrevocabile ) - il giudice non
 puo' esercitare, pur nel tentativo di perseguire il lodevole scopo di
 acquisire   prezioso   materiale   probatorio  dalla  viva  voce  del
 coimputato, poteri diversi da  quelli  finalizzati  a  consentire  un
 esame  del  medesimo  nel  contraddittorio  delle  parti del processo
 (''surrogabili''  con  il   solo   "accordo/rinuncia"   delle   parti
 medesime).
   Un  profilo  di  irragionevolezza  (da ritenersi non manifestamente
 infondato) del nuovo meccanismo processuale, cosi' come delineato da1
 comma 2, ultimo periodo dell'art. 513 c.p.p. si coglie invece laddove
 si consideri che il legislatore - pur sostanzialmente confermando  di
 non   poter   rinunziare,   in  astratto,  al  contributo  probatorio
 proveniente  da  soggetti,  comunque  informati  sul  fatto   altrui,
 ''recuperandolo'' attraverso un esame a richiesta di parte o disposto
 d'ufficio  -  continua,  pero',  a subordinare l'acquisizione di tali
 dichiarazioni (art.  210,  comma  3,  c.p.p.)  all'assistenza  di  un
 difensore  di  fiducia  o  d'ufficio all'esame di detti soggetti e al
 loro  doveroso  avvertimento  della  "facolta'  di  non  rispondere",
 lasciando   cosi'   immutato   il  differente  regime  rispetto  alla
 disciplina prevista per l'escussione dei testimoni.    Si  vuole,  in
 altri   termini,  evidenziare  come  il  legislatore,  scegliendo  di
 mantenere ''intatta'' la  posizione  sui  generis  (sconosciuta  agli
 altri ordinamenti processual-penalistici) rivestita dagli imputati in
 un procedimento connesso, abbia, di fatto, creato sul punto un vero e
 proprio conflitto insanabile tra diritto di difesa ed esercizio della
 funzione  giurisdizionale.    Ed infatti, dando preminente rilievo al
 diritto al contraddittorio degli imputati, in uno  alla  salvaguardia
 dell'opzione  (di insostituibile matrice difensiva) di non sottoporsi
 all'esame dibattimentale, il legislatore ha finito  per  sacrificare,
 irragionevolmente,   il   principio   della   indefettibilita'  della
 giurisdizione: invero, non appare futuristico prevedere che  ciascuna
 parte  puo',  nel  concreto  dispiegarsi  della  dinamica processuale
 (sottesa a  precise  scelte  processuali  in  funzione  dei  fini  da
 conseguire), impedire  ad nutum l'utilizzabilita' delle dichiarazioni
 rese  dall'imputato  in  procedimento  connesso che a sua volta abbia
 voluto  discrezionalmente  avvalersi  della  facolta',  allo   stesso
 riconosciuta  ex  lege, di sottrarsi all'esame in contraddittorio con
 le parti del processo. Appare quindi evidente come siffatta evenienza
 finisca con l'arrecare ingiustificato  pregiudizio  al  principio  di
 indefettibilita'  di una giurisdizione penale che, per il tramite del
 meccanismo  dibattimentale, mira ad una piena conoscenza da parte del
 giudicante dei fatti  oggetto  di  accertamento  processuale,  ovvero
 della  cd. "verita' reale". Ed invero, non puo' non evidenziarsi come
 il rispetto  della  ratio  ispiratrice  della  novella  del  1997  si
 prospetti, in concreto, soltanto "formale", in quanto l'aver comunque
 "esentato"   l'imputato  in  procedimento  connesso  dall'obbligo  di
 rispondere alle domande in sede  dibattimentale,  fa  venir  meno  la
 condizione  di  un  effettivo  contraddittorio  nella  fase  genetica
 dell'acquisizione dei mezzi di prova rilevanti per la  decisione;  in
 tal  modo  realizzando  una  palese  contraddizione,  al di la' degli
 stessi  lodevoli  intenti  della  riforma,  di  principi   ugualmente
 meritevoli  di  tutela,  che  andavano  ragionevolmente contemperati.
 Cio', a fortiori nelle ipotesi in cui si sia notevolmente  attenuato,
 fino addirittura a venir meno un interesse concretamente apprezzabile
 dell'imputato di reato connesso di sottrarsi al contraddittorio delle
 parti,  avendo  il  medesimo  gia'  "definito",  prima  del  concreto
 esperimento dell'esame, la sua posizione processuale nell'ambito  del
 procedimento connesso. In altri termini il tribunale si chiede se non
 sia   manifestamente   irragionevole  che  debba  essere  considerato
 prevalente l'interesse dell'imputato di reato connesso, che  ha  gia'
 reso dichiarazioni auto nonche' etero indizianti e che sia gia' stato
 destinatario  di  sentenza  di  condanna  (ancorche' non definitiva),
 rispetto a quello del coimputato che e' chiamato a difendersi per  la
 prima   volta   in   dibattimento,  anche  in  ordine  alle  predette
 dichiarazioni.
   Non puo', infine, non evidenziarsi come la "integrazione" normativa
 sopra prospettata, quale soluzione alternativa per il superamento del
 dubbio  di   illegittimita'   costituzionale   creato   dal   mancato
 coordinamento  dell'intervento  novellatore  del  1997  con il quadro
 ''sistematico'' di riferimento, consenta in ogni caso la salvaguardia
 dell'esigenza ("positivizzata" nel nuovo testo dell'art.  513  c.p.p.
 di  restringere  la  lettura dei verbali delle dichiarazioni, rese ai
 sensi del primo comma del citato art. 513, all'esistenza di "fatti  o
 circostanze   imprevedibili"   di  natura  effettivamente  estrinseca
 rispetto alla singola "fonte di prova" (di per se' non irripetibile),
 e cioe', non necessariamente  condizionati  dalla  mera  volonta'  di
 rifiuto  di rispondere da parte del dichiarante ex art. 210,  comma 4
 c.p.p.; in uno con il  gia'  riconosciuto  allargamento  dei  confini
 dell'incidente  probatorio  per consentire l'acquisizione di elementi
 di rilevanza probatoria con la  garanzia  del  contraddittorio  delle
 parti.
                               P. Q. M.
   Visto  l'art.  23  della  legge 11 marzo 1953, n. 87, ritenutane la
 rilevanza e la non manifesta infondatezza, solleva:
     A) per violazione degli artt. 3, 24,  comma  secondo,  25,  comma
 secondo,  101,  102  comma  primo,  111  e  112  della  Costituzione,
 questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p. comma 2
 c.p.p., come sostituito dall'art. 1 della legge n. 267  del  1997  (e
 sostanzialmente  richiamato  dall'art. 6 della medesima legge), nella
 parte in cui subordina soltanto all'accordo delle  parti  la  lettura
 dei  verbali  contenenti  le dichiarazioni rese al p.m. dalle persone
 indicate nell'art.  210, qualora si siano avvalse della  facolta'  di
 non rispondere;
     B)  per  violazione  agli  artt.  3, 24, comma secondo, 25, comma
 secondo,  101,  102,  comma  primo,  111  e  112  della  Costituzione
 questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 210, comma 4, in
 relazione all'art. 513 c.p.p.,  cosi'  come  modificato  dall'art.  1
 della  legge  n.  267/1997,  nella  parte  in  cui prevede, anche per
 l'imputato in procedimento connesso, la cui posizione processuale sia
 stata  gia'  definita  con  sentenza  di  condanna,   ancorche'   non
 definitiva,  ed  il  quale  abbia  reso  dichiarazioni direttamente o
 indirettamente indizianti a carico di soggetti non presenti  all'atto
 di  assunzione  davanti  al  p.m.,  la facolta' di non rispondere nel
 dibattimento a carico dei soggetti medesimi;
   Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla    Corte
 costituzionale;
   Sospende il processo in corso di celebrazione;
   Ordina  che  la  presente  ordinanza venga notificata, a cura della
 Cancelleria, al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata al
 Presidente del Senato della Repubblica ed al Presidente della  Camera
 dei deputati.
     Castrovillari, addi' 9 gennaio 1998
                       Il presidente: Veneziano
                                               I giudici: Notaro-Tetto
 98C0179