N. 219 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 dicembre 1997

                                N. 219
  Ordinanza  emessa  il 17 dicembre 1997 dal tribunale di Verbania nel
 procedimento penale a carico di Nigro Giuseppe
 Processo penale  -  Dibattimento  -  Esame  di  persona  imputata  in
    procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere
    -  Lettura  dei verbali contenenti le dichiarazioni rese nel corso
    delle indagini preliminari -  Preclusione  per  il  giudice  salvo
    l'accordo   delle  parti  -  Irragionevolezza  posta  la  prevista
    utilizzabilita' di tali  precedenti  dichiarazioni  nella  diversa
    ipotesi  in  cui  non  sia  possibile  ottenere  la  presenza  del
    dichiarante oppure procedere all'esame in altro modo -  Diversita'
    di  regime  rispetto  a quello delle dichiarazioni del testimone -
    Lesione del  diritto  di  difesa  -  Violazione  dei  principi  di
    indipendenza del giudice e di obbligatorieta' dell'azione penale.
 (C.P.P.  1988,  art.  513,  comma  2, modificato dalla legge 7 agosto
    1997, n. 267, art. 1).
 (Cost., artt. 3, 24, 25, 101 e 112).
(GU n.14 del 8-4-1998 )
                             IL TRIBUNALE
   Ha pronunciato la seguente ordinanza nel  procedimento  penale  nei
 confronti di Nigro Giuseppe, imputato dei reati di cui al decreto che
 dispone  il  giudizio  sulla questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 513, comma 2 c.p.p., nella  formulazione  risultante  dalle
 modifiche  operate  con  l'art.  1,  legge 7 agosto 1997, n. 267, per
 violazione degli artt. 2, 3, 24, 25, 101 e  112  della  Costituzione,
 sollevata dal p.m. all'udienza del 2 dicembre 1997.
                            P r e m e s s a
   Il  presente  procedimento  trae origine da una piu' vasta indagine
 coordinata  dalla  procura  distrettuale   di   Torino   sviluppatasi
 attraverso  appostamenti  ed  osservazioni  sull'immobile  abitato da
 cittadini   albanesi   e   dall'odierno   imputato,   sospettati   di
 associazione  per  delinquere  avente ad oggetto traffici di sostanze
 stupefacenti e sfruttamento della prostituzione.
   Nell'ambito   di   tali   indagini,   condotte   anche   attraverso
 intercettazioni  telefoniche, emergevano indizi di reita' a carico di
 Nigro Giuseppe e del fratello Nigro Santino per detenzione e  spaccio
 di  sostanze  stupefacenti  (eroina  e  cocaina) ai tossicodipendenti
 della zona.
   In  particolare  venivano   accertati   frequenti   contatti,   sia
 telefonici (intercettati) sia personali (videoripresi), tra l'odierno
 imputato,  il  fratello  Santino,  Torciere Antonio e Iocca Giovanna,
 questi ultimi due noti agli investigatori come tossicodipendenti.
   Come il tribunale ha potuto apprendere dalla relazione introduttiva
 svolta dal p.m., Iocca  Giovanna,  anch'essa  indagata  nel  presente
 procedimento  e la cui posizione e' stata successivamente archiviata,
 riconosceva nel corso di un interrogatorio che i contatti  intercorsi
 e  documentati  riguardavano  cessioni  di  eroina, acquistata da lei
 stessa e dal suo convivente Torciere per uso personale.
   In  relazione  alle emergenze investigative veniva emessa anche nei
 confronti dell'odierno imputato dal g.i.p. del  tribunale  di  Torino
 ordinanza di custodia cautelare in carcere, tuttora in esecuzione.
   Con  decreto  in data 24 settembre 1997 veniva disposto il rinvio a
 giudizio del Nigro, mentre il fratello Santino veniva  giudicato  con
 rito abbreviato e condannato con sentenza tuttora gravata di appello.
   Nel  corso  del  dibattimento  venivano escussi i testi addotti dal
 p.m., i quali confermavano l'attivita' di indagine  sopra  descritta,
 illustrando  la  documentazione  fotografica ed audiovisiva acquisita
 agli atti.
   All'udienza  dibattimentale  del  2  dicembre  1997  veniva  infine
 sentita ai sensi dell'art. 210 c.p.p. ed a seguito di accompagnamento
 coattivo  Iocca  Giovanna,  la  quale  dichiarava  di avvalersi della
 facolta' di non rispondere.
   Poiche' la difesa non prestava  il  consenso  all'acquisizione  del
 verbale  delle  dichiarazioni  rese  dalla  stessa  nel  corso  delle
 indagini  preliminari,  il  p.m.  chiedeva  a  questo  tribunale   di
 sollevare  questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 513
 comma 2 c.p.p. nella sua nuova formulazione.
                            Sulla rilevanza
   Tenuto  conto  della   gia'   integralmente   espletata   attivita'
 istruttoria,  delle  risultanze  dalla stessa emerse nonche' dei dati
 rappresentati dal p.m. nel corso della relazione introduttiva, appare
 evidente  la  rilevanza  della  dedotta  questione  di   legittimita'
 costituzionale,   trattandosi   di   processo  nel  quale  l'impianto
 accusatorio,  per  quanto  riguarda  il  capo   B)   dell'imputazione
 (reiterate  cessioni di eroina da parte dell'imputato in concorso con
 il fratello Santino  a  Iocca  Giovanna  ed  al  convivente  Torciere
 Antonio)  poggia  in  larga parte sulle dichiarazioni dell'acquirente
 Iocca, che trovasi nelle condizioni descritte dall'art. 210 c.p.p.
   Tali  dichiarazioni  forniscono   infatti,   nella   prospettazione
 dell'accusa,  la  chiave  di  lettura di tutte le restanti risultanze
 dibattimentali     (intercettazioni     telefoniche,     pedinamenti,
 osservazioni,   documentazione   fotografica,   videoregistrazioni  e
 relative testimonianze) che tratteggiano un quadro indiziario di  per
 se'  insufficiente  ad  assurgere a piena prova della responsabilita'
 dell'imputato se non unitamente alle dichiarazioni  della  coindagata
 in  una valutazione complessiva secondo i criteri di cui ai commi 2 e
 ss. dell'art. 192 c.p.p.
   Tali  dichiarazioni,  in  applicazione  dell'impugnata  norma,  non
 possono   allo   stato  trovare  ingresso  nel  dibattimento,  stante
 l'esercizio, da  parte  della  dichiarante,  della  facolta'  di  non
 rispondere   e   l'assenza   dell'accordo   delle   parti  in  ordine
 all'acquisizione dei verbali delle dichiarazioni rese dalla  medesima
 nella fase delle indagini preliminari.
                    Sulla non manifesta infondatezza
   Condividendo  pienamente  le  valutazioni  gia'  espresse  da altri
 giudici remittenti, ed in particolare dal tribunale di Milano  -  che
 ha  sollevato identica questione con ordinanza datata 24 ottobre 1997
 -, ritiene il Collegio che nella norma impugnata si appalesi un vizio
 di manifesta irragionevolezza rispetto ai principi costituzionali  in
 materia  di  acquisizione  e utilizzabilita' della prova dalla stessa
 Corte  costituzionale  piu'  volte  ribaditi   e   sintetizzati   nel
 "principio di conservazione della prova".
   Il   dato   da  cui  non  puo'  prescindere  la  valutazione  della
 costituzionalita' o meno della norma e' che l'art. 513 comma 2 c.p.p.
 nella sua nuova formulazione viene  ad  escludere  dal  novero  delle
 prove  legittimamente acquisibili (e quindi utilizzabili ex artt. 191
 e 526 c.p.p.) le dichiarazioni dei coindagati che  si  siano  avvalsi
 della   facolta'   di  non  rispondere,  con  l'unica  eccezione  del
 meccanismo di consenso ivi previsto.
   Altro dato fattualmente incontrovertibile e' che l'esercizio  della
 predetta  facolta'  da parte di soggetti che nel corso delle indagini
 della  stessa  non  si   erano   avvalsi   determina   un   caso   di
 irripetibilita', oggettiva ed imprevedibile, dell'atto.
   Inevitabile  appare  dunque  il  richiamo a tutte le pronunce della
 Corte  costituzionale  che  in  relazione   ad   analoghi   casi   di
 irripetibilita'  hanno affermato la legittimita' dell'acquisizione ed
 utilizzazione delle prove formatesi in sede di indagini  preliminari,
 ancorandola al principio costituzionale della conservazione dei mezzi
 di prova.
   In particolare si richiamano:
     sentenza  Corte  costituzionale  n.  254  del 1992, attraverso la
 quale era stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale  dell'art.
 513  comma 2 c.p.p. nella formulazione allora vigente "nella parte in
 cui non prevede che il giudice, sentite le parti, dispone la  lettura
 dei  verbali  delle  dichiarazioni  ...  rese  dalle persone indicate
 nell'art.  210 c.p.p., qualora queste si avvalgano della facolta'  di
 non rispondere".
   In  quella  occasione,  la  Corte  osservo'  che il principio guida
 dell'oralita' deve essere contemperato con l'esigenza di  evitare  la
 perdita,  ai  fini  della  decisione,  di  quanto acquisito prima del
 dibattimento e che in tale sede sia irripetibile, rimarcando che gia'
 la   legge   delega   ricomprendeva   in   tale    categoria    anche
 l'indisponibilita' dell'imputato all'esame;
     sentenza   n.   255/1992   nella   quale   la   Corte   attribui'
 esplicitamente rilievo costituzionale al "principio di  conservazione
 della   prova",   osservando   che   "...   il   sistema  accusatorio
 positivamente   instaurato   ha   prescelto   la    dialettica    del
 contraddittorio    dibattimentale    quale    criterio    rispondente
 all'esigenza di  ricerca  della  verita';  ma  accanto  al  principio
 dell'oralita'   e'   presente,  nel  nuovo  sistema  processuale,  il
 principio  della  non  dispersione  degli  elementi  di   prova   non
 compiutamente  (o  non  genuinamente) acquisibili con il metodo orale
 ... ";
     sentenza n. 179/1994, relativa all'ipotesi, invero in tutto e per
 tutto analoga a quella che ci occupa, dell'esercizio  della  facolta'
 di  astenersi dal deporre, riservata dall'art. 199 c.p.p. ai prossimi
 congiunti dell'imputato, con cui la Corte ha  confermato  il  proprio
 orientamento.
   Muovendo  da  una  fattispecie  concreta in relazione alla quale il
 giudice a quo  aveva  sollevato  la  questione  di  costituzionalita'
 reputando non applicabile la disciplina prevista dall'art. 512 c.p.p.
 nel  caso di prossimo congiunto che, dopo avere reso dichiarazioni in
 sede di indagini preliminari, si avvalga della citata  facolta'  solo
 in sede dibattimentale, la Corte dichiarava la questione non fondata,
 ricorrendo  ad  una  pronuncia  cd.  "interpretativa di rigetto", che
 concludeva  nel  senso  che  "la  testimonianza  cosi'  acquisita  e'
 legittimamente,   e   soprattutto,   stabilmente  acquisita"  ed  "e'
 certamente fuor di dubbio che l'acquisizione della prova testimoniale
 legittimamente assunta non puo' essere condizionata dall'eventualita'
 di  una  successiva  invalidazione da parte del teste, nel caso di un
 suo tardivo  esercizio  della  facolta'  di  astensione:  non  esiste
 nell'ordinamento    alcuna    disposizione    che    autorizzi    una
 interpretazione del genere".
   Nell'impostazione  del  giudice  delle  leggi,  dunque,   in   casi
 consimili,  e  sebbene  in  presenza dell'esercizio di un diritto, si
 determina  una  "oggettiva  e  non  prevedibile"  impossibilita'   di
 ripetizione dell'atto dichiarativo.
   La  conclusione  cui la citata sentenza perviene (ossia la lettura,
 ex art. 512 c.p.p., delle dichiarazioni in precedenza rese)  si  pone
 in  linea  con quello che dev'essere senz'altro definito un caposaldo
 della elaborazione della giurisprudenza costituzionale dopo l'entrata
 in vigore del codice di procedura penale del 1988, secondo  il  quale
 occorre   "contemperare   il  rispetto  del  principio  dell'oralita'
 coll'esigenza di evitare la perdita,  ai  fini  della  decisione,  di
 quanto  acquisito  prima  del  dibattimento e che sia irripetibile in
 tale sede".
   Del resto, diversamente  opinando,  l'oralita'  si  atteggerebbe  a
 principio  fine  a  se stesso, al quale verrebbe sacrificato lo scopo
 essenziale del processo penale,  che  consiste  nella  ricerca  della
 verita' e nella pronuncia di una giusta decisione.
   Proprio  l'elementare  principio della non dispersione dei mezzi di
 prova, posto a base delle molte sentenze della Corte  costituzionale,
 ha imposto al legislatore di prevedere e rendere possibile la lettura
 di   atti   formati   nelle   indagini   preliminari,  allorche'  per
 qualsivoglia ragione (che puo' consistere anche nel puro arbitrio del
 soggetto) l'atto non sia ripetibile in dibattimento (v. art.  512-bis
 c.p.p.).
   La  nuova formulazione dell'art. 513 comma 2 c.p.p. che, come sopra
 evidenziato, pone uno sbarramento all'acquisizione di atti formati in
 fase di indagini preliminari e successivamente divenuti irripetibili,
 introduce una evidente eccezione ai principi enucleati dalla Corte  e
 teste'  ricordati, ed impone pertanto un'attenta verifica della ratio
 e  della  logica  che  giustifichino  la  diversita'  di  trattamento
 rispetto alle ipotesi consimili.
   Sicuramente  non  si  tratta della tutela del diritto di difesa del
 coindagato: l'acquisizione di  quanto  dallo  stesso  precedentemente
 dichiarato  non contravviene infatti al principio del nemo tenetur se
 detegere, che esplica i suoi effetti nel momento dell'esercizio della
 libera scelta di parlare o  tacere  e  non  si  estende  alla  libera
 disponibilita'  del  materiale  fornito  al  procedimento:  tanto che
 l'ultima parola in merito all'acquisizione delle dichiarazioni  dallo
 stesso  precedentemente  rese  non spetta a lui bensi' alle parti del
 processo a cui egli e' estraneo.
   Del   resto,   nessuna    conseguenza    deriva    al    coindagato
 dall'utilizzazione  delle  sue  dichiarazioni nei confronti di terzi,
 mentre invece nel processo che lo  riguarda  direttamente  le  stesse
 sono,  proprio  ai sensi dell'art. 513 primo comma c.p.p., pienamente
 utilizzabili:  disciplina che risulterebbe palesemente illogica se la
 ratio della norma in esame fosse la tutela del coindagato.
   Va altresi' esclusa, quale ratio della norma, la tutela del diritto
 di difesa dell'imputato.
   A  tal  proposito  va  osservato  che  nella maggior parte dei casi
 l'esame del coindagato  e'  richiesto  come  prova  d'accusa,  e  che
 pertanto  il  meccanismo  previsto dall'art. 513 comma 2 c.p.p. viene
 sostanzialmente   a   "compensare"   la   mancata   possibilita'   di
 controesaminare  il dichiarante, con cio' adombrando, limitatamente a
 tale  ipotesi,  l'imprescindibilita'  del  contraddittorio  in   sede
 dibattimentale.
   Il  principio  del  contraddittorio,  tuttavia,  non  trova  nessun
 diretto addentellato nella  nostra  Costituzione  ed  in  particolare
 nell'art.    24  della Costituzione, essendo invece espressione della
 preferenza accordata  dal  legislatore  al  rito  accusatorio  ed  al
 connesso  principio di oralita', intesi come strumento piu' idoneo al
 raggiungimento dell'unico fine del processo penale, che e'  e  rimane
 l'accertamento della verita'.
   La  strumentalita'  del  principio  dell'oralita'  rispetto al fine
 della ricerca  della  verita',  a  cui  e'  intimamente  connesso  il
 principio  della  conservazione  della  prova,  si appalesa del resto
 evidente in tutte quelle  altre  ipotesi  in  cui  la  necessita'  di
 acquisire  l'atto  irripetibile  sacrifica  il controesame e rispetto
 alle quali la norma in oggetto si pone in netta antitesi logica.
   L'antitesi e'  tanto  piu'  evidente  considerando  che  lo  stesso
 legislatore  del  nuovo  art.  513 c.p.p. da una parte ha recepito il
 principio   della   "conservazione   della       prova"    prevedendo
 l'utilizzabilita'  tout  court  delle  dichiarazioni  rese in fase di
 indagini preliminari dal coindagato nei  casi  di  cui  al  comma  2,
 seconda  alinea e dall'altra lo ha disatteso prevedendo la necessita'
 dell'accordo delle parti qualora il coindagato si presenti in udienza
 e rifiuti di rispondere.
   Ulteriore profilo di irragionevolezza si ravvisa nel raffronto  con
 la  disciplina prevista dagli artt. 512 e 512-bis c.p.p., riguardanti
 le dichiarazioni del testimone, rispetto alle quali nessun diritto al
 controesame puo' essere invocato per impedirne l'acquisizione in caso
 di irripetibilita'.
   La diversita'  di  disciplina  non  puo'  peraltro  trovare  alcuna
 plausibile  giustificazione  nella  diversa posizione processuale dei
 dichiaranti, che si riverbera nel diverso  grado  di  attendibilita':
 tale    ultimo    elemento    attiene    infatti   al   momento   non
 dell'acquisizione, ma della valutazione della prova, ed e' gia' stato
 risolto dal  legislatore  con  l'attribuzione  di  diversa  pregnanza
 probatoria alle due dichiarazioni.
   La  pur  sommaria  analisi sin qui condotta in ordine alla modifica
 dell'art. 513 c.p.p. se da un lato non consente  di  individuare  una
 logica  e  ragionevole  eccezione  al  principio costituzionale della
 conservazione della prova, dall'altro e contestualmente  evidenzia  e
 mette  a  nudo  il  vero principio sotteso alla riforma: quello della
 disponibilita' della prova in capo ad una parte processuale.
   Tale  potere  dispositivo,  tuttavia,  non  solo  non  trova  alcun
 riferimento  nella Carta costituzionale, ma anzi si pone in contrasto
 con i principi del giusto processo, dell'obbligatorieta'  dell'azione
 penale  e  della  conseguente  indisponibilita'  della  res iudicanda
 sanciti dagli artt.  101 e 112 della Costituzione.
   Invero  la  Consulta  ha piu' volte avuto modo di precisare come il
 potere di decisione del giudice del  merito  della  causa  non  possa
 essere  vincolato dall'esercizio meramente discrezionale di un potere
 delle parti, ed alle scelte  di  carattere  processuale,  in  ipotesi
 anche immotivate, di costoro.
   E'  evidente,  infatti,  come il precetto di cui all'art. 101 comma
 secondo della Costituzione precluda una  esasperata  ed  estremistica
 applicazione  del  principio  dispositivo  nel  processo  penale,  in
 ragione  dell'indisponibilita'  degli  interessi  pubblici  e   delle
 posizioni  soggettive  che  di  questo  costituiscono  l'oggetto;  la
 disponibilita'   della   prova   renderebbe   infatti    disponibile,
 indirettamente, la stessa res iudicanda.
   Come  gia'  osservato  e  chiaramente affermato nella nota sentenza
 (sempre appartenente al genus delle interpretative di rigetto:  Corte
 costituzionale  n.  111/1993)  relativa  alla  definizione del potere
 istruttorio suppletivo riservato al giudice dibattimentale  dall'art.
 507  c.p.p.,  nel  nuovo  codice  di  rito  "il  metodo  dialogico di
 formazione della prova e' stato, invero,  prescelto  come  metodo  di
 conoscenza  dei fatti ritenuto maggiormente idoneo al loro per quanto
 piu' possibile pieno accertamento,  e  non  come  strumento  per  far
 programmaticamente  prevalere una verita' formale risultante dal mero
 confronto dialettico fra le parti sulla verita' reale: altrimenti, ne
 sarebbe risultata tradita la funzione conoscitiva del  processo,  che
 discende dal principio di legalita' e da quel suo particolare aspetto
 costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale".
   Se  e'  vero  che  un  pieno ed arbitrario potere dispositivo della
 prova  nel  processo  e'  negato  alle  parti,  a   maggior   ragione
 ingiustificabile  appare  l'attribuzione  al  coindagato (estraneo al
 processo) della possibilita',  di  fatto,  di  innescare  o  meno  il
 presupposto  per  l'esercizio  del  potere  dispositivo  della parte,
 possibilita'  che  astrattamente   potrebbe   anche   dipendere   non
 dall'espressione  di  un  diritto  del  coindagato,  ma  dal suo mero
 arbitrio.
   ll riconoscimento del potere dispositivo ad una  parte  processuale
 pone ulteriori dubbi di costituzionalita' sotto altri profili.
   Far  dipendere  l'acquisizione dell'atto irripetibile dal "consenso
 delle parti" pare infatti irrazionale nel caso in  cui  gli  imputati
 siano piu' di uno.
   Se  per  "consenso  delle  parti"  si  intende  infatti - come pare
 preferibile - accordo tra tutti i soggetti  processuali,  laddove  vi
 sia  anche  un unico dissenso all'acquisizione si potrebbe verificare
 una  ingiustificata  e  grave   lesione   del   diritto   di   difesa
 dell'imputato  che  abbia  invece  interesse  all'acquisizione  delle
 dichiarazioni del coindagato; se invece per "consenso delle parti" si
 fa riferimento solo  all'accordo  tra  p.m.  e  singolo  imputato  (a
 prescindere   dalle   determinazioni   degli  altri)  si  verrebbe  a
 legittimare   l'emanazione    di    sentenze    necessariamente    ed
 intrinsecamente  contraddittorie rispetto all'accertamento del fatto,
 che verrebbe a diversamente  configurarsi  a  seconda  delle  diverse
 posizioni processuali esaminate.
   Di  conseguenza il processo verrebbe di fatto a perseguire non piu'
 la  funzione  di   accertamento   della   verita',   ma   quella   di
 regolamentazione delle diverse verita' processuali.
   Un  conto  e' infatti creare sbarramenti normativi all'acquisizione
 di prove che, poiche' illegittimamente formate, potrebbero deviare il
 giudizio  da  un  corretto  accertamento  della  verita'  dei  fatti,
 pericolo   che   le   regole   processuali   sull'acquisibilita'   ed
 utilizzabilita' delle prove mirano appunto ad evitare;  un  conto  e'
 invece  ritenere  che  prove  aventi  il  crisma della legittimita' e
 astrattamente  acquisibili  -  come  appunto  le  dichiarazioni   del
 coindagato  -  possano  valere  solo  nei  confronti  di  un soggetto
 processuale e non dell'altro.
   E' infatti evidente che in tal caso ci si trovi di fronte non  gia'
 ad elementi probatori difformi dai parametri indicati dal legislatore
 per l'accertamento della verita', ma bensi' ad una verita' (accertata
 alla  stregua  di  tutti  quei  parametri)  di cui non si puo' tenere
 conto, e  quindi  ad  una  inammissibile  divaricazione  tra  verita'
 formale e verita' sostanziale.
                                P. Q. M.
     Visti  gli  artt. 134 della Costituzione, 23 e ss. legge 11 marzo
 1953 n. 87;
   Ritenuta rilevante e non  manifestamente  infondata,  in  relazione
 agli  artt.  3, 24, 25, 101 e 112 della Costituzione, la questione di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  513  comma  2  c.p.p.   come
 modificato dall'art. 1 legge 7 agosto 1997, n. 267;
   Dispone  la  trasmissione  degli  atti  del procedimento alla Corte
 costituzionale;
   Manda  alla  cancelleria  per  la  notificazione   della   presente
 ordinanza  al  Presidente  del  Consiglio dei Ministri nonche' per la
 comunicazione  ai  Presidenti  delle  Camere  del  Parlamento   della
 Repubblica;
   Sospende il dibattimento fino all'esito del giudizio incidentale di
 legittimita' costituzionale.
     Verbania, addi' 17 dicembre 1997
                        Il presidente: Riccobono
                                           I giudici: Laub - Calzolari
 98C0336