N. 342 ORDINANZA (Atto di promovimento) 28 ottobre 1997- 29 aprile 1998
N. 342 Ordinanza emessa il 28 ottobre 1997 (pervenuta alla Corte costituzionale il 29 aprile 1998) dal tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di Tresca Alexander Processo penale - Dibattimento - Esame di persona imputata in procedimento connesso che abbia reso dichiarazioni indizianti al pubblico ministero - Possibilita di avvalersi della facolta' di non rispondere - Conseguente inutilizzabilita' di dette dichiarazioni - Irragionevolezza con incidenza sul diritto di difesa - Disparita' di trattamento tra le parti - Lesione del principio di indefettibilita' della funzione giurisdizionale e di obbligatorieta' dell'azione penale incidenza sul principio del libero convincimento del giudice. In subordine al rigetto della prima questione: processo penale - Dibattimento - Esame di persona imputata in procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere - Lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari - Preclusione per il giudice salvo l'accordo delle parti - Irragionevolezza - Disparita' di trattamento tra le parti - Lesione del principio di indefettibilita' della funzione giurisdizionale e di obbligatorieta' dell'azione penale - Incidenza sul principio del libero convincimento del giudice. In subordine all'accoglimento della prima questione: processo penale - Dibattimento - Esame di persona imputata in procedimento connesso - Rifiuto di rispondere - Lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari - Preclusione per il giudice salvo l'accordo delle parti - Irragionevolezza - Disparita' di trattamento tra le parti - Lesione del principio di indetettibilita' della funzione giurisdizionale e di obbligatorieta' dell'azione penale - Incidenza sul principio del libero convincimento del giudice. (C.P.P. 1988, artt. 210, comma 4, 513, comma 2, sostituito dalla legge 7 agosto 1997, n. 267, art. 1). (Cost., artt. 3, 24, secondo comma, 25, secondo comma, 101, 102, primo comma, 111 e 112).(GU n.20 del 20-5-1998 )
IL TRIBUNALE Decidendo nel processo penale n. 3576/1996 r.g. a carico di Tresca Alexander, imputato dei reati di cui agli artt. 74, comma 2, d.P.R. n. 309/1990 (capo c); artt. 110, 81 cpv c.p., artt. 73, comma 4, 80, comma 2, d.P.R. n. 309/1990 (capo d); art. 81 cpv c.p., artt. 2, 4, 7, legge n. 859 del 1967, art. 23, commi 3 e 4, legge n. 110 del 1975; O s s e r v a 1. - Il 14 maggio 1997 il tribunale, sentite le richieste delle parti, emetteva ordinanza di ammissione delle prove, tra le quali l'esame degli imputati in procedimento connesso Scisciola Salvatore, Mori Vincenzo, Massa Bruno, Vaglica Sergio, Santu Raimondo, Falcetta Marco e Di Gaetano Antonino e Leonardi Adamo. Alla stessa udienza si presentava per l'esame l'imputato in procedimento connesso Mori Vincenzo che si sottoponeva ad esame. Il 22 ottobre scorso venivano citati e si presentavano gli imputati in procedimento connesso Massa, Scisciola, Vaglica, Santu, Falcetta, Di Gaetano, dei quali solo il primo accettava di sottoporsi ad esame. Il pubblico ministero chiedeva acquisirsi le dichiarazioni di tutti gli imputati in procedimento connesso che si erano avvalsi della facolta' di non rispondere, ad eccezione di quelle del Di Gaetano, in ordine alle quali si riservava la richiesta di lettura; la difesa, dal canto suo, prestava il consenso all'acquisizione delle dichiarazioni del Falcetta, del Santu, del Leonardi, mentre non prestava il consenso alla lettura ed acquisizione delle dichiarazioni dello Scisciola. All'udienza odierna il pubblico ministero chiedeva la lettura delle dichiarazioni rese avanti al suo ufficio dal Di Gaetano e la difesa non prestava il consenso. 2. - Rilevanza della questione di legittimita' concernente l'art. 513 c.p.p. come sostituito dall'art. 1 legge n. 267 del 7 agosto 1997. Risulta evidente, nel caso di specie, la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale del disposto dell'art. 513, comma 2, c.p.p. come sostituito dall'art. 1 legge n. 267 del 1997, poiche' l'esame dello Scisciola e del Di Gaetano e' gia' stato ammesso dal tribunale che ha ritenuto rilevante detto mezzo di prova - atteso che, nella prospettazione accusatoria, le dichiarazioni del predetto sono dedotte a conforto di quelle del Massa e del Mori - e la norma in questione subordina l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento delle dichiarazioni dei predetti - che si sono avvalsi della facolta' di non rispondere - al consenso delle parti, cioe' al verificarsi di una condizione la cui previsione normativa e' appunto oggetto del sospetto di illegittimita'. Pervero, la rilevanza della questione si apprezza non solo relativamente alle dichiarazioni degli imputati in procedimento connesso rispetto alle quali il consenso non e' stato prestato, ma anche in relazione a quelle rispetto alle quali il consenso e' intervenuto, laddove si consideri che proprio l'esistenza di tale consenso costituisce, in base al disposto del comma 2 dell'art. 513 c.p.p., condicio sine qua non della lettura e dell'acquisizione dei relativi verbali. Ritiene tuttavia questo Collegio che, a fronte delle eccezioni riguardanti l'art. 513, comma 2, c.p.p., se ne ponga un'altra, di carattere preliminare, circa la conformita' al dettato costituzionale degli artt. 210, comma 4, e 513 c.p.p. nella parte in cui attribuiscono, alle persone indicate ai commi 1 e 6 dello stesso art. 210 c.p.p., la facolta' di non rispondere alle domande loro rivolte dalle parti in dibattimento con riferimento a fatti a carico degli imputati descritti dalle predette persone in dichiarazioni rese al pubblico ministero nel corso delle indagini. Tale questione e' rilevante nel presente processo poiche', come si e' detto, i succitati imputati in procedimento connesso si sono avvalsi di tale facolta'. 3. - Interpretazione dell'art. 513 c.p.p. come sostituito dall'art. 1 della legge n. 267 del 1997 e dell'art. 6, commi 1 e 2 della stessa legge. L'art. 513 c.p.p. come sostituito dall'art. 1 legge n. 267 del 1997 dispone: "1) Il giudice, se l'imputato e' contumace o assente ovvero rifiuta di sottoporsi all'esame, dispone, a richiesta di parte che sia data lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dall'imputato al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare, ma tali dichiarazioni non possono essere utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso. 2) Se le dichiarazioni sono state rese dalle persone indicate nell'art. 210, il giudice, a richiesta di parte, dispone, secondo i casi, l'accompagnamento coattivo del dichiarante o l'esame a domicilio ... ovvero l'esame in altro modo previsto dalla legge con le garanzie del contraddittorio. Se non e' possibile ottenere la presenza del dichiarante, ovvero procedere all'esame in uno dei modi suddetti, si applica la disposizione dell'art. 512 qualora la impossibilita' dipenda da fatti o circostanze imprevedibili al momento delle dichiarazioni. Qualora il dichiarante si avvalga della facolta' di non rispondere, il giudice dispone la lettura dei verbali contenenti le suddette dichiarazioni soltanto con l'accordo delle parti. 3) Se le dichiarazioni di cui ai commi 1 e 2 del presente articolo sono state assunte ai sensi dell'art. 392, si applicano le disposizioni di cui all'art. 511". Come e' evidente la norma, con riferimento alla posizione dell'imputato in procedirnento connesso - che e' l'unica che qui rileva - e' finalizzata ad ottenerne la presenza in dibattimento per poter sottoporre il medesimo ad esame e, quando questi si avvalga della facolta' di non rispondere, prevede come condizione per la lettura (e la conseguente acquisizione al fascicolo per il dibattimento) delle dichiarazioni indicate al comma 1, l'accordo di tutte le parti presenti nel processo. Indirettamente ma chiaramente, percio', la norma attribuisce a ciascuna delle parti il potere di vietare la lettura, l'acquisizione e l'utilizzazione delle dichiarazioni sopra indicate. Si tratta percio' di una disposizione che, nel procedimento probatorio, regola la fase di acquisizione della prova. L'art. 6, commi 1 e 2, legge n. 267 del 1997 prevedono: "1) Nei procedimenti penali in corso il pubblico ministero puo' avvalersi della facolta' di cui al comma 1, lett. c) e d) dell'art. 392 del codice di procedura penale, come modificate dall'art. 4 della presente legge, anche dopo l'esercizio dell'azione penale, se ne fa richiesta al giudice delle indagini preliminari entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge. 2) Nel giudizio di primo grado in corso, quando e' stata disposta la lettura, nei confronti di altri senza il loro consenso, dei verbali delle dichiarazioni, rese dalle persone indicate nell'art. 513 del codice di procedura penale al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria da questi delegata o al giudice nel corso delle indagini preliminari o dell'udienza preliminare, ove le parti lo richiedano, il giudice dispone la citazione delle predette persone per un nuovo esame". Nell'ordinanza emessa il 24 ottobre 1997, nel processo penale n. 1944/95 r.g. a carico di Semila Ottavio e Scordo Vincenzo, questo tribunale aveva ritenuto che, con riferimento alle dichiarazioni degli imputati in procedimento connesso di cui non fosse stata data lettura, risultasse applicabile la disciplina ordinaria stabilita dall'art. 513, comma 3 c.p.p. come sostituito dall'art. 1, legge n. 267 del 1997, senza che al pubblico ministero fosse consentito di chiedere l'incidente probatorio nella fase processuale in cui quel processo versava - quella della istruttoria dibattimentale, come tale successiva all'emissione dell'ordinanza ex art. 495 c.p.p. Tale posizione era stata motivata osservando che "nel corso della celebrazione del dibattimento, non e' nemmeno prospettabile l'esigenza di anticipare le forme di assunzione della prova che gli sono proprie al fine di evitare la perdita di una prova presumibilmente non rinnovabile in futuro". Esistono, pervero, motivazioni ulteriori per sostenere una posizione simile, ovvero che - se l'incidente probatorio fosse ammissibile - si conferirebbe ad una sola parte il potere di deprivare il giudice dell'immediato contatto con la prova nel momento della sua genesi e si rischierebbe altresi' di sottrargli il potere di fare nuove domande (art. 506 c.p.p.). Tuttavia, anche a fronte di un piu' approfondito esame dei lavori preparatori della legge di cui si discute, non si puo' negare che il legislatore abbia voluto - mediante l'inserimento della lata dizione di cui al comma 1 ("anche dopo l'esercizio dell'azione penale") - consentire al pubblico ministero di chiedere l'incidente probatorio con riferimento anche a tutti gli imputati di reato connesso, il cui esame sia stato ammesso in dibattimento, ma delle cui dichiarazioni predibattimentali o dibattimentali, al momento di entrata in vigore della legge, non sia stata data lettura. Il legislatore ha, cioe', prefigurato un meccanismo certamente singolarissimo, ma che risponde alle obiezioni piu' sopra illustrate. Anzitutto, data l'estrema dilatazione dei tempi del dibattimento, puo' essere, in singoli casi, conveniente per il pubblico ministero chiedere l'incidente probatorio per svolgere in contraddittorio esami di imputati in procedimento connesso che altrimenti sarebbero assunti in dibattimento molto tempo dopo. Le dichiarazioni eventualmente assunte nell'incidente probatorio dovrebbero poi essere inserite nel fascicolo per il dibattimento, consentendo quindi alle parti in via preliminare ed al giudice in via definitiva di valutare se l'assunzione dibattimentale dell'esame sia divenuto superfluo (artt. 190, comma 3, 495, ultimo comma c.p.p.) a seguito della celebrazione dell'incidente probatorio stesso. Occorre percio' prendere atto che la disciplina in questione sacrifica certamente il principio di immediatezza nella assunzione della prova, ma non lo nega in toto e che il potere del giudice di fare nuove domande all'esito dell'esame e' salvaguardato dalla possibilita' conferitagli dagli articoli da ultimo citati di rigettare l'istanza delle parti di rinuncia all'assunzione della prova in dibattimento a seguito dell'esame compiuto in incidente probatorio e di procedere comunque a tale assunzione, tutelando in tal modo l'esercizio dei propri poteri ex art. 506 c.p.p. Non solo: l'omessa previsione della possibilita' di adire l'incidente probatorio avrebbe dato luogo a fondati dubbi di legittimita' costituzionale per disparita' di trattamento di situazioni analoghe e per lesione dell'art. 112 della Costituzione di cui questo tribunale si e' fatto carico nella citata ordinanza del 24 ottobre scorso. Tali dubbi, a seguito della nuova interpretazione della disciplina transitoria, non possono non dirsi venuti meno, atteso che la disciplina piu' sopra illustrata parifica pressocche' totalmente la situazione transitoria dei dibattimenti di primo grado in corso in cui l'imputato in procedimento connesso non sia ancora stato citato o comunque non sia ancora stato sentito circa l'esercizio o no, da parte sua, della facolta' di non rispondere con la situazione che la legge stessa prefigura come ordinaria nei procedimenti in cui sono in corso le indagini, nell'ambito dei quali l'incidente probatorio e' fisiologicamente richiedibile dal pubblico ministero con l'ampiezza oggettiva prevista dall'art. 4, comma 1, legge n. 267 del 1997. In conclusione si deve ritenere che anche con riferimento ai dibattimenti in corso, nelle situazioni predette, il legislatore abbia consentito al pubblico ministero di richiedere l'incidente probatorio. 4. - Non manifesta infondatezza della questione di legittimita' dell'art. 513, comma 2, c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge n. 267 del 1997, nella parte in cui subordina soltanto all'accordo delle parti la lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese al pubblico ministero dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p. qualora si siano avvalse della facolta' di non rispondere. I fondati sospetti di illegittimita' nutriti dal Collegio circa la disciplina introdotta dalla legge n. 267 del 1997, tuttavia, non si limitavano affatto alle discriminazioni rinvenute a seguito della (non infondatamente) ritenuta esclusione della possibilita' per il pubblico ministero di adire l'incidente probatorio in corso di istruttoria dibattimentale, ma andavano ad investire il profilo della razionalita', conformita' al principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale e della indefettibilita' della giurisdizione del meccanismo che, in base all'art. 513, comma 2, c.p.p. - applicabile tanto seguendo la precedente interpretazione che seguendo quella piu' sopra illustrata -, conferisce al nutum manifestato dall'imputato in procedimento connesso ed alle parti il potere di escludere una prova dal novero delle conoscenze utilizzabili dal giudice per rendere una giusta decisione. Cio' e' dimostrato dalla circostanza che, anche ammettendo che il pubblico ministero possa adire l'incidente probatorio, sebbene la prospettiva complessiva muti in misura non trascurabile, il risultato di non manifesta infondatezza delle questioni di legittimita gia proposte e concernenti le stesse norme, non cambia affatto. E' infatti dimostrabile che la possibilita' di adire l'incidente probatorio concessa al pubblico ministero mediante l'ampliamento dei suoi presupposti obiettivi (art. 4, comma 1, legge n. 267 del 1997) e temporali (art. 6, comma 1, legge n. 267 del 1997) non e' strumento utile a rendere effettiva la possibilita' - per il pubblico ministero gravato dell'onere della prova ex art. 27, comma 2, della Costituzione - di assumere la prova in contraddittorio, cosicche' gli rimane comunque preclusa la possibilita' di prevenire effettivamente la prevedibile irripetibilita' della prova e di evitare l'inutilizzabilita' dibattimentale dell'atto divenuto irripetibile. 4.1. - Inidoneita' dell'incidente probatorio a garantire la effettiva possibilita', per il pubblico ministero, di assicurare la formazione nel contraddittorio delle parti della prova prevedibilmente irripetibile, quando si tratti di dichiarazioni rese da imputato in procedimento connesso. Al fine di giungere alla dimostrazione di quanto da ultimo affermato ed anche di disegnare un corretto percorso argomentativo, occorre preliminarmente porre alcune premesse. Il sistema della prova nel processo penale. Il sistema della prova nel processo penale del 1988 - come indiscutibilmente si desume dalle relazioni accompagnatorie, dalla dottrina e, non da ultimo, dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 254 e n. 255 del 1992, n. 111 del 1993) - e' configurato come segue. Principio cardine e' quello dell'oralita', cioe' assunzione della prova nel contraddittorio delle parti e davanti al giudice del dibattimento, cioe' un giudice nel contempo terzo (v. il principio di separazione delle fasi), in immediato contatto con la prova nel momento stesso della sua formazione (principio di immediatezza) ed investito della competenza a decidere nel merito. Pervero la legge n. 267 del 1997 sembra avere fatto una scelta in controtendenza rispetto allo schema del 1988, consentendo una indiscriminata anticipazione nell'assunzione di certe prove - in particolare proprio le dichiarazioni di imputati ed imputati in procedimento connesso - con incidente probatorio, con correlativa depressione del principio di immediato contatto del giudice che decide con la prova all'atto della sua formazione e con conseguente decentramento, rispetto alla istruttoria dibattimentale, del momento e del luogo di assunzione della prova. Tale mutamento, che agisce solo a livello di eccezione al principio di immediatezza - che e' solo una delle componenti del principio di oralita' - non scalfisce l'altra - contraddittorio genetico della prova - ed anzi e' volta, se non nei fatti (come si vedra') almeno nelle intenzioni del legislatore, ad una sua maggiore tutela. Rimane dunque intatto, anche a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 267 del 1997, tutto il sistema dei rapporti tra assunzione della prova in contraddittorio e procedimento probatorio sussidiario ed alternativo di formazione della prova quando il contraddittorio non possa svolgersi per svariate cause (c.d. "principio di non dispersione delle prove"). Tale sistema si fonda appunto sul presupposto che esistono atti la cui nuova assunzione nel contraddittorio delle parti e' impossibile (atti irripetibili). A fronte di tale impossibilita', tuttavia, il sistema accusatorio positivo - proprio perche' accusatorio - ha inteso distinguere le categorie astratte degli atti ontologicamente irripetibili dagli atti la cui irripetibilita' sia sopravvenuta, lasciando poi alla giurisprudenza il compito di sussumere i singoli atti all'interno dell'una o dell'altra categoria. Quella distinzione categoriale trova fondamento in questo, che solo con riferimento alla seconda, ma non con riferimento alla prima sono immaginabili strumenti idonei a consentire la assunzione della prova salvaguardando comunque il contraddittorio genetico della prova, strumenti introdotti al preciso scopo di ampliarne al massimo la pratica. Lo strumento ideato dal legislatore per consentire di assicurare la formazione della prova nel contraddittorio delle parti con riferimento agli atti rispetto ai quali sia prevedibile il sopravvenire di una causa di irripetibilita', consta, a ben vedere, di due elemeti: il primo e' l'incidente probatorio, con cui si consente alle parti - ed in particolare al pubblico ministero - l'assunzione della prova con le forme dibattimentali; il secondo e' costituito dalla sanzione di inutilizzabilita' dell'atto prevedibilmente irripetibile e che sia divenuto tale. La previsione di tale sanzione e' il mezzo con cui l'ordinamento spinge il pubblico ministero - parte pubblica gravata dell'onere della prova ex art. 27, comma 2, della Costituzione - ad a porre attenzione al problema della previsione di irripetibilita' sopravvenuta di atti ontologicamente ripetibili ed a porre rimedio a tale situazione ogni qual volta ne rinvenga la sussistenza. E' il caso di notare che tale disciplina, nell'ambito di un sistema accusatorio, trova il suo senso proprio nella circostanza che, sullo stesso tema di prova, l'elemento assunto in contraddittorio puo', per la presenza attiva della difesa nel momento assuntivo, formarsi con connotati in tutto od in parte diversi od anche opposti, rispetto a quelli che aveva a seguito dell'assunzione di parte. Tale possibilita' e' tutelata dal sistema proprio perche' in cio' viene riconosciuto l'esercizio effettivo del diritto di difesa produttivo di un surplus qualitativo in termini di incremento del tasso di genuinita' della prova: nella ideologia della concezione dialettica della prova e' la sua falsificabilita' che ne garantisce la maggior fedelta' possibile in termini di riproduzione della realta'. Una prima conclusione, infine, e' quella che il sistema risulta conformato secondo quattro categorie: atti assunti dal pubblico ministero (o dalla polizia giudiziaria) ed astrattamente ripetibili, che devono essere ripetuti e sono di per se stessi limitatamente utilizzabili in dibattimento (artt. 500 e 503 cp.p.); atti assunti dal pubblico ministero (o dalla polizia giudiziaria) ed astrattamente ripetibili di cui pero' sia in concreto prevedibile l'irripetibilita', come tali, se divenuti irripetibili, inutilizzabili in dibattimento, ma rispetto ai quali e' prevista la possibilita' per il pubblico ministero di assicurare (e assicurarsi) la formazione di una prova in contraddittorio utilizzando lo strumento dell'incidente probatorio; atti atti assunti dal pubblico ministero (o dalla polizia giudiziaria) ed astrattamente ripetibili di cui sia in concreto imprevedibilmente sopravvenuta l'irripetibilita', come tali utilizzabili in dibattimento; atti compiuti dal pubblico ministero (o dalla polizia giudiziaria) ontologicamente (od originariamente) irripetibili, di cui e' prevista l'utilizzabilita' in dibattimento (art. 431, lett. b), c) c.p.p.). Occorre altresi' ulteriormente precisare, rispetto a quanto gia' detto, che deve essere ritenuto irripetibile l'atto la cui assunzione, per caratteristiche intrinseche (es.: perquisizione, sequestro, ispezione, pedinamento) o per cause sopravvenute di ordine naturale o giuridico (es.: morte, amnesia totale dovuta a malattia, esercizio della facolta' di non rispondere da parte di chi ne sia titolare), non e' rinnovabile nella diversa forma che prevede la tutela del contraddittorio genetico. La causa che impedisce di ripetere l'atto (rectius: rinnovarlo in forma garantita), rende impossibile anche il contraddittorio genetico. Orbene, per un verso e' stato previsto un procedimento probatorio (lettura ed acquisizione) che consente l'utilizzazione di atti del p.m. ontologicamente irripetibili o di atti ontologicamente ripetibili, ma di cui sia in concreto sopravvenuta l'irripetibilita' senza che il sopravvenire della causa che l'ha prodotta fosse prevedibile; per altro verso e' stata esclusa l'utilizzazione di atti ontologicamente ripetibili, rispetto ai quali fosse pero' prevedibile il sopravvenire di una causa di irripetibilita', poi effettivamente intervenuta, salva, in questo caso, la possibilita' di assicurare la prova mediante incidente probatorio. In sostanza, la prevedibilita' od imprevedibilita' della causa il cui sopravvenire rende irripetibile l'atto compiuto in indagini senza contraddittorio e' il fatto giuridico che - insieme a quello che effettivamente determina l'irripetibilita' - produce l'effetto giuridico, rispettivamente, di inutilizzabilita' o di utilizzabilita' dell'atto; cioe' che lo qualifica o no come prova. Orbene, un sistema siffatto si fonda su due cardini: anzitutto quando il contraddittorio non sia possibile, i principi di obbligatorieta' dell'azione penale e di indefettibilita' della giurisdizione (che, in questo, il legislatore - e sarebbe stato impossibile il contrario - mostra di avere recepito in pieno) impongono l'utilizzo degli atti irripetibili compiuti da p.m. e p.g.; in secondo luogo e' possibile una eccezione a siffatta affermazione quando il pubblico ministero, posto nella condizione di assumere una prova per lui rilevante con il rispetto del contraddittorio, non abbia adempiuto a tale onere. Condizioni per assumere una prova nel contraddittorio delle parti sono che l'atto di assunzione della prova sia rinnovabile nelle diverse forme del contraddittorio e che fosse prevedibile la causa dell'irripetibilita', sinteticamente: che l'irripetibilita' dell'atto fosse evitabile mediante la sua rinnovazione in diversa forma, rispettosa dei diritti della difesa. Tali due condizioni devono ovviamente essere compresenti perche' l'atto compiuto dal pubblico ministero sia considerato inutilizzabile. Invero, se manca la possibilita' di rinnovare l'atto con il rispetto del contraddittorio ovvero se la causa sopravvenuta di irripetibilita' si doveva considerare imprevedibile, per un verso non e' possibile imputare al pubblico ministero alcuna negligenza nello svolgimento della sua pubblica funzione, per altro verso i principi di uguaglianza, legalita', obbligatorieta' dell'azione ed indefettibilita' della giurisdizione penale impongono l'utilizzo dibattimentale degli atti compiuti dal pubblico ministero e divenuti irripetibili. Prevedibilita' od imprevedibilita' della irripetibilita' delle dichiarazioni degli imputati in procedimento connesso? Prevedibilita' assunta come nuova prospettiva meramente convenzionale dalla quale affrontare il problema della legittimita' dell'art. 513, comma 2, c.p.p. Questo tribunale, con l'ordinanza in data 24 ottobre 1997 ed in esercizio di quell'onere di riempimento dello spazio ermeneutico consapevolmente lasciato libero dal legislatore, aveva ritenuto che l'assunzione dichiarazioni degli imputati in procedimento connesso da parte del p.m. in fase di indagini dovesse essere ritenuta, gia' in astratto, atto di cui non e' possibile prevedere l'eventuale impossibilita' di ripetizione. Cio' per vari motivi, gia' illustrati nella richiamata ordinanza e che qui si devono sinteticamente richiamare. Il primo motivo e' che la scelta dell'imputato in procedimento connesso in ordine all'esercizio o no della facolta' di non rispondere si basa su una valutazione personale, da parte di quel soggetto, di suoi privati interessi processuali ed anche extraprocessuali contrapposti tra loro, cosicche' tale valutazione, come i suoi risultati in termini di esercizio o no della facolta' predetta, sono, per il pubblico ministero (come per ogni estraneo), del tutto imperscrutabili. Il secondo motivo e' che non si puo' imporre ad una parte l'onere di prevedere i comportamenti dell'altra, poiche' se cio' fosse ammesso, dati i vincoli di sistema sopra illustrati e considerato che - a differenza di quanto accade in altri sistemi processuali accusatori in cui i rapporti tra pubblico ministero e dichiarante sono regolati da un contratto i cui termini sono, in misura piu' o meno cogente, previsti dalla legge - si avrebbe come singolare risultato di concedere effetto giuridico - addirittura in termini di utilizzabilita' o no della prova - ad eventuali e non difficilmente ipotizzabili comportamenti scorretti dell'imputato nei confronti del pubblico ministero (o, eventualmente, a reazioni del soggetto in questione a comportamenti del pubblico ministero da lui personalmente ritenuti scorretti). I motivi suindicati sono di tale cogenza da non poter essere in questa sede disattesi. E' il caso di considerare che, ritenuto l'atto di assunzione da parte del p.m. delle dichiarazioni dell'imputato in procedimento connesso atto imprevedibilmente irripetibile, il sistema ne prevede la trasformazione (o riqualificazione) da elemento di prova in prova vera e propria quando la causa di irripetibilita' si verifichi e ne impone percio' l'acquisizione e l'utilizzo in dibattimento. Avere invece subordinata tale acquisizione al consenso di tutte le parti del processo significa avere introdotto una possibilita' di esclusione della prova nella totale disponibilita' di ciascuna delle parti. Cio', in base alle considerazioni gia' svolte nell'ordinanza del 24 ottobre e che comunque saranno riproposte piu' avanti, non puo' non creare un dubbio di conformita' di tale regola di esclusione e del meccanismo che la regola ai principi di cui agli artt. 2, 3, 25, secondo comma, 102, 111 della Costituzione. Tuttavia questo tribunale intende farsi carico di valutare la questione anche secondo una diversa angolatura, cioe' supponendo la prevedibilita' della causa che rende irripetibile l'atto di cui si e' detto, cioe' l'esercizio, da parte dell'imputato in procedimento connesso, della facolta' di non rispondere. Ed invero, proprio la circostanza che sia con riferimento alla disciplina ordinaria che con riferimento a quella transitoria il legislatore del 1997 abbia offerto al pubblico ministero l'alternativa dell'incidente probatorio potrebbe costituire un argomento nel senso che il legislatore medesimo ha considerato prevedibile in concreto l'eventuale sopravvenuta irripetibilita' dell'atto di cui si discute, cioe' che, nel singolo caso, pubblico ministero possa prevedere che l'imputato in procedimento connesso si avvarra' o no della facolta' di non rispondere. Si tratta di argomento per nulla decisivo - poiche' nulla ha a che fare con la natura dell'atto di cui si discute, ne' con le sue effettive dinamiche -, tuttavia la diversa prospettiva non puo' non essere considerata per completezza espositiva. Da ora in poi, quindi, il ragionamento sara' condotto sul presupposto - ammesso ma non concesso - che il pubblico ministero debba e possa prevedere nel singolo caso che dell'atto di assunzione delle dichiarazioni dell'imputato in procedimento connesso possa sopravvenire l'irripetibilita' a causa dell'esercizio, da parte del medesimo, della facolta' di non rispondere. Inidoneita' dell'incidente probatorio a fronteggiare l'esigenza di assicurare la assunzione in contraddittorio della prova prevedibilmente irripetibile quando si tratti di dichiarazioni di imputato in procedimento connesso. Posto come assioma argomentativo la prevedibilita' dell'irripetibilita' dell'atto di assunzione delle dichiarazioni dell'imputato di reato connesso da parte del pubblico ministero, si pone, al fine di verificare in ogni aspetto la razionalita' del sistema introdotto dal legislatore del 1997, il problema se l'ampliamento dei presupposti oggettivi di ammissione dell'incidente probatorio introdotto con il comma 1, dell'art. 4, legge n. 267 del 1997 e la conseguente introduzione della possibilita' da parte del p.m. di chiedere ed ottenere, sol che lo ritenga e senza altro presupposto impeditivo, l'incidente probatorio avente ad oggetto l'esame della persona sottoposta ad indagini su fatti concernenti la responsabilita' di altri e l'esame delle persone indicate dall'art. 210 c.p.p. costituiscano strumenti idonei a consentire al pubblico ministero di rinnovare, con le forme del contraddittorio genetico, l'assunzione delle dichiarazioni gia' rese innanzi a lui, cioe' a consentirgli di assicurare la acquisizione con le forme del contraddittorio della prova prevedibilmente insuscettibile di assunzione in futuro. Ai fini della risoluzione del problema deve considerarsi illuminante proprio la disciplina transitoria introdotta dall'art. 6, commi 1 e 2 della legge n. 267 del 1997: il legislatore ha lasciato alla valutazione discrezionale del pubblico ministero se avvalersi dell'incidente probatorio addirittura in corso di dibattimento od invece se assumere la prova direttamente nel dibattimento stesso, senza chiedere l'incidente probatorio, ad esempio perche' - come presumibilmente avvenuto in questo processo -, considerata la sospensione feriale dei termini, la data in cui presumibilmente si sarebbe tenuta l'udienza di assunzione delle prove, ed i tempi tecnici di fissazione e celebrazione dell'incidente probatorio, il pubblico ministero riteneva piu' spedita questa seconda via. Dunque anche il legislatore del 1997 ha ritenuto l'assunzione della prova in incidente probatorio od in dibattimento assolutamente equipollenti quanto a forme ed effetti. Ne' il legislatore avrebbe potuto ragionare diversamente attesa la ragion d'essere dell'istituto e l'espressa disposizione degli artt. 401, comma 5, c.p.p. - secondo cui: "Le prove sono assunte con le forme stabilite per il dibattimento" - e 431, lett. d), c.p.p.. Per inciso si puo' aggiungere, al riguardo, che la stessa Corte costituzionale, proprio fondando il suo argomentare sulla predetta equipollenza e quindi sui dovuti effetti che essa doveva spiegare in ordine alla tutela dell'effettivita' del diritto di difesa ha interpretato l'art. 401, comma 5, nel senso che prevedesse il deposito degli atti di indagine prima della celebrazione dell'incidente probatorio (sent. n. 74 del 1991). Se cio' e' vero, risulta indiscutibile l'applicazione non solo in dibattimento ma anche nell'incidente probatorio dell'art. 210, comma 4, c.p.p. che impone al giudice, come atto preliminare all'esame delle persone indicate in tale articolo, di avvertirle che hanno facolta' di non rispondere. In tal senso, del resto, militano inoppugnabili argomenti testuali: basti por mente al fatto che, sia celebrato in dibattimento od in incidente probatorio, l'atto di assunzione delle dichiarazioni delle persone indicate dall'art. 210 c.p.p. avviene sempre con le forme dell'esame (cfr. artt. 392, lett. c e d), art. 210, commi 4 e 5, 499, 503 c.p.p.). Tale conclusione e' decisiva circa la soluzione del problema posto all'inizio. Ed invero e' incontrovertibile che, se le persone indicate dall'art. 210 c.p.p. possono avvalersi della facolta' di non rispondere tanto nel dibattimento come nell'incidente probatorio, lo strumento offerto dal legislatore al pubblico ministero per consentirgli di assicurare la assunzione della prova nelle forme del contraddittorio genetico, proprio nel caso in cui sia prevedibile l'esercizio da parte dei predetti della facolta' di non rispondere, risulta del tutto inidoneo a conseguire lo scopo. Gli imputati in procedimento connesso possono ugualmente, in entrambe le sedi, infatti, avvalersi della facolta' di non rispondere, cioe' di quella facolta' che ha l'effetto di rendere impossibile l'assunzione della prova con le forme del contraddittorio genetico. Posta tale ovvia considerazione, l'alternativa reale che, a livello ordinamentale viene posta al pubblico ministero che fondatamente preveda che l'imputato in procedimento connesso si avvarra' della facolta' di non rispondere e' di rischiare di incassare subito il niet o di incassarlo dopo. E' sin troppo evidente, tuttavia, che l'anticipazione o posticipazione temporale della celebrazione dell'esame, non ha alcuna efficacia reale rispetto alla circostanza della prevedibile irripetibilita' delle dichiarazioni dell'imputato in procedimento connesso, cioe' non pone affatto il pubblico ministero in condizione di assumere oggi, con il rispetto delle forme del contraddittorio, una prova che domani non sarebbe rinnovabile: infatti la causa della non rinnovabilita' dell'atto - cioe' la facolta' di non rispondere di cui le persone indicate dall'art. 210 c.p.p. godono sia in incidente probatorio come in dibattimento - opera, in astratto, ugualmente oggi come domani o dopodomani, nel corso di tutto il procedimento. Si potrebbe obiettare pero' che, se le cose stanno cosi' in astratto, possono non presentarsi allo stesso modo nella concreta situazione del singolo processo. Una obiezione del genere appare tuttavia scorretta sotto il profilo giuridico e, conseguentemente e soprattutto, foriera di gravi distorsioni del sistema e di altrettanto gravi sperequazioni nel trattamento degli imputati, degli imputati in procedimento connesso e della prova in situazioni analoghe. Sotto il primo aspetto e' infatti nota la costantissima giurisprudenza della Corte costituzionale che ritiene che i profili di razionalita' nella costruzione e nella operativita' degli istituti giuridici ed i paragoni tra trattamento delle diverse situazioni giuridiche vadano operati valutando istituti e fattispecie nella loro prefigurazione giuridica, indipendentemente dalla circostanza che, per mere ragioni di fatto, essi, in singole situazioni, possano sortire effetti razionali o, all'opposto, effetti irrazionali. Ma se poi si passa a valutare quali possono essere, nel concreto, gli effetti di una disciplina come quella prevista dalla legge n. 267 del 1997 e' facile prevederne i notevolissimi rischi che, in singoli casi, possono presentarsi. E' infatti evidente che, se le parti - imputati compresi - possono con un mero atto di volonta' porre nel nulla le dichiarazioni gia' rese dagli imputati in procedimento connesso al pubblico ministero sol che essi si avvalgano della facolta' di non rispondere, aumenta esponenzialmente il valore del consenso dei secondi a sottoporsi all'esame e della loro disponibilita' a rendere dichiarazioni in dibattimento o in incidente probatorio (e' indifferente). Si e' introdotto cioe' un potere di ricatto degli imputati in procedimento connesso verso il pubblico ministero, verso la polizia giudiziaria e, in generale, verso lo Stato al fine di ottenere, nel singolo caso, o trattamenti non dovuti oppure un esercizio distorto di legittimi poteri discrezionali. D'altro canto si sono create le premesse di diritto perche', in singole situazioni di fatto, i poteri assegnati al pubblico ministero a fini del tutto diversi siano sviati al fine di spingere l'imputato in procedimento connesso a sottoporsi all'esame e, magari, a reiterare con minuziosa precisione le accuse gia' rivolte a terzi in sede di indagini. E' facile individuare i poteri che potrebbero essere - in singoli casi concreti - distorti al fine di ottenere dichiarazioni dibattimentali (o in incidente probatorio) conformi a quelle gia' rese: diniego o assenso ad applicazione di pena; individuazione del livello di pena da applicare; assenso o diniego al giudizio abbreviato (che comporta comunque effetti sui tempi di celebrazione del processo e quindi sui tempi di eventuale ottenimento di benefici penitenziari a fronte del perdurare dello stato di custodia cautelare, incertezza circa l'accoglimento della diminuente, consistente aumento delle spese che l'imputato deve sopportare per la sua difesa in dibattimento); pareri favorevoli o contrari alla concessione di misure cautelari personali coercitive meno afflittive della custodia cautelare in carcere; allungamento dei tempi di richiesta di archiviazione. La legge cioe' - ponendo sullo sfondo la possibilita' che l'imputato possa annullare il valore probatorio delle dichiarazioni rese al pubblico ministero dall'imputato in procedimento connesso - pone le premesse per un braccio di ferro tra il dichiarante ed il pubblico ministero medesimo che, non essendo disciplinato nelle sue cadenze, puo', di fatto, essere gestito in modo distorto. Palesi discriminazioni poi si porrebbero tra imputati in precedimento connesso sottoposti a programma di protezione - per i quali il rapporto con il pubblico ministero e con lo Stato e' formalizzato secondo norme di legge - ed imputati in procedimento connesso non sottoposti a programma di protezione, con possibili discriminazioni di fatto influenti addirittura sul regime di utilizzabilita' della prova. E' poi appena il caso di accennare, tanto e' evidente, al rapporto che la legge instaura tra imputato ed imputato in procedimento connesso, laddove pone l'esercizio della facolta' di non rispondere da parte del secondo come presupposto del potere del primo di annullare il valore probatorio degli elementi raccolti dal pubblico ministero. L'incentivo a che l'imputato induca con tutti i mezzi - comprese violenze, minacce, offerte o promesse di denaro od altra utilita' - l'imputato in procedimento connesso ad avvalersi della facolta' che la legge gli riconosce e' incontrovertibile, visto che a cio' e' immediatamente legato il potere di evitare in tutto od in parte l'accertamento del fatto a suo carico. Il sistema cioe' puo' cioe', in singoli casi, sortire effetti, se non addirittura criminogeni, comunque certamente contrari allo scopo che si propone, cioe' di tutelare il contraddittorio genetico. In conclusione, quindi, si puo' affermare che il problema dell'efficacia dello strumento dell'incidente probatorio in termini di idoneita' a consentire che il pubblico ministero possa assicurare l'assunzione delle dichiarazioni dell'imputato in procedimento connesso con le forme del contraddittorio, quando preveda che quegli si avvarra' della facolta' di non rispondere deve essere affrontato, sotto il profilo giuridico-costituzionale, in astratto. Se valutato in astratto, il problema e' di facile soluzione e la risposta non puo' che essere nel senso della totale inidoneita', posto che la causa di cui si paventa l'operativita' e che puo' rendere impossibile il contraddittorio - la facolta' di non rispondere - e' ugualmente operante nel dibattimento come nell'incidente probatorio, indipendentemente da qualsiasi anticipazione o posticipazione temporale della celebrazione dell'atto e dalla fase processuale in cui e' assunto. Se poi, erroneamente, si volesse valutare l'operativita' concreta del sistema ideato dal legislatore del 1997, non vi sarebbe che da temere le prevedibili distorsioni che esso puo' provocare in singoli casi sulla gestione di diversi istituti processuali anche involgenti la compressione di diritti primari del cittadino, quali la liberta' personale. Le superiori considerazioni rendono evidente che - attesa l'equivalenza delle due possibilita' offerte dall'ordinamento al pubblico ministero (assunzione delle dichiarazioni in dibattimento od incidente probatorio) -, l'alternativa che gli si pone di fronte e', sul piano giuridico, meramente apparente, del tutto illusoria. In realta', come si e' appena detto, la celebrazione dell'incidente probatorio non assicura affatto l'assunzione in contraddittorio di dichiarazioni che, se l'assunzione fosse posticipata al dibattimento, diverrebbero irripetibili, proprio perche' tanto nell'incidente probatorio quanto in dibattimento opera nello stesso modo la causa di irripetibilita', cioe' la facolta' di non rispondere concessa alle persone indicate dall'art. 210 c.p.p. In sostanza, il rischio di irripetibilita' delle dichiarazioni degli imputati in procedimento connesso dovuta a prevedibile esercizio della facolta' di non rispondere non e' fronteggiabile attraverso la concessione al pubblico ministero della possibilita' di adire l'incidente probatorio, poiche' l'esperimento di tale via non prevede l'eliminazione della causa dell'irripetibilita' e, percio', non assicura la rinnovazione dell'atto nelle forme del contraddittorio genetico. E' evidente la differenza rispetto ai casi in cui, essendo la causa di irripetibilita' di ordine naturale, l'anticipazione del compimento dell'atto garantito di assunzione della prova incide, eliminandola, sulla causa di prevedibile irripetibilita'. L'esempio e' semplice: il decorso della malattia fa prevedere la morte del testimone, l'anticipazione dell'assunzione delle sue dichiarazioni nella forma dibattimentale, annulla il rischio del mancato rinnovamento dell'atto in dibattimento. Tale conclusione induce a tuttavia meditare sulla completezza del sistema di formazione della prova nel processo vigente e, piu' in particolare, a scorgervi una lacuna categoriale, nel senso che nulla e' previsto circa l'utilizzabilita' di un insieme di atti aventi le medesime caratteristiche. Tali atti sono quelli compiuti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria di cui sia prevedibile l'irripetibilita' - e sinanco prevista, nel caso concreto -, ma che siano anche, nel contempo, non rinnovabili con le forme del contraddittorio, per cause di fatto o di diritto. Un esempio di non rinnovabilita' dell'atto per ragioni di fatto e' dato dal caso - non di scuola ne' infrequente - di persona offesa che, morente, renda dichiarazioni alla polizia giudiziaria od al pubblico ministero senza che vi sia il tempo materiale per rinnovare l'atto nelle forme dell'incidente probatorio, poiche' la morte interviene prima dei tempi tecnici minimi per la celebrazione dell'incidente probatorio stesso. Altro esempio e' consacrato in un articolo del codice di procedura penale (art. 512-bis c.p.p.), che prevede la possibilita' di dare lettura, a richiesta di parte (ma anche su iniziativa del giudice ex art. 507 c.p.p.), delle dichiarazioni rese al p.m. od alla p.g. dal cittadino straniero residente all'estero citato e non comparso od addirittura nemmeno citato. Esempi, invece, di non rinnovabilita' dell'atto per ragioni di diritto sono dati sia dalle dichiarazioni del teste prossimo congiunto che, in dibattimento a differenza che in sede di indagini, si sia avvalso della facolta' di non testimoniare, sia, appunto, dalle dichiarazioni rese da imputato in procedimento connesso che, in dibattimento od in incidente probatorio - e' indifferente, per quanto detto prima -, si sia avvalso della facolta' di non rispondere. Il problema che si pone, quindi, e' quale disciplina applicare con riferimento agli atti prevedibilmente irripetibili, ma che lo siano divenuti senza che il pubblico ministero avesse la possibilita' - di fatto o di diritto - di assicurare la prova mediante rinnovazione dell' atto nelle forme del contraddittorio genetico. Non imputabilita' al pubblico ministero della mancata assicurazione della assunzione della prova nel contraddittorio delle parti quando l'atto non sia - per ragioni di fatto o di diritto - rinnovabile nelle forme del contraddittorio genetico e, quindi, non imputabilita' del fatto di non avere prevenuto l'irripetibilita' prevedibile. Per risolvere il problema da ultimo descritto nel paragrafo che precede e' sufficiente por mente al principio, gia' illustrato, che governa l'utilizzabilita' degli atti prevedibilmente irripetibili ed applicarlo al caso di specie. Il principio e' che, se e' prevedibile il sopravvenire di una causa che rende irripetibile l'atto di assunzione della prova compiuto dal p.m., l'atto stesso e' inutilizzabile, salva la possibilita' di rinnovarlo con salvaguardia del contraddittorio. La ratio del principio e' che, se il pubblico ministero - organo pubblico gravato dell'onere della prova - non ha previsto la causa di irripetibilita' prevedibile o, avendola prevista, non ha assicurato la prova nelle forme che consentono di garantire il contraddittorio, allora non ha diritto a che il giudice utilizzi l'elemento di prova da lui formato senza contraddittorio. Il presupposto di tale ratio e' ovviamente - secondo i principi generali in tema di imputabilita' del fatto - che il soggetto - nel caso il pubblico ministero - potesse agire diversamente cioe' potesse, perche' consentitogli dai tempi tecnici di richiesta e celebrazione dell'incidente probatorio e perche' consentitogli dalla configurazione giuridica dell'istituto, agire in modo tale da assicurare la formazione della prova nel contraddittorio con la difesa. Ovvio dedurre che, ogni qual volta dell'atto divenuto irripetibile non fosse possibile la rinnovazione in contraddittorio per motivi di fatto o per motivi di diritto estranei all'ufficio del pubblico ministero, l'omessa rinnovazione dell'atto con salvaguardia del contraddittorio, non sarebbe imputabile al pubblico ministero medesimo. Qualora poi tale omissione non fosse imputabile al pubblico ministero, si dovrebbe ritenere che l'atto compiuto in sede di indagini, per quanto prevedibilmente irripetibile, sia divenuto inevitabilmente irripetibile, poiche', in linea di fatto od in linea di diritto, non e' stato possibile rimuovere la causa che, facendo divenire irripetibile l'atto, ha nel contempo impedito di rinnovarlo in contraddittorio. La disciplina dell'utilizzabilita' dell'atto prevedibilmente irripetibile, ma divenutolo inevitabilmente, deve di necessita' assimilarsi a quella che il codice contempla con riferimento agli atti divenuti imprevedibilmente irripetibili: deve cioe' esserne ammessa la diretta utilizzabilita' mediante inserimento nel fascicolo per il dibattimento, sia perche', come per gli atti imprevedibilmente irripetibili, l'omessa rinnovazione dell'atto non e' imputabile al pubblico ministero, sia perche' esistono, rispetto ad entrambe le categorie di atti, le identiche necessita' di tutela dei principi di uguaglianza, legalita', obbligatorio esercizio dell'azione penale ed indefettibilita' della giurisdizione penale che vigono per i primi, a fronte della concreta impossibilita' di tutela il diritto di difesa nella forma del contraddittorio genetico. Ma, tornando al caso che ne occupa, e' indubbio che il p.m. non poteva evitare, rinnovando in incidente probatorio od in dibattimento l'atto di assunzione della prova - nella specie, le dichiarazioni direttamente acquisite da Scisciola Salvatore e Di Gaetano Antonino -, come si sono avvalsi della facolta' di non rispondere in dibattimento, ben avrebbero potuto esercitare tale facolta' in incidente probatorio e non v'e' motivo per ritenere che - essendo le condizioni giuridiche e di fatto identiche - non se ne sarebbero effettivamente avvalsi provocando i medesimi effetti prodotti oggi dall'astensione dibattimentale. Dunque, anche ammettendo che il p.m. possa prevedere che l'atto di assunzione delle dichiarazioni dell'imputato in procedimento connesso diverra' irripetibile per esercizio della facolta' di non rispondere, comunque si dovra' concludere per l'utilizzabilita' dell'atto stesso una volta che, in dibattimento o in incidente probatorio il medesimo si sia avvalso di tale facolta' con cio' provocando l'irripetibilita' dell'atto precedente, poiche' l'esame del soggetto predetto in incidente probatorio o in dibattimento si svolge con la medesima configurazione giuridica, potendo egli avvalersi in entrambe le sedi della facolta' di non rispondere; perche' al p.m. non e' stato fornito uno strumento alternativo idoneo ad evitare (giuridicamente) l'irripetibilita' medesima assicurando la prova mediante rinnovazione dell'atto in contraddittorio con la difesa; perche', quindi, l'atto e' divenuto irripetibile senza che il p.m. potesse fare nulla per evitarlo, cosicche' tale circostanza non gli e' imputabile. Infine, e' appena il caso di notare, a questo punto, che - descritta come sopra la situazione ordinamentale - menzionare la presunta efficacia euristica di non meglio determinate "strategie" delle parti o del pubblico ministero rispetto all'assunzione della prova, ha effetto puramente mistificatorio. Conclusioni. Si puo', infine, affermare: la equivalenza degli strumenti giuridici offerti al p.m. per assumere la prova in contraddittorio (esame in dibattimento ed in incidente probatorio), la loro pari inidoneita' a porre nel nulla la causa di irripetibilita' dell'atto gia' assunto (dichiarazioni delle persone di cui all'art. 210 c.p.p. acquisite al pubblico ministero senza contraddittorio); la conseguente inevitabilita' dell'irripetibilita' dell'atto e la ulteriormente conseguente inimputabilita' al p.m. dell'omessa rinnovazione dell'atto nelle forme del contraddittorio genetico; la finale e dovuta affermazione di utilizzabilita' degli atti compiuti dal p.m. in ordine ai quali sia prevedibile il sopravvenire di una causa di irripetibilita' ma inevitabile l'operativita' della medesima. Tutte queste considerazioni inducono a ritenere che l'ampliamento dei casi di incidente probatorio e delle possibilita' date al p.m. di richiedere ed ottenere la sua celebrazione non possa spiegare effetto di sorta rispetto al problema della legittimita' costituzionale del meccanismo di ammissione della prova (tali sono, a questo punto e' quasi inutile ripeterlo, le dichiarazioni rese al p.m. delle persone indicate all'art. 210 c.p.p. divenute inevitabilmente irripetibili a seguito dell'esercizio della facolta' di non rispondere) previsto dall'art. 513 comma 2 c.p.p., che subordina al consenso di ciascuna delle parti la lettura e l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento della prova medesima. 4.2. - Giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di valutazione della prova e di regole di esclusione della prova. Si deve notare che la disciplina prevista dal combinato disposto degli artt. 513 comma 2 c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge n. 267 del 1997, e 6, comma 1, della medesima legge vanno ad inserirsi nel centro del processo disegnato dal codice vigente, laddove regolano da un lato i rapporti tra fase delle indagini e fase dibattimentale, dall'altro i poteri delle parti nella formazione dibattimentale della prova e, dall'altro ancora impongono limiti alla formazione del razionale e motivato convincimento giudiziale. Non v'e' dubbio che le norme di cui si discorre siano ispirate ad un depotenziamento del valore probatorio delle acquisizioni avvenute in fase di indagini ed in assenza di contraddittorio mediante il conferimento alle parti di un potere discrezionale il cui esercizio puo' interdire l'ingresso di quegli elementi nel fascicolo per il dibattimento. Preso atto che la scelta del legislatore si e' mossa verso l'accentuazione di alcuni aspetti particolari del processo accusatorio come processo di parti - in particolare la positivizzazione, per la prima volta, del principio dispositivo in materia di prova -, occorre verificare se, in base alla giurisprudenza formatasi nelle materie coinvolte dall'innovazione normativa, non si siano ecceduti i limiti costituzionali che la Corte stessa ha individuato alla introduzione nel nostro ordinamento di un processo regolato secondo gli schemi di un puro processo penale di parti. Gia' con riferimento al piano metodologico, infatti, la Corte ha affermato che: "... la considerazione dell'ordinamento processual-penale italiano va condotta, a prescindere da astratte modellistiche, sulla base del tessuto normativo positivo, la cui interpretazione e comprensione non puo' che derivare da un'attenta lettura dei principi e criteri direttivi enunciati dalla legge delega e dei principi costituzionali di cui questa ... richiede l'attuazione. Non va cioe' dimenticato che ''il sistema processuale delineato nella legge delega e poi concretamente attuato nel codice e' tutt'affatto originale, dato che tende bensi' (art. 2 comma 1) ad attuare 'i caratteri del sistema accusatorio', 'ma secondo i principi ed i criteri specificati nelle direttive che seguono' (sent. n. 88 del 1991); e che, poiche' la stessa norma detta ancor prima l'obbligo di 'attuare i principi della Costituzione', un'adeguata considerazione dell'ordinamento effettivamente vigente non puo' prescindere dagli interventi correttivi che questa Corte si e' trovata a dover apportare''". Seguendo questa prospettiva, al fine di valutare la sussistenza o no di un dubbio circa la conformita' a costituzione delle norme suindicate, occorrera' prendere le mosse da tutte quelle affermazioni e decisioni con cui in questi anni la Corte ha esplicitato i caratteri costituzionali della azione e della giurisdizione penale, la funzione assegnata al processo penale, il ruolo che gioca al suo interno il valore costituito dalla ricerca della verita' cosiddetta "reale" o "materiale" in contrapposto a quella "formale" o "processuale". Quanto al primo aspetto la Corte - pronunciandosi in tema di reiterazione di dichiarazioni di ricusazione fondate sui medesimi motivi -, ha di recente avuto modo di ribadire (sent. n. 11 del 1997) l'esistenza del "... principio di indefettibilita' della giurisdizione, ricollegabile a vari principi costituzionali, fra i quali l'art. 101 della Costituzione invocato dal giudice a quo (oltre alla sentenza n. 353 del 1996 e l'ordinanza n. 5 del 1997, v. le sentenze nn. 460 del 1995, 114 del 1994, 289 del 1992, 178 del 1991)". E la Corte, confrontando il principio suddetto a quello di uguaglianza inteso come "canone di coerenza dell'ordinamento giuridico, cui devono uniformarsi pure gli istituti processuali ...", ha immediatamente aggiunto: "E qui va riconosciuta, certo, la discrezionalita' del legislatore per quanto attiene alla individuazione delle scansioni processuali, tuttavia nel rispetto del principio di ragionevolezza perche' non venga compromessa, di fatto, la nozione stessa di processo. Si che sono da censurare, pure alla luce del principio di razionalita' normativa, istituti o regole quando si prestino ad un uso distorto, recando cosi lesione dell'efficiente svolgimento della funzione giurisdizionale". Quanto alla funzione ed al ruolo del pubblico ministero, la Corte si e' espressa in modo assai chiaro nella sentenza n. 88 del 1991: "Va innanzi tutto ricordato, al proposito, quanto questa Corte ebbe ad affermare nella sentenza n. 84 del 1979, cioe' che ''l'obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale ad opera del pubblico ministero ... e' stata costituzionalmente affermata come elemento che concorre a garantire, da un lato l'indipendenza del pubblico ministero nell'esercizio della propria funzione e, dall'altro, l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale''; sicche' l'azione e' attribuita a tale organo ''senza consentirgli alcun margine di discrezionalita' nell'esercizio di tale doveroso ufficio''. Piu' compiutamente: il principio di legalita' (art. 25 comma 2), che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalita' del procedere; e questa, in un sistema come il nostro, fondato sul principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale), non puo' essere salvaguardata che attraverso l'obbligatorieta' dell'azione penale. Realizzare la legalita' nell'eguaglianza non e', pero', concretamente possibile se l'organo cui l'azione e' demandata dipende da altri poteri: sicche' di tali principi e' imprescindibile requisito l'indipendenza del publico ministero. Questi e' infatti, al pari del giudice, soggetto soltanto alla legge (art. 101 comma secondo Cost.) e si qualifica come "un magistrato appartenente all'ordine giudiziario collocato come tale in posizione di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere", che "non fa valere interessi particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell'interesse generale all'osservanza della legge" (sentt. nn. 190 del 1970 e 96 del 1975). Il principio di obbligatorieta' e', dunque, punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale, talche' il suo venir meno ne altererebbe l'assetto complessivo. Di conseguenza, l'introduzione del nuovo modello processuale non lo ha scalfito, ne' avrebbe potuto scalfirlo. Per altro verso, l'eliminazione di ogni contaminazione funzionale tra giudice e organo dell'accusa - specie in tema di formazione della prova e di liberta' personale -, non comporta che, sul piano strutturale ed organico, il pubblico ministero sia separato dalla Magistratura costituita in ordine autonomo ed indipendente. Nell'architettura della delega, infatti, il ruolo del pubblico ministero non e' quello di mero accusatore, ma pur sempre di organo di giustizia obbligato a ricercare tutti gli elementi di prova rilevanti per una giusta decisione, "ivi compresi gli elementi favorevoli all'imputato" (cfr. dir. n. 37...). Coerentemente a cio', il legislatore delegato ha sottolineato che il "potere-dovere del p.m. di estendere le proprie indagini a tutto cio' che puo' formare oggetto di prova per l'accusa o la difesa" tende "nel rispetto assoluto dei principi del sistema accusatorio e del ruolo di ''parte'' ad evidenziare la natura ordinamentale, giudiziaria e pubblica dell'istituto e della funzione" (relazione al progetto preliminare, 91); ed ha poi confermato tale natura nel redigere il nuovo art. 190 dell'ordinamento giudiziario (art. 29 testo allegato al d.P.R. 22 settembre 1988 n. 449). 3. - Il principio di obbligatorieta' dell'azione penale esige che nulla venga sottratto al controllo di legalita' effettuato dal giudice: ed in esso e' insito, percio', quello che in dottrina viene definito favor actionis. Cio' comporta non solo il rigetto del contrapposto principio di opportunita' che opera, in varia misura, nei sistemi ad azione facoltativa ...; ma comporta, altresi', che in casi dubbi l'azione vada esercitata e non omessa". Proprio come aspetto della obbligatorieta' ed indisponibilita' nonche' dell'esercizio imparziale nei confronti di tutti dell'azione penale, la Corte ha evidenziato alcuni caratteri che essa ha assunto all'interno dello stesso codice del 1998 proprio come applicazione concreta della sua configurazione costituzionale: - il principio di tendenziale completezza delle indagini (v. anche sent. n. 92 del 1992), il principio di tutela della effettivita' dell'azione, volto a contrastare i casi di suo esercizio meramente apparente, principio questo manifestatosi in istituti quali l'indicazione da parte del g.i.p. di ulteriori indagini ritenute necessarie (art. 409 comma 4, 415, 554 comma 2 c.p.p., sentt. n. 409 del 1990, 445 del 1990), l'opposizione dell'offeso alla richiesta di archiviazione, il potere di avocazione del Procuratore generale, l'ordine di formulazione dell'imputazione E' infine utile ricordare che le superiori considerazioni sono state riprese e valorizzate dalla Corte nella sentenza n. 111 del 1993 (par. 6), proprio quando si e' trattato di individuare i limiti costituzionali ad un processo penale inteso come"... 'processo di parti', nella misura in cui evoca lo schema di una contesa tra parti contrapposte operanti sul medesimo piano ..." o come "tecnica di risoluzione dei conflitti". Spostando l'attenzione dal tema dell'azione e della giurisdizione a quello, strettamente connesso, dello scopo del processo penale la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare che esso deve individuarsi nell'"accertare i fatti onde pervenire ad una decisione il piu' possibile corrispondente al risultato voluto dal diritto sostanziale" e che, anche dopo l'entrata in vigore del codice del 1988 ad impianto tendenzialmente accusatorio, "fine primario ed ineludibile del processo penale non puo' che rimanere quello della ricerca della verita'" (sentt. n. 111 del 1993, n. 255 del 1992, n. 258 del 1991). I presupposti costituzionali di tali affermazioni si rinvengono agevolmente leggendo le summenzionate pronunce, oltre che la sent. n. 88 del 1991: esse sono fatte derivare direttamente dalla lettura combinata del principio di uguaglianza dei cittadini dinnanzi alla legge penale, dal principio di legalita' "che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate" (sentt. nn. 111 del 1993, 88 del 1991) e di inviolabilita' della liberta' personale. Ma ad essi si potrebbero agevolmente aggiungere il principio di personalita' della responsabilita' penale (ciascuno risponde solo per il fatto commesso che gli sia psicologicamente imputabile, dunque sono il fatto e la sua imputabilita' l'oggetto del processo e dell'accertamento), il principio di presunzione di innocenza (l'onere della prova in capo all'accusa e' criterio nel contempo logico e garantistico che dimostra l'impegno dell'ordinamento nella ricerca della verita'), il principio di obbligatorieta' dell'azione penale (l'azione e' obbligatoria anche perche' non ad altro tende se non all'accertamento secondo verita' dell'ipotesi contenuta nella notizia di reato ed all'applicazione della legge, seppure in modi diversi da quelli processuali), nel principio di difesa (la verita' puo' essere affermata solo se "garantita" dalla presenza attiva della difesa nel processo), nel principio di indipendenza e liberta' morale del giudice in particolare nel momento del giudizio (principi questi ultimi inutili o dannosi se il giudizio dovesse servire a qualche cosa di diverso che alla ricostruzione del fatto ed all'applicazione della legge). Tanto premesso, la Corte ha riconosciuto che il legislatore aveva scelto, come metodo migliore per perseguire lo scopo costituzionalmente assegnato al processo, quello del contraddittorio dibattimentale che, insieme all'esigenza di accentuare la terzieta' del giudice, aveva "condotto ad introdurre, di massima, un criterio di separazione funzionale delle fasi processuali, allo scopo di privilegiare il metodo orale di raccolta delle prove, concepito come strumento per favorire la dialettica del contraddittorio e la formazione nel giudice di un convincimento libero da influenze pregresse" (sent. n. 111 del 1993). La Corte ha tuttavia immediatamente osservato che, proprio perche' lo scopo del processo penale non puo' che individuarsi nella ricerca della verita', "...l'oralita', assunta a principio ispiratore del nuovo sistema, non rappresenta, nella disciplina del codice, il veicolo esclusivo di formazione della prova nel dibattimento ... di guisa che in taluni casi in cui la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente e' dato rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad atti formatisi prima ed al di fuori del dibattimento" (sent. n. 255 del 1992) e, per altro aspetto: "... ad un ordinamento improntato al principio di legalita' (art. 25 comma 2, Cost.) - che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate - nonche' al connesso principio di obbligatorieta' dell'azione penale (cfr. sent. n. 88 del 1991, cit.) non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario a pervenire ad una giusta decisione (cfr. sent. n. 255 del 1992)" (sent. n. 111 del 1993). La Corte ha altresi' comprovato il fondamento di tali affermazioni elencando i numerosi casi di formazione della prova in deroga o al contraddittorio dibattimentale o all'altro aspetto dell'oralita' costituito dall'immediato contatto del giudice con la prova nel momento della sua formazione (artt. 392, 431, 500 comma 4, 503 commi 5 e 6, 512, 513) (sent. n. 255 del 1992); ha individuato la ragion d'essere di quelle eccezioni nella necessita' di non disperdere elementi di prova "non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili con il metodo orale"; ha infine denominato tale fenomeno, considerato il numero e la qualita' delle deroghe previste al metodo orale, "principio di non dispersione delle prove" (sent. n. 255 del 1992). La Corte ha dunque correttamente rilevato - qualificandolo "principio" a causa della sua obiettiva imponenza - la presenza in seno al codice un procedimento probatorio alternativo e sussidiario rispetto al principale fondato sul contraddittorio per la prova, procedimento attivabile quando quello principale sia o nell'impossibilita' di funzionare o nell'impossibilita' di produrre elementi di prova genuini. La presenza di tale procedimento alternativo e sussidiario, come reso evidente dalla lettura combinata delle pronunce che si vanno citando, e' fondata da un lato sulla configurazione costituzionale ed istituzionale del pubblico ministero e, dall'altro, sulla necessita' di affermare il principio di indefettibilita' della giurisdizione penale, principio anch'esso strettamente a sua volta collegato a quelli di uguaglianza e di legalita'. Proprio sviluppando il tema dell'ampiezza degli effetti di tali affermazioni con riferimento non solo alla fase procedurale dell'ammissione della prova, ma anche a quello della valutazione degli elementi acquisiti, la Corte ha avuto modo di affermare non solo che ad un ordinamento improntato ai principi suindicati non si confanno norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione, ma anche che simili regole di predeterminazione legale del valore persuasivo delle prove sono altresi' dissonanti rispetto al principi di fondo del nuovo codice, che "fa salvo (e, in aderenza ai principi costituzionali non poteva essere altrimenti) il principio del libero convincimento, inteso come liberta' del giudice di valutare la prova secondo il proprio prudente apprezzamento, con l'obbligo di dar conto in motivazione dei criteri adottati e dei risultati conseguiti' (art. 192 c.p.p.; cfr. sent. n. 255 del 1992, cit.)" (sent. n. 111 del 1993). Anche con riferimento al tema del ruolo delle parti nel processo e dell'esistenza di un preteso principio dispositivo in materia di prova la Corte, nella sentenza n. 111 del 1993 si e' pronunciata con chiarezza cristallina: "La configurazione del potere istruttorio conferito al giudice dall'art. 507 come eccezionale, e quindi da escludere in caso di decadenza o inattivita' delle parti, discende, nella logica presupposta dai giudici remittenti, dall'assunzione dell'immanenza nel nuovo codice, come conseguenza della scelta accusatoria, di un principio dispositivo in materia di prova. Si tratta, pero', di un assunto che non trova riscontro ne' nei principi della delega ne' nel tessuto normativo concretamente disegnato nel codice. E', per la verita', incontroverso che sarebbe contrario ai principi costituzionali di legalita' e di obbligatorieta' dell'azione concepire come disponibile la tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale. Cio', invero, significherebbe, da un lato, recidere il legame strutturale e funzionale tra lo strumento processuale e l'interesse sostanziale pubblico alla repressione dei fatti criminosi che quei principi intendono garantire; dall'altro, contraddire all'esigenza, ad essi correlata, che la responsabilita' penale sia riconosciuta solo per fatti realmente commessi, nonche' al carattere indisponibile della liberta' personale. Sotto questo profilo, e' significativo che il nuovo codice non conosca procedure in cui la concorde richiesta delle parti vincoli il giudice sul merito della decisione; prova ne sia che ad un simile esito non conduce neanche l'istituto dell'applicazione di pena su richiesta (cfr. sent. n. 313 del 1990). Ma un principio dispositivo non puo' dirsi esistente neanche sul piano probatorio, perche' cio' significherebbe rendere disponibile, indirettamente, la stessa res iudicanda. Ed anche qui la riprova si ha nell'altro rito speciale in cui maggior spazio e' riservato alla volonta' delle parti, dato che in esso l'accordo di queste sulle prove utilizzabili non vincola il giudizio sulla loro concludenza; ed anzi non puo' neppure essere inteso - come ripetutamente segnalato da questa Corte (sentt. nn. 92 del 1992 e 56 del 1993) - come assolutamente preclusivo delle integrazioni probatorie eventualmente necessarie, pena la sua incompatibilita' con i principi costituzionali. Ma l'assunzione di un principio dispositivo in materia di prova non trova riscontro nella normativa positiva neanche sul terreno del giudizio ordinario. Il metodo dialogico di formazione della prova e' stato, invero, prescelto come metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente idoneo al loro per quanto possibile pieno accertamento, e non come strumento per far programmaticamente prevalere una verita' formale risultante dal mero confronto dialettico tra le parti sulla verita' reale: altrimenti, ne sarebbe risultata tradita la funzione conoscitiva del processo, che discende dal principio di legalita' e da quel suo particolare aspetto costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale. Ma e' soprattutto dall'art. 507 che si desume l'inesistenza di un potere dispositivo delle parti in materia di prova. Questa Corte ha gia' avuto modo di dire, nella sentenza n. 241 del 1992, che tale norma - inserita "in un sistema processuale imperniato su un ampio riconoscimento del diritto alla prova e nel quale l'acquisizione del materiale probatorio e' rimessa in primo luogo all'iniziativa delle parti" - "conferisce al giudice il potere-dovere d'integrazione, anche d'ufficio, delle prove per l'ipotesi in cui la carenza o insufficienza, per qualsiasi ragione dell'iniziativa delle parti impedisca al dibattimento di assolvere la funzione di assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto del processo, onde consentirgli di pervenire ad una giusta decisione". Richiamata quindi la sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 11227 del 6 novembre-21 novembre 1992 nonche' la direttiva n. 73 della legge delega - che prevede il "potere del presidente ... o del pretore di indicare alle parti temi nuovi od incompleti utili alla ricerca della verita' e di rivolgere domande dirette ..."; potere del giudice di disporre l'assunzione di nuovi mezzi di prova - la Corte cosi' proseguiva: "... Il legislatore delegante ha cioe' esattamente considerato - in armonia con l'obiettivo di eliminazione delle disuguaglianze di fatto posto dall'art. 3, comma 2, della Costituzione che la 'parita' delle armi' delle parti normativamente enunciata puo' talvolta non trovare concreta verifica nella realta' effettuale, si' che il fine di giustizia della decisione puo' richiedere un intervento riequilibratore del giudice atto a supplire alle carenze di taluna di esse, cosi' evitando assoluzioni o condanne immeritate. Il potere conferito al giudice dall'art. 507 e', dunque, un potere suppletivo, ma non certo eccezionale E' del resto evidente che sarebbe contraddittorio, da un lato garantire l'effettiva obbligatorieta' dell'azione penale contro le negligenze o le deliberate inerzie del pubblico ministero conferendo al giudice per le indagini preliminari il potere di disporre che costui formuli l'imputazione ...; e, dall'altro, negare al giudice dibattimentale il potere di supplire ad analoghe condotte della parte pubblica" (sent. n. 111 del 1993). In sostanza, nella pronuncia appena indicata la Corte ha riconosciuto incompatibile con i principi costituzionali di uguaglianza, legalita', obbligatorieta' dell'azione penale, un processo penale ridotto a "... tecnica di risoluzione delle controversie nel cui ambito al giudice sarebbe riservato essenzialmente un ruolo di garante dell'osservanza delle regole di una contesa tra parti contrapposte, ed il giudizio avrebbe la funzione non di accertare i fatti reali onde pervenire ad una decisione il piu' possibile corrispondente al risultato voluto dal diritto sostanziale, ma di attingere - nel presupposto di un'accentuata autonomia finalistica del processo - quella sola 'verita'' processuale che sia possibile conseguire attraverso la logica dialettica del contraddittorio e nel rispetto di rigorose regole metodologiche e processuali coerenti al modello". Parimenti indicata come incompatibile con i suddetti principi e' stata considerata l'operativita' - propria di un processo di parti - "di un principio dispositivo sotto il profilo probatorio", operativita' cui conseguirebbe "da un lato, l'espansione degli spazi di discrezionalita' della parte pubblica e l'accentuazione dell'oralita' come strumento della formazione della prova in dibattimento; dall'altro, la configurazione del potere di intervento del giudice in materia di prova come eccezionale ...". Giurisprudenza contraria a concedere rilevanza ed effetti sostanziali alla mera espressione della volonta' di una parte - seppure parte pubblica cui sono proprie logiche e finalita' esclusivamente istituzionali - si e' formata anche con riferimento alla originaria disciplina dell'applicazione della pena su richiesta e del giudizio abbreviato. Con riferimento al primo tipo di giudizio, infatti la Corte ha dichiarato l'illegittimita' dell'art. 444 comma 2 c.p.p. in quanto, "prevedendo che il giudice debba attenersi alla pena cosi' come indicata dalle parti, ... non consente di valutare la congruita' della pena ai fini e nei limiti di cui all'art. 27 comma 3 Cost." (sent. n. 313 del 1990). Con riferimento al rito abbreviato la Corte, nella sentenza n. 81 del 1991, dichiarando l'illegittimita' parziale del combinato disposto degli artt. 438, 439, 440, 442 c.p.p., ha affermato "E', invece, fondata la questione proposta in riferimento all'art. 3 della Costituzione sotto il profilo dell'irrazionale disparita' cui la normativa impugnata, vista dall'interno della sua applicazione, darebbe luogo tanto nei rapporti fra p.m. ed imputato, quanto nei rapporti tra imputato ed imputato. Non risponde, infatti, alle esigenze di coerenza e ragionevolezza una disciplina che autorizza ad opporsi non soltanto a una 'determinata scelta del rito processuale' ..., ma anche a una consistente riduzione della pena da infliggere all'imputato in caso di condanna, senza neppure dover esternare le ragioni di tale opposizione, cosi' sottraendola all''obiettiva ed imparziale valutazione del giudice'. Per giunta, in un sistema, come quello del nuovo codice, imperniato sul principio di 'partecipazione dell'accusa e della difesa su basi di parita' in ogni stato e grado del procedimento' (art. 2 n. 3 legge 16 febbraio 1987, n. 81), non dovrebbe essere consentito che i rapporti fra p.m. ed imputato si sbilancino al punto che il primo, con un semplice atto di volonta' immotivato e, percio', incontrollabile, si trovi in grado di privare il secondo di un rilevante vantaggio sostanziale" (sent. n. 81 del 1991). Di tale sentenza e di quella n. 66 del 1990, la Corte ha reso interpretazione autentica nel momento in cui, in seno alla sentenza n. 92 del 1992, ha rilevato: "Il nucleo essenziale di tali decisioni sta nel riconoscimento dell'incompatibilita' con un ordinamento costituzionale fondato sui principi di uguaglianza e legalita' della pena, di una disciplina che affida(va) a scelte discrezionali - immotivate e, quindi, insindacabili - del pubblico ministero l'accesso dell'imputato ad un rito dal quale scaturiscono automaticamente rilevanti effetti sulla determinazione della pena". Traendo le conseguenze delle superiori affermazioni la Corte con riferimento alla fase dibattimentale e mediante la pronuncia di sentenze di accoglimento od interpretative di rigetto, ha considerato ostacoli irragionevoli o in se stessi o rispetto al sistema: a) il divieto di testimonianza de relato della polizia giudiziaria (sent. n. 24 del 1992); b) l'omessa previsione dell'acquisizione delle dichiarazioni di imputati in procedimento connesso, anche se rese alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero, quando essi si fossero avvalsi in dibattimento della facolta' di non rispondere (sentt. n. 254 del 1992 e n. 60 del 1995); c) l'utilizzo solo ai fini della valutazione di credibilita' delle dichiarazioni predibattimentali utilizzate per le contestazioni ai testimoni (sent. n. 255 del 1992). Inoltre la Corte ha: a) riconosciuto l'acquisibilita' ex art. 512 c.p.p. delle dichiarazioni dei prossimi congiunti che si siano avvalsi in dibattimento della facolta' di non rispondere (sent. n. 179 del 1994); b) riconosciuto l'acquisibilita' ex art. 512 c.p.p. delle dichiarazioni predibattimentali del teste affetto da amnesia assoluta sui fatti di causa, dovuta ad infermita' (ord. n. 20 del 1995). Sempre in forza dei summenzionati principi, inoltre, la Corte ha dichiarato legittimo l'art. 507 c.p.p. solo se interpretato nel senso che esso consentisse, nell'inerzia delle parti, l'impulso giudiziale nella acquisizione della prova (sent. n. 111 del 1993). 4.3. - Profili di non manifesta infondatezza della questione di legittimita'. Tracciato il quadro generale della giurisprudenza della Corte costituzionale rilevante in materia, occorre procedere a verificare se, rispetto alla disciplina dell'art. 513 comma 2 c.p.p. come sostituito dall'art. 1, legge n. 267 del 1997, siano ipotizzabili violazioni dei limiti costituzionali sopra indicati. Il tribunale rinviene varie prospettive di violazione, quanto meno non manifestamente infondate. 4.3.1. - Lesione del principio di uguaglianza per previsione, con riferimento alle dichiarazioni di imputato in procedimento connesso rese al pubblico ministero e divenute irripetibili a seguito dell'esercizio della facolta' di non rispondere, di una disciplina irragionevolmente diversificata, quanto ad utilizzabilita' dibattimentale, rispetto a tutti gli altri atti divenuti imprevedibilmente od inevitabilmente irripetibili. Il problema che si e' posto all'attenzione di questo tribunale, come configurato nei precedenti paragrafi, e' se sia costituzionalmente corretto che, nell'ambito di un sistema accusatorio, il legislatore, allo scopo di tutelare il contraddittorio, abbia introdotto un meccanismo che, conferendo a ciascuna delle parti il potere di impedire con una semplice manifestazione di volonta' l'utilizzabilita' in dibattimento di elementi di prova raccolti dal pubblico ministero in assenza di contraddittorio e di cui sia inevitabilmente sopravvenuta l'irripetibilita'. Occorre immediatamente notare che lo stesso sistema codicistico, come si evince dalla ricostruzione operata al par. 4.1, prevede, in linea di principio, la piena utilizzabilita' dibattimentale degli atti del pubblico ministero la cui irripetibilita' fosse prevedibile ma inevitabile nonche' degli atti della categoria omogenea, cioe' quelli, rispetto ai quali il sopravvenire della causa di irripetibilita' fosse imprevedibile (art. 512 c.p.p.). Cio' posto il problema e' se, con riferimento ad alcuni di essi - segnatamente le dichiarazioni delle persone indicate dall'art. 210 c.p.p. assunte nel corso delle indagini e divenute irripetibili per esercizio da parte loro della facolta' di non rispondere -, sia ragionevole introdurre un meccanismo di possibile preclusione dell'acquisizione dibattimentale fondato sulla mera manifestazione di volonta' delle parti indirizzata all'esclusione della prova. Cosi' impostato, il problema e' facilmente risolvibile in base all'applicazione dell'art. 3 Cost. Invero non appare ne' sussiste alcuna ragione per porre la prova di cui si discorre, a differenza delle altre inevitabilmente od imprevedibilmente divenute irripetibili, nella totale disponibilita' di ciascuna parte. L'insussistenza di tale ragione si coglie vieppiu' considerando il valore che lo stesso legislatore conferisce a quei medesimi atti, addirittura prima che siano divenuti irripetibili. Si tratta certamente di atti formati in assenza di contraddittorio ed in segreto, ma si tratta anche di atti compiuti da un organo giudiziario, pubblico, indipendente, la cui azione e' rivolta esclusivamente all'applicazione imparziale della legge (sent. n. 88 del 1991). Si tratta altresi di atti che godono di particolari garanzie quanto alla rispondenza alla realta' del loro contenuto, trattandosi di verbali. Proprio per questa loro particolare affidabilita', la legge conferisce utilizzabilita' agli elementi raccolti dal p.m.nelle indagini con riferimento sia ad atti che spiegano i loro effetti all'interno della fase delle indagini (es.: esercizio dell'azione penale nelle sue varie forme), sia ad atti che spiegano i loro effetti fuori dalla fase delle indagini (es.: al fine di emettere sentenza di non doversi procedere o decreto che dispone il giudizio), sia ad atti che incidono profondamente su diritti costituzionali primari dei cittadini (es.: emissione di decreti di perquisizione e sequestro, adozione di misure cautelari personali). Se agli atti di cui si discorre vengono conferiti tali e tanti effetti in sede di indagini e' poi irrazionale prevedere che di essi, a differenza di altri, quando siano divenuti inevitabilmente irripetibili, sia preclusa l'utilizzazione dibattimentale solo che una parte manifesti in tal senso la sua volonta', con atto discrezionale, immotivato ed insindacabile. 4.3.2. - Ostacolo irragionevole alla formazione della prova, alla funzione conoscitiva del dibattimento ed all'esercizio della giurisdizione mediante l'introduzione di un meccanismo di disposizione della prova: contrasto con gli artt. 3, 25 comma secondo, 101 comma secondo, 102 comma primo, 111 comma primo, Cost. Con riferimento a questo profilo rileva quanto assai nitidamente affermato nelle sentenze n. 88 del 1991, 241, 254 e 255 del 1992, 111 del 1993. Se il processo deve tendere alla ricerca della verita' reale, se il processo in generale ed il dibattimento in particolare hanno una funzione conoscitiva del fatto che ne e' oggetto, se il pubblico ministero e' istituzionalmente organo di giustizia che si muove al fine di applicare la legge e compie validamente atti normativamente previsti su cui possono fondarsi per legge altri atti lesivi di diritti costituzionali primari, se il codice stesso prevede numerosi meccanismi di recupero dell'utilizzabilita' di atti formati dal pubblico ministero quando siano divenuti imprevedibilmente od inevitabilmente irripetibili cioe' quando il contraddittorio sia - per ragioni materiali o giuridiche - divenuto impossibile senza che, percio', l'omessa rinnovazione dell'atto nelle forme del contraddittorio genetico sia imputabile al pubblico ministero, allora sembra evidente dover dubitare di un meccanismo processuale che per un verso si risolve nel precludere l'esercizio dell'azione penale e, per altro verso, nel precludere l'utilizzazione da parte del giudice di atti che appartengono a quelle categorie, in tal modo impedendogli di accertare il fatto e, in base a tale accertamento, di pervenire ad una giusta decisione. I diversi aspetti di tale sillogismo necessitano di una spiegazione analitica. Anzitutto va vagliata la conformita' della disciplina in questione al principio di razionalita' nell'esercizio obbligatorio dell'azione penale (artt. 3 e 112 cost.). Chiariti come sopra la natura ed il valore degli atti compiuti dal pubblico ministero - ed in particolare delle dichiarazioni dei coimputati o degli imputati in procedimento connesso -, occorre considerare che il loro utilizzo ai fini sopra indicati non e', per il p.m., facoltativa, ma e', in base all'art. 112 cost., obbligatoria. Ne deriva che costituisce un irragionevole ostacolo al razionale esercizio dell'azione penale, oltre che una evidente contraddizione ordinamentale, disporre che atti sui quali il pubblico ministero ha fondato il doveroso esercizio della sua funzione, quando siano divenuti imprevedibilmente od inevitabilmente irripetibili - con conseguente esclusione del contraddittorio non imputabile al pubblico ministero medesimo -, siano utilizzabili in dibattimento solo con il consenso di tutte le altre parti processuali, tra le quali gli imputati nei confronti dei quali il contenuto di tali atti ha gia' spiegato in base alla legge i propri dannosi effetti. Risulta cioe' irrazionale da un lato imporre al pubblico ministero di raccogliere, in modo tendenzialmente completo, elementi di prova circa il fatto, imporgli di chiedere misure cautelari eventualmente ottenendole, introdurre meccanismi di garanzia contro l'inerzia del pubblico ministero, e poi, quando quegli elementi siano divenuti imprevedibilmente od inevitabilmente irripetibili, conferire al soggetto controinteressato il potere di disporre della loro utilizzabilita' addirittura in dibattimento, cioe' nella fase processuale in cui il pubblico ministero combatte per l'accertamento pieno della responsabilita'. L'irragionevolezza appare ancor piu' evidente laddove si considerino due aspetti. Anzitutto, sotto l'aspetto degli interessi tutelati da una norma simile, occorre osservare che la scelta delle parti diverse dal pubblico ministero ed in particolare quella dell'imputato in ordine a prove formate contro di lui risponde a logiche che, per la natura del soggetto investito del potere, non possono essere che strettamente egoistiche e comunque privatistiche. Sotto il diverso aspetto della forma giuridica dell'atto preclusivo della utilizzazione della prova risulta evidente che trattasi di pura manifestazione di volonta', come tale discrezionale, immotivata ed insindacabile. Riformulando, adattato al caso che ne occupa, un passaggio della sentenza n. 81 del 1991 si potrebbe dire che "non dovrebbe essere consentito che i rapporti fra p.m. ed imputato si sbilancino al punto che il secondo, con un semplice atto di volonta' immotivato e, percio', incontrollabile, si trovi in grado di privare il primo degli elementi di prova, divenuti imprevedibilmente od inevitabilmente irripetibili, in base ai quali ha legittimamente esercitato sino a quel momento l'azione penale". Riformulando, adattato al caso che ne occupa, un passaggio della sentenza n. 111 del 1993 si potrebbe dire: "... sarebbe contraddittorio, da un lato garantire l'effettiva obbligatorieta' dell'azione penale contro le negligenze o le deliberate inerzie del pubblico ministero conferendo al giudice per le indagini preliminari il potere di disporre che costui formuli l'imputazione...; e, dall'altro, consentire che l'utilizzo di atti delle indagini, sui quali si e' fondato l'esercizio dell'azione penale sino a quel momento e divenuti imprevedibilmente od inevitabilmente irripetibili, possa essere impedito dallo stesso pubblico ministero o dalle altre parti con una nuda ed immotivata manifestazione di volonta'". Non e' poi il caso di approfondire - perche' qui irrilevante - la situazione in cui sia lo stesso p.m. ad opporsi all'acquisizione di dichiarazioni di soggetti indicati dall'art. 210 rese in sede di indagini e divenute inevitabilmente irripetibili per rifiuto di rispondere opposto dall'interessato in dibattimento: ci si troverebbe di fronte o ad uno stigma irreparabile inferto al diritto di difesa dell'imputato, quando si tratti dell'acquisizione di elementi a lui favorevoli, o ad una cripto-ritrattazione dell'azione penale, quando si tratti di elementi d'accusa. In entrambi i casi atti disciplinati dalla normativa di cui si discute ma costituzionalmente incompatibili con gli artt. 24 e 112 Cost.: in un caso identico - decadenza colposa o dolosa del p.m. dal diritto di richiedere le prove per omessa od intempestiva presentazione della lista testimoniale - la Corte ha salvato il sistema solo perche' esso prevede, mediante l'art. 507 c.p.p., il recupero di quelle prove. Un recupero pero' evidentemente non consentito dalla normativa introdotta dall'art. 1, legge n. 67 del 1997. Va altresi' data risposta negativa, per quanto qui e' possibile, circa la compatibilita' tra la disciplina di cui si discute e la funzione conoscitiva, di tendenziale accertamento della verita' reale, attribuita dalla Costituzione al processo penale. E' indubbio, infatti, che la sottoposizione all'accordo delle parti della lettura e quindi dell'acquisizione di atti divenuti inevitabilmente irripetibili costituisca un ostacolo alla formazione del convincimento giudiziale e quindi all'approssimarsi del risultato processuale alla verita', nella parte in cui consente che tali atti siano - senza alcuna possibilita' di rimedio - sottratti a quel convincimento mediante una manifestazione di volonta' discrezionale, insindacabile ed immotivata. Occorre tuttavia valutare la ragionevolezza della introduzione di siffatto ostacolo. Si e' gia' notato che, rispetto a situazioni identiche, si coglie con immediatezza una ingiustificabile differenza. Solo rispetto a dichiarazioni di imputati in procedimento connesso (o di coimputati) che si avvalgano della facolta' di non rispondere e' stato introdotto il potere delle parti di impedirne ad nutum l'utilizzo, mentre con riferimento ad altre identiche situazioni di inevitabile od imprevedibile irripetibilita' di atti dello stesso tipo, tale potere non e' riconosciuto. Della prima di tali situazioni costituiscono esempi, come si e' detto piu' sopra, i casi di dichiarazioni del teste morente assunte da p.m. o p.g. senza che vi sia stato il tempo tecnico necessario per ceebrare l'incidente probatorio, di dichiarazioni del cittadino straniero residente all'estero assunte da p.m. o p.g., di dichiarazioni del testimone prossimo congiunto che si avvalga solo in dibattimento della facolta' di non sottoporsi ad esame. Alla seconda categoria - governata dai medesimi principi - appartengono le dichiarazioni rese al p.m. da imputato in procedimento connesso (o coimputato) di cui sia sopravvenuta l'irreperibilita' (art. 513, comma 2, seconda parte), il decesso, l'infermita' produttiva di amnesia sui fatti (art. 512), o di soggetto che decida di sottoporsi all'esame ma si astenga dal rispondere a singole domande (fatto che consente contestazione ed utilizzazione delle dichiarazioni predibattimentali: art. 503) e di testimone prossimo congiunto che si avvalga della facolta' di non rispondere (sent. n. 179 del 1994). Ad essere precisi, gli ultimi due casi appartengono ad entrambe le categorie: atti imprevedibilmente ed inevitabilmente irripetibili. Ne' pare che la diversa causa di irripetibilita' sopravvenuta - naturale (quale il decesso o l'infermita') o giuridica (quale l'esercizlo della facolta' di non rispondere) - o le diverse ragioni per cui l'omessa rinnovazione dell'atto di assunzione della prova e' risultata non evitabile - naturale (quale la residenza all'estero del teste straniero) o giuridica (quale, ancora, l'esercizio della facolta' di non rispondere) - possano in alcun modo giustificare la diversificazione delle discipline dell'utilizzabilita' degli atti di cui si discute, poiche' l'effetto dell'azione di tali cause sull'atto e' identico (irripetibilita' e preclusione della rinnovabilita' dell'atto assuntivo della prova non imputabile al p.m.) e perche' le uniche differenze - ad esempio: diritto di difesa attuale rispetto al vivo ma non rispetto al morto - riguardano il dichiarante, ma non i soggetti attinti dalle sue dichiarazioni rispetto al cui diritto al contraddittorio le diverse cause di irripetibilita' ed inevitabile preclusione alla rinnovazione dell'atto agiscono in modo identico, rendendolo impossibile. Si tratta, lo si ribadisce, di casi identici - in cui il contraddittorio e' inibito senza che cio' sia imputabile al pubblico ministero - alcuni dei quali subiscono pero' un trattamento irragionevolmente diverso. Esiste un ulteriore profilo di irragionevolezza nell'ostacolo frapposto alla formazione della prova mediante il procedimento alternativo e sussidiario piu' volte menzionato, profilo attinente proprio alla devoluzione alle partiin generale, ed in particolare agli imputati, della decisione circa l'utilizzabilita' in dibattimento di elementi raccolti dal pubblico ministero in sede di indagini (elementi che possono spiegare una diretta od indiretta efficacia probatoria a loro carico) e di cui sia sopravvenuta imprevedibilmente od inevitabilmente l'irripetibilita'. La Corte costituzionale, come si e' detto, ha gia' avuto modo, ragionando su fattispecie di decadenza colposa o consapevolmente determinata del pubblico ministero dalla prova, di affermare come "incontroverso che sarebbe contrario ai principi costituzionali di legalita' ed obbligatorieta' dell'azione penale concepire come disponibile la tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale"; e, immediatamente dopo, che disporre della prova equivale, indirettamente, a disporre della stessa res iudicanda (sent. n. 111 del 1993). Parimenti incontroverso, a parere del tribunale (v. supra) e' che la normativa di cui si tratta abbia introdotto il potere di ciascuna delle parti di disporre della prova e che cio' consenta alle medesime - secondo l'insegnamento, totalmente condiviso, della Corte (sent. n. 111 del 1993) - di disporre altresi', indirettamente, dell'oggetto del processo. Ulteriore conferma di tale conclusione si rinviene considerando di nuovo gli interessi tutelati dal tipo di atto di cui si discute. Trattandosi, come si e' detto, del potere attribuito alle parti del processo, di inibire l'uso di prove, l'aspetto di tutela del diritto di difesa appare prospettabile solo come stimolo per il p.m. a chiedere l'incidente probatorio, atto questo, tuttavia, incapace di garantire l'assicurazione della prova mediante la sua assunzione in contraddittorio posto che anche in tale sede l'esaminato puo' impedire l'esercizio del contraddittorio avvalendsi della facolta' di non rispondere (v. supra). Deve altresi' osservarsi che la Corte costituzionale ha costantemente affermato che il diritto di difesa, per quanto inviolabile, non puo' non trovare contemperamento e bilanciamento rispetto ad altri concorrenti principi parimenti tutelati dalla Costituzione e che, quindi, il suo livello di tutela deve essere rapportato alle singole, e diverse, situazioni processuali. Nel caso di specie, la disciplina dell'utilizzabilita' delle dichiarazioni predibattimentali dell'imputato in procedimento connesso che si avvalga della facolta' di non rispondere introdotta dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 254 del 1992, tendeva a bilanciare due valori diversi: l'esercizio dell'azione penale, ma soprattutto ed ancor di piu', l'esercizio della funzione giurisdizionale stessa, da un lato, e, dall'altro, l'esercizio del diritto di difesa. Quest'ultimo non rimaneva affatto impedito ma soltanto limitato dall'esercizio, da parte del coimputato od imputato in procedimento connesso, del suo diritto di difesa, sub specie di diritto di non rispondere in dibattimento anche alle domande di chi, direttamente od indirettamente, aveva accusato. Impedito cosi' l'esercizio del diritto di difesa nel momento di genesi della prova, veniva attivato il procedimento sussidiario ed alternativo di formazione della prova che comunque lasciava spazio al tradizionale esercizio del diritto di difesa sulla prova formata (oltre ad introdurre, di fatto, argomenti sfavorevoli all'intrinseca credibilita' del dichiarante). Infine, quanto all'irragionevolezza dell'ostacolo frapposto dal nuovo art. 513, comma 2, c.p.p. alla formazione della prova, non sembra superfluo sottolineare che il potere concesso alle parti e' cosi' ampio - si parla infatti di accordo "delle parti" e non gia' delle parti "interessate" - che ciascuna puo' opporsi all'utilizzo di prove irrilevanti rispetto alla sua posizione - ma rilevanti rispetto a posizioni diverse - senz'altro scopo che il porre un impedimento al regolare esercizio della giurisdizione. Ma la situazione si aggrava proprio quando la parte - in particolare l'imputato - si oppone alla lettura di' dichiarazioni irripetibili rese direttamente a suo carico. In tal caso infatti - posto che tali dichiarazioni non sono considerate ontologicamente inaffidabili dal legislatore che, altrimenti, non ne avrebbe consentito la documentazione e l'utilizzo anche in fase di indagini preliminari ed anche a fini cautelari - il meccanismo normativo risulta semplicemente paradossale: i veti incrociati di soggetti privati - quali sono gli imputati e gli imputati in procedimento connesso - possono precludendo l'ingresso della prova in dibattimento, finiscono inevitabilmente per precludere (in tutto od in parte) l'esercizio stesso della giurisdizione e prima ancora quello dell'azione penale. Considerato che i soggetti predetti agiscono, come si notava, per interessi privatissimi e sinanco meramente egoistici, l'ostacolo frapposto all'esercizio della giurisdizione non puo' non essere ritenuto irrazionale. La stessa Corte costituzionale (sent. n. 111 del 1993) ha infatti considerato illegittimo il potere riconosciuto al pubblico ministero - organo cui pure la Corte riconosce funzioni pubbliche finalizzate esclusivamente all'applicazione della legge (sent. n. 88 del 1991) - di disporre del processo disponendo della prova (potere riconosciutogli dai giudici di merito remittenti grazie ad una interpretazione dell'art. 507 c.p.p. ritenuta illegittima). A questo punto non si puo' non considerare illegittimo a maggior ragione l'analogo potere riconosciuto dalla legge a soggetti privati - quali sono gli imputati e la parte civile - che, come tali, orientano i loro comportamenti secondo logiche meramente individualistiche. E' altresi' prospettabile, considerate le precedenti osservazioni, una diretta violazione dell'art. 25, comma 2, nella parte in cui prevede che i colpevoli debbano essere puniti. E' invero quanto mai evidente che, condizionando l'utilizzo da parte del giudice di elementi di prova irripetibili raccolti durante le indagini al consenso dell'imputato a carico del quale tali elementi spiegano la loro efficacia probatoria, si consente che l'imputato stesso, mediante una scelta discrezionale, immotivata, insindacabile ed eventualmente ispirata ad interessi non tutelabili, impedisca l'accertamento del fatto e percio' delle sue (eventuali) responsabilita'. In sostanza, lo si ribadisce, si consente all'imputato, disponendo della prova a suo carico, di disporre indirettamente dell'oggetto stesso del processo, in violazione - gia' riconosciuta una volta dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 111 del 1993 con riferimento all'interpretazione astrattamente formalistica dell'art. 507 c.p.p. recepita dai giudici remittenti - degli artt. 3, 25, comma secondo, 27, comma primo, Cost. Ne' puo' essere richiamato, in contrario avviso, il principio di presunta innocenza dell'imputato, poiche' esso, se fosse interpretato nel senso assolutistico di conferimento all'imputato del potere di interdire l'assunzione delle prove a suo carico, renderebbe inutile l'esercizio stesso dell'azione penale e della giurisdizione annullando il valore dei connessi principi. Va approfondito, seguendo prospettive gia' accennate, il contrasto della disciplina di cui si discute con gli artt. 101 e 111 della Costituzione. E' banale osservare che la formazione del razionale e motivato convincimento giudiziale - artt. 3, 101, comma secondo, 111 Cost. - non e' solo parte integrante dell'esercizio della funzione giurisdizionale, ma e' cio' in cui lo scopo stesso del processo si invera. Ebbene, a parere del tribunale, la normativa di cui si tratta, introducendo il potere delle parti di disporre della prova - tale essendo, lo si ripete, in tutta la sistematica codicistica l'elemento raccolto in sede di indagini dal pubblico ministero divenuto imprevedibilmente od inevitabilmente irripetibile - consente di sottrarla alla razionale e motivata valutazione del giudice, in tal modo impedendogli di formarsi un convincimento che si avvicini il piu' possibile alla reale verificazione dei fatti e, quindi, impedendo la pronuncia di una giusta decisione. Vale anche notare che, almeno nella materia dell'utilizzabilita' delle prove processuali penali, quando, come nel caso di specie, la legge devolve a privati quali sono gli imputati, gli imputati in procedimento connesso e la parte civile, la decisone ultima e definitiva, oltre che discrezionale, immotivata ed incontrollabile (tali non sono le scelte effettuate nell'ambito dei procedimenti speciali, che hanno sempre come alternativa il giudizio ordinario) sull'utilizzabilita' delle prove, allora appare violata dalla legge stessa la regola secondo cui il giudice e' soggetto solo alla legge: per il tramite formale di una norma giuridica il giudice - nell'esercizio della funzione che gli e' piu' propria, il giudizio - viene fatto soggiacere alle decisioni altrui. Ed ancora, sotto l'aspetto della corretta e razionale formazione del convincimento giudiziale nonche' della - strettamente connessa - funzione conoscitiva assegnata dalla Costituzione al processo penale ed al dibattimento risulta rilevante non solo l'aspetto del diniego della difesa alla lettura di prove introdotte dal pubblico ministero, ma anche l'aspetto dell'assenso. Invero, la difesa - ma l'osservazione vale per tutte le parti processuali -, opportunamente negando e concedendo il loro consenso all'ingresso di alcune prove ma non di altre ben possono costringere il giudice a ricostruire il fatto in modo anche molto distante dalla sua reale verificazione o, quanto meno, dalla ricostruzione che del medesimo sarebbe razionalmente preferibile se al giudice fossero fornite per intero e completamente le prove gia' comunque esistenti agli atti del pubblico ministero, la cui introduzione nel fascicolo per il dibattimento solo il nutum delle parti puo' impedire. In tal senso il contrasto con quanto affermato dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 255 del 1992 e 111 del 1993 e' piu' che evidente. 4.3.3. - Lesione dei principio di ragionevolezza dell'ordinamento per il manifestarsi di suoi aspetti di contraddittorieta' generale. Occorre, a questo punto, considerare nel suo complesso il funzionamento del sistema e la sommatoria di (presumibili) illegittimita' costituzionali indicate in precedenza. Considerate le questioni sul tappeto da questo punto di vista, si impone con evidenza un aspetto di contraddittorieta' dell'intero sistema, e quindi di lesione dell'art. 3 Cost., con riferimento alla sua operativita' generale come risulta a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 1, legge n. 267 del 1997. Si pensi a questa semplice e frequentissima situazione: il pubblico ministero raccoglie le dichiarazioni di uno o piu' imputati in procedimennto connesso ed i debiti riscontri; a seguito di cio' (adempiendo al dovere impostogli dall'art. 112 Cost.) chiede ed ottiene l'applicazione della custodia cautelare in carcere; in dibattimento l'imputato o gli imputati in procedimento connesso si avvalgono in dibattimento (od in incidente probatorio) della facolta' di non rispondere e l'imputato si oppone all'utilizzazione delle loro dichiarazioni predibattimentali; l'imputato, a seguito di tale sottrazione di prova non solo verra' assolto ma avra' anche diritto ad ottenere la riparazione per ingiusta detenzione ex art. 314 c.p.p. L'ordinamento, all'evidenza, pone se stesso come generatore di illegittimita', quindi si pone in contraddizione con se stesso. 5. - Non manifesta infondatezza della questione di legittimita' degli artt. 210, comma 4, e 513, c.p.p. nella parte in cui prevedono che l'imputato in procedimento connesso che abbia reso innanzi al pubblico ministero dichiarazioni direttamente od indirettamente indizianti a carico di determinati soggetti, possa avvalersi, nel dibattimento a carico di quei soggetti, della facolta' di non rispondere. Ritiene questo Collegio che le discrasie e le contraddizioni in cui si involge la disciplina introdotta con l'art. 1, legge n. 267 del 1997 - ed in particolare quella di cui al comma 2, dell'art. 513, c.p.p. -, siano dovute alla creazione legislativa di un vero e proprio conflitto - in quanto tale irragionevole - tra diritto di difesa ed esercizio della funzione giurisdizionale. Infatti, tutelando sino all'estremo limite, per un verso il diritto al contraddittorio degli imputati e, per altro verso il loro diritto a non sottoporsi all'esame dibattimentale - entrambi espressione del piu' generale diritto di difesa -, la legge finisce per sacrificare l'esercizio della giurisdizione: in nome del suo diritto al contraddittorio ciascuna parte puo' vietare ad nutum l'utilizzabilita' di dichiarazioni di un altro soggetto (imputato in procedimento connesso) che, in nome del suo diritto di difesa, abbia reso impossibile il contraddittorio medesimo avvalendosi ad nutum della facolta' di non rispondere. Da tale pur sintetica analisi emerge immediatamente per un verso l'irragionevolezza del meccanismo, poiche' gli artt. 2, 3, 25 comma secondo, 101 comma secondo, 102, 111 della Costituzione fondano il principio di indefettibilita' di una giurisdizione penale, ed in particolare di un dibattimento, finalizzati ad assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto del processo affinche' possa essere emessa una giusta decisione - per altro verso, che il conflitto reale non e' tra diritto di difesa e giurisdizione, ma tra i diritti di difesa di cui sono titolari i diversi soggetti e, per altro verso ancora, che il conflitto in questione e' stato erroneamente risolto a danno della giurisdizione. E' evidente che il diritto al silenzio (e la facolta' di menzogna) possono essere indirettamente tutelati in tanto in quanto non consentano di bloccare ne' l'esercizio dell'azione ne' l'esercizio della giurisdizione, ma solo come diritto dell'individuo ad astenersi dal collaborare con gli organi preposti alla verifica della responsabilita' penale. Quindi i contemperamenti volti a risolvere il problema del conflitto degli interessi contrapposti non possono che essere ricercati su altri piani. Ed invero, lo si e' piu' volte detto, il processo introdotto nel 1988 - tendenzialmente accusatorio -, ha fatto proprio e valorizzato come principio cardine quello dell'oralita' - id est, formazione della prova in dibattimento, cioe' nel contraddittorio delle parti di fronte al giudice terzo investito del potere di decidere nel merito del processo -. Cio', tra l'altro in armonia con il disposto dell'art. 6, comma 2, lett. d), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. L'intendimento di una maggiore salvaguardia del contraddittorio nella formazione della prova, del resto, e' apparso uno degli scopi fondamentali che hanno mosso l'azione del legislatore del 1997. Seppure a mezzo di meccanismi processuali irrazionali e' palese l'intenzione di costruire il contraddittorio, sub specie di diritto all'esame e controesame, come diritto delle parti. Tanto premesso, e' pero' pure palese che una delle condizioni per lo sviluppo del contraddittorio, quando esso assume forma genetica della prova cioe' la forma dell'esame incrociato, e' che il soggetto che vi e' sottoposto sia gravato dell'obbligo di rispondere alle domande che gli vengono rivolte. Se tale condizione non sussiste, invero, si concede al soggetto in questione il potere di vanificare l'altrui diritto all'esame e controesame. D'altra parte e' scontato, almeno nel nostro ordinamento processuale penale, che elementi di accusa possano provenire da coimputati od imputati in procedimento connesso, peraltro titolari, come tali, della facolta' di non rispondere. Ebbene, mentre la concessione alle parti di un diritto di veto rispetto all'acquisizione delle dichiarazioni rese senza contraddittorio dagli imputati in procedimento connesso divenute irripetibili finisce per ledere irreparabilmente il razionale esercizio dell'azione penale, l'indefettibilita' della giurisdizione e lo scopo stesso del processo, la acquisizione immediata di tali dichiarazioni finisce per ledere il diritto di azione e/o difesa delle parti sub specie di diritto all'esame ed al controesame. Si privano le parti del potere di fare domande, ricevere risposte, dialettizzare, rispetto ad esse, l'elemento di prova acquisito nelle indagini attraverso le contestazioni. Cio' posto - considerando come fondamento della costruzione ordinamentale da un lato la stessa prospettiva del legislatore del 1988 e del 1997 e cioe' l'intangibilita' del diritto al contraddittorio e, dall'altro, i principi di uguaglianza, legalita', obbligatorio esercizio dell'azione penale, funzione conoscitiva del processo e del dibattimento, indefettibilita' della giurisdizione -, diviene irrazionale riconoscere, al coimputato od all'imputato in procedimento connesso che abbiano reso al pubblico ministero dichiarazioni che costituiscono elemento indiziante a carico di determinati soggetti, la facolta' di non rispondere nel dibattimento a carico di quei soggetti. In tali limiti non appare manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 210, comma 4, e 513, comma 2, c.p.p. E' superfluo sottolineare che un'eventuale declaratoria di illegittimita' costituzionale delle norme predette e nei limiti suindicati consentirebbe a tutte le parti di esercitare il proprio diritto all'esame - con le correlative ed eventuali contestazioni -, mentre non introdurrebbe per gli imputati in procedimento connesso l'obbligo di dire la verita', con le correlative sanzioni. Dichiarazioni rese in sede di esame e contestazioni sarebbero ovviamente valutabili dal giudice ai fini della decisione. In sostanza, l'unica via razionale aperta alla soluzione del problema in questione - posti i vincoli di principio dell'indefettibilita' della giurisdizione, dell'obbligatorio esercizio dell'azione penale, della funzione conoscitiva del processo, del diritto di difesa degli imputati e degli imputati in procedimento connesso - e' quella di ritenere che, a fronte di dichiarazioni indizianti rese da un soggetto nei confronti di altri, il diritto di difesa del dichiarante si affievolisca di fronte al diritto di difesa dei chiamati in causa - sub specie di diritto ad interrogarlo sulle accuse direttamente od indirettamente rivolte loro -. La ragionevolezza di tale affievolimento si apprezza anche in considerazione del fatto che, quando in sede penale - indagini o dibattimento -, un soggetto sottoposto ad indagine o un imputato rivolge accuse ad altri compie un atto che ha due effetti: da un lato esercita in quel modo preciso il suo diritto di difesa, con tutti i benefici e gli inconvenienti del caso, dall'altro impone all'autorita' giudiziaria (art. 112 della Costituzione) di approfondire quelle affermazioni, con tutte le conseguenze in termini sia di eventuale sacrificio degli altrui diritti individuali in sede cautelare, sia di dispendio di energie degli organi pubblici preposti all'accertamento. Date le conseguenze di un tale comportamento - universalmente note a qualsiasi cittadino - non e' possibile esimere il dichiarante da una assunzione di responsabilita' che comporti, quanto meno, l'obbligo di rispondere alle domande rivoltegli in sede di esame e controesame. Del resto, il diritto di difesa del dichiarante non e' del tutto cancellato, posto che egli manterrebbe - in quanto non trasformato in testimone, anche se con i limiti del caso (artt. 367 e ss. c.p.) - la facolta' di dare versioni diverse, ritrattare, perfino mentire, facolta' pure essa ritenuta, fino ad oggi, espressione del diritto di difesa. D'altro canto proprio le virtu' euristiche dell'esame dibattimentale - nelle quali il legislatore mostra di riporre la massima fiducia -, oltre che l'intero sistema processuale nel suo complesso garantiscono piu' che a sufficienza dal pericolo che le menzogne dibattimentali vengano recepite in sentenza o, quanto meno, riducono tale pericolo rispetto al livello che esso attinge quando vengono acquisite dichiarazioni assunte da una parte senza contraddittorio e divenute irripetibili. Al legislatore rimarrebbe, comunque, sia la valutazione se il dichiarante-accusatore debba o no essere equiparato al testimone, sia, in caso contrario, la decisione circa l'introduzione - ovviamente opportuna poiche' costituente una forma di tutela dell'effettivita' del contraddittorio - di un nuovo reato contro l'amministrazione della giustizia avente come fattispecie obiettiva l'omessa risposta a domande rivolte nel corso dell'esame ad imputati in procedimento connesso che abbiano reso al p.m. od alla p.g. dichiarazioni indizianti a carico degli imputati. Occorre infine notare che la questione di legittimita' di cui si discorre e' stata trattata per ultima per mera comodita' espositiva dei complessi problemi sottostanti a quelle dianzi considerate. Tuttavia essa si pone come preliminare rispetto a quella concernente l'art. 513, comma 2, come modificato dall'art. 1, legge n. 267 del 1997. E' chiaro infatti che, qualora venisse accolta la eccezione di cui qui si discorre, verrebbe meno uno dei presupposti fondamentali su cui e' costruita l'attuale disciplina dell'acquisizione delle dichiarazioni degli imputati in procedimento connesso e si determinerebbe immediatamente, in base a questo dato nuovo, la necessita' di verificare la compatibilita' costituzionale di una disciplina che affida alla volonta' delle parti il potere di interdire l'acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali di chi - a questo punto illegittimamente -, rifiuta di rispondere. Ritiene il Collegio che tutti i motivi che rendono non manifestamente infondata la questione concernente l'attuale testo dell'art. 513, comma 2, c.p.p., non possano che essere ribaditi con forza ed a maiori anche con riferimento a questa nuova situazione. Inoltre l'illegittimo rifiuto di rispondere puo' conferire in astratto alle precedenti dichiarazioni o particolare credibilita' - perche' sono acquisiti elementi dai quali si ricava che l'imputato di reato connesso ha rifiutato di rispondere a causa di minacce od offerte di utilita' ovvero "risultano altre situazioni che hanno compromesso la genuinita' dell'esame" (art. 500, comma 5, c.p.p.) - oppure particolare inaffidabilita', potendosi ipotizzare che l'illegittimo rifiuto di rispondere sia assimilabile ad una attendibile ritrattazione. Orbene, un problema del genere appare ovviamente irresolubile in astratto - cioe' mediante disciplina legislativa - e, per sua natura, non puo' che essere risolto caso per caso nell'ambito del singolo processo e, cioe', sottoposto prima al contraddittorio delle parti e poi al razionale e motivato convincimento giudiziale, affinche' sia resa una giusta decisione nella situazione concreta. Si deve concludere, quindi, che accolta quest'ultima eccezione, non e' manifestamente infondata la questione di legittimita' dell'art. 513, comma 2, c.p.p. - come sostituito dall'art. 1, legge n. 267 del 1997 - nella parte in cui subordina al consenso delle parti l'acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali degli imputati in procedimento connesso che comunque si rifiutino di rispondere. E' appena il caso di rilevare, infine, che, come si evince agevolmente da quanto detto, le questioni di legittimita ritenute rilevanti e non manifestamente infondate vengono sollevate in subordine l'una rispetto all'altra.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, ritenutane la rilevanza e non manifesta infondatezza; Solleva: I) per violazione degli artt. 3, 24, comma secondo, 25, comma secondo, 101, 102, comma primo, 111, 112 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale degli artt. 210, comma 4, e 513, c.p.p. nella parte in cui prevedono che l'imputato in procedimento connesso che abbia reso al pubblico ministero dichiarazioni direttamente od indirettamente indizianti a carico di determinati soggetti, possa avvalersi, nel dibattimento a carico di quei soggetti, della facolta' di non rispondere; II) in subordine al rigetto della qustione sub I), questione di legittimita', per violazione degli artt. 3, 25, comma secondo, 101, 102, comma primo, 111, 112 della Costituzione, dell'art. 513, comma 2, c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge n. 267 del 1997, nella parte in cui subordina soltanto all'accordo delle parti la lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese al pubblico ministero dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p. qualora, presentatesi per l'esame dibattimentale, si siano avvalse della facolta' di non rispondere; III) in subordine all'accoglimento della questione sub I), questione di legittimita', per violazione degli artt. 3, 25, comma secondo, 101, 102, comma primo, 111, 112 della Costituzione, dell'art. 513, comma 2, c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge n. 267 del 1997, nella parte in cui subordina soltanto all'accordo delle parti la lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese al pubblico ministero dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p. qualora, sottoposte ad esame dibattimentale, si siano rifiutate di rispondere; Sospende il processo; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina che la presente ordinanza sia notificata, a cura della cancelleria, al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata al Presidente del Senato della Repubblica e al Presidente della Camera dei deputati. Milano, addi' 28 ottobre 1997 Il presidente: d'Antonio Il giudice estensore: Mambriani 98C0523