N. 343 ORDINANZA (Atto di promovimento) 19 marzo 1998
N. 343 Ordinanza emessa il 19 marzo 1998 dalla Corte d'assise di Agrigento nel procedimento penale a carico di Guella Giuseppe ed altro Processo penale - Dibattimento - Esame di persona imputata in procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere - Lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari - Preclusione per il giudice salvo l'accordo delle parti - Lamentata dispersione di mezzi di prova - Irragionevolezza - Disparita' di trattamento tra imputati sotto diversi profili - Lesioni dei principi di indipendenza del giudice e di obbligatorieta' dell'azione penale - Incidenza sul principio del libero convincimento dei giudice. (C.P.P. 1988, art. 513, comma 2, modificato dalla legge 7 agosto 1997, n. 267). (Cost., artt. 2, 3, 24, 101, 102, 111 e 112).(GU n.20 del 20-5-1998 )
LA CORTE DI ASSISE Ha emesso la seguente ordinanza nel processo penale n. 14/97 nei confronti di: Guella Giuseppe, nato a Giuliana (Palermo) il 10 settembre 1952, Colletti Giovanni nato a Giuliana (Palermo) il 31 maggio 1949, entrambi imputati dei reati di cui: a) agli artt. 110, 575 c.p.; b) agli artt. 61 n. 2, 110 c.p., 10, 12 e 14 legge n. 497/74; c) agli artt. 110, 648 c.p., il Guella in stato di custodia cautelare in carcere dal 26 marzo 1997 ed il Colletti, pure arrestato il 26 marzo 1997, agli arresti domiciliari dal 2 marzo 1998; decidendo sulla richeista formulata dal p.m. di sollevare eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 513, comma 2, c.p.p. e dell'art. 6, commi 2 e 5, legge n. 267/1997. Considerato in fatto In data 19 gennaio 1998 la Corte, sentite le richieste avanzate dalle parti, emetteva ordinanza di ammissione delle prove, tra le quali l'esame dell'indagato per reato connesso De Marco Salvatore sulla conforme istanza del p.m. All'udienza del 26 febbraio 1998, fissata per l'esame di questi, il De Marco Salvatore si avvaleva della facolta' di non rispondere; Di seguito a tale rifiuto il p.m. chiedeva che venisse data lettura delle dichiarazioni rese, nel corso delle indagini preliminari, dal predetto indagato al p.m. di Marsala e Sciacca in date 10 marzo 1995, 4 maggio 1995, 11 luglio 1996, 28 dicembre 1996, sulla considerazione che il caso di specie fosse regolato dalla disposizione transitoria di cui all'art. 6, commi 2 e 5 della legge n. 267/1997; La Corte, in esito a tale istanza, la rigettava ritenendo che la norma invocata non trovasse applicazione nell'ipotesi considerata. In conseguenza, il p.m., preso atto del mancato accordo delle parti sulla lettura per l'opposizione dei difensori degli imputati Guella e Colletti, all'udienza del 12 marzo 1998, instava affinche' questa Corte sollevasse questione di legittimita' costituzionale relativamente all'art. 513, comma 2, c.p.p. nella parte in cui subordina all'intervenuto accordo fra le parti in giudizio, la lettura dei verbali contenenti dichiarazioni rese dalle persone indicate all'art. 210 c.p.p. che si siano avvalse della facolta' di non rispondere nonche' con riguardo all'art. 6, commi 2 e 5, legge n. 267/1997 nella parte in cui stabilisce che esclusivamente nel caso in cui l'imputato di reato connesso si sia gia' avvalso in dibattimento della facolta' di non sottoporsi all'esame e sia stata gia' data lettura delle dichiarazioni dallo stesso rese in fase predibattimentale, e' possibile, attraverso una nuova convocazione del medesimo, acquisire le precedenti dichiarazioni rese al p.m. A tal fine il rappresentante della pubblica accusa svolgeva le proprie argomentazioni in una memoria che depositava nella stessa udienza. I difensori degli imputati Guella e Colletti chiedevano il rigetto dell'eccezione. Osservato in diritto 1. - Tanto premesso, ritiene la Corte che non sussistano i presupposti per devolvere alla Consulta la questione relativa alla verifica di costituzionalita' dell'art. 6, commi 2 e 5, legge n. 267/1997 sotto il profilo della manifesta infondatezza della censura cosi' mossa alla norma in esame. Il p.m. ha dedotto il contrasto tra questa norma e gli artt. 3, 101 e 112 della Costituzione ove non disciplina l'ipotesi in cui pur essendo iniziato il giudizio alla data di entrata in vigore della riforma l'indagato di reato connesso o collegato non sia stato ancora sottoposto ad esame, avvalendosi della facolta' di non rispondere, con cio' sostanzialmente sancendo una disparita' di trattamento di fattispecie omogenee nella misura in cui rimette l'acquisizione della fonte di prova al fascicolo dibattimentale, mediante il sistema di recupero di cui ai commi 2 e 5, ad una serie di circostanze puramente casuali quali la fissazione della prima data per il dibattimento o la scelta dell'ordine di escussione o di esame. Del pari, rimarrebbe vulnerato il principio generale del tempus regit actum mediante l'attribuzione alle dichiarazioni recuperate secondo il detto meccanismo di un singolare rilievo probatorio a meta' fra quello della precedente e della attuale disciplina ex art. 513 c.p.p. Da ultimo, la pubblica accusa rilevava il contrasto della norma citata con il principio di non dispersione della prova legittimamente acquisita in fase di indagine e della priorita' della ricerca della verita' processuale, con la conseguenza di offendere il principio di coerenza logica della sentenza di cui all'art. 111 della Costituzione e rendere possibile pronunce giudiziali intrinsecamente contraddittorie. Orbene, va in proposito considerato come la norma in questione non costituisce un meccanismo di recupero di dichiarazioni gia' rese dai soggetti indicati nell'art. 210 c.p.p., ma fornisce il criterio limitativo di valutazione della sola prova gia' acquisita, nel tentativo di disciplinare la sorte del materiale probatorio nel guado tra vecchia e nuova normativa. Nel compiere tale operazione il legislatore, consapevole della impossibilita' di creare una categoria di "inutilizzabilita' sopravvenuta", ha scelto di improntare la disciplina transitoria agli stessi principi ispiratori della riforma. Si deve allora riconoscere come la norma in questione produca i suoi effetti su un terreno affatto diverso da quello presupposto dal p.m. nel muovere le proprie censure, di guisa che, in primo luogo, non si riscontra omogeneita' tra fattispecie regolate, sulla considerazione della diversita' tra l'ipotesi in cui la prova si sia gia' pienamente formata e quella in cui invece le dichiarazioni non siano ancora entrate, con dignita' probatoria, nel dibattimento. In secondo luogo, giova osservare come la detta inversione di prospettiva nell'analisi della norma in questione finisca per fare del criterio di applicazione, censurato di irragionevolezza perche' casuale; il presupposto oggettivo da regolare nella fase di applicazione transitoria della disposizione processuale riformata; con la conseguenza che, fermo il principio del tempus regit actum, non e' stata creata una speciale valenza probatoria per il materiale gia' acquisito ma e' stato invece regolato un fenomeno che di necessita' si prospettava con tratti peculiari al legislatore al momento dell'intervento su una realta' inevitabilmente in movimento come quella processuale. Il tutto nell'ottica di incrementare l'equiordinato principio della formazione della prova nel contraddittorio dibattimentale. Va quindi ribadito che la norma in esame si applica alla sola ipotesi in cui, prima della sua entrata in vigore, sia stata disposta la lettura ovvero siano stati acquisiti ex art. 513 c.p.p. i verbali delle dichiarazioni rese al p.m. alla polizia giudiziaria su delega del p.m., al giudice per le indagini preliminari o dell'udienza preliminare. Ove invece, come nel caso di specie, al tempo della entrata in vigore della norma non si sia ancora svolto l'esame dell'indagato/imputato di reato connesso/collegato, la disposizione regolatrice va rinvenuta nell'art. 513 c.p.p. come modificato dall'art. 1 della legge n. 267/1997. 2. - Con riguardo a tale ultima norma, gia' alla luce della indicazione delle fonti di prova come elencate nel decreto che dispone il giudizio, di quanto esposto dal p.m. nella relazione introduttiva e delle richieste di prova da questo pure formulate ex art. 493 c.p.p. ed accolte da questa Corte con provvedimento del l9 gennaio 1998 non puo' non ritenersi - indipendentemente dalla produzione, in questa fase, delle dichiarazioni di cui si chiede l'acquisizione - la rilevanza della dedotta questione di legittimita' costituzionale in relazione al comma 2, dell'art. 513 c.p.p. atteso peraltro che l'impianto accusatorio poggia, come risulta dagli elementi sopra evidenziati, in larga parte sulle dichiarazioni dell'indagato per reato connesso De Marco Salvatore le quali, proprio ai sensi della cennata disposizione, non possono essere acquisite al dibattimento essendosi avvalso il De Marco della facolta' di non rispondere e non essendosi formato l'accordo delle parti in ordine alla acquisizione dei relativi verbali. La questione, inoltre, non appare manifestamente infondata. La previsione della radicale inutilizzabilita' delle dichiarazioni rese dalle persone di cui all'art. 210 c.p.p., fissata a priori, in favore dell'imputato che non presta il proprio consenso, contrasta, innanzi tutto, con il criterio della ragionevolezza, ledendo il fondamentale principio della non dispersione dei mezzi di prova che e' stato affermato ripetutamente dalla Corte costituzionale. Ha rilevato la Corte nella nota sentenza 3 giugno 1992, n. 255 (con la quale ha dichiarato l'incostituzionalita', per violazione dell'art. 3 Cost., dell'art. 500, comma 4, c.p.p. nella parte in cui non prevedeva l'acquisizione nel fascicolo per il dibattimento, se utilizzate per le contestazioni previste dai commi 1 e 2, delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fasciolo del p.m.) che l'oralita', assunta a principio ispiratore del nuovo sistema processuale, non rappresenta nella disciplina del codice, il veicolo esclusivo di formazione della prova nel dibattimento, cio' perche' fine primario ed ineludibile del processo penale non puo' che rimanere quello della ricerca della verita' (in armonia coi principi della Costituzione) di guisa che in taluni casi in cui la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente, e' dato rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad atti formatisi prima ed al di filori del dibattimento. che la volonta' del legislatore esprima anche un principio di non dispersione dei mezzi di prova - continua la Corte costituzionale - emerge con evidenza da tutti quegli istituti che recuperano al fascicolo del dibattimento, e quindi all'utilizzazione probatoria, atti non suscettibili di essere surrogati (o compiutamente o genuinamente surrogati) da una prova dibattimentale: in tal senso depongono le disposizioni, ad es. sugli atti irripetibili (artt. 431 e 512), sull'acquisizione di dichiarazioni rese dai testi o dall'imputato se utilizzate per le contestazioni nell'esame (art. 500, comma 4, e 503, comma 5). Siffatti istituti derogano al principio dell'oralita' e dell'immediatezza dibattimentale che non e' regola assoluta bensi' criterio guida del nuovo processo e tendono a contemperare il rispetto del metodo orale con l'esigenza di evitare la "perdita", ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede. La Corte aveva avuto gia' modo di sottolineare l'importanza del principio di non dispersione dei mezzi di prova: la dichiarazione di illegittimita' costituzionale del comma 4, dell'art. 195 consente ora, attraverso la testimonianza de relato della polizia giudiziaria il recupero di elementi probatori acquisiti nella fase delle indagini; del pari con sentenza n. 254 del 1992 veniva dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 513, comma 2, per violazione dell'art. 3 Cost., nella parte in cui non prevedeva che il giudice disponeva la lettura dei verbali delle dichiarazioni di cui al primo comma del medesimo articolo, rese dalle persone indicate nell'art. 210, che si avvalgono della facolta' di non rispondere. Nella sentenza n. 255/1992 la Corte costituzionale ha, dunque, concluso con l'affermare che il sistema accusatorio positivamente instaurato ha prescelto la dialettica del contraddittorio dibattimentale quale criterio maggiormente rispondente all'esigenza di ricerca della verita', ma accanto al principio dell'oralita' e' presente, nel nuovo sistema processuale, il principio di non dispersione degli elementi di prova non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili con il metodo orale. Nella sentenza n. 254 del 3 giugno 1992 citata, la Corte rileva che il legislatore delegato, nel dettare l'art. 513, comma 1, c.p.p., il quale consentiva la lettura delle dichiarazioni precedentemente rese dall'imputato qualora questi era contumace, assente ovvero si rifiutava di sottoporsi all'esame, ha inteso comprendere nei casi di sopravvenuta impossibilita' di ripetizione dell'atto (di cui alla direttiva 76 della legge delega) anche l'indisponibilita' dello stesso imputato all'esame; e cio' in linea con il criterio, rinvenibile in varie disposizioni del codice, tendente a contemperare il rispetto del principio guida dell'oralita' con l'esigenza di evitare la perdita, ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede. Ancora piu' recentemente, proseguendo nella strada di indicare principi costituzionali certi in materia di acquisizione ed utilizzabilita' delle prove, la Corte costituzionale, sempre sulla base del principio secondo il quale fine centrale del processo e' la ricerca della verita', con la sentenza n. 179 del 16 maggio 1994 ha confermato il proprio orientamento relativamente all'ipotesi dell'esercizio della facolta' di astenersi dal deporre riservata dal-l'art. 199 c.p.p. ai prossimi congiunti dell'imputato. Cio' posto, il principio della non dispersione dei mezzi di prova, che ha alla base la funzione primaria dell'ordinamento processuale che e' quella dell'accertamento della verita', non puo' ora non essere richiamato, dato che il complessivo assetto dell'ordinamento non ha subito modifiche diverse da quelle introdotte dalla legge 7 agosto 1997, n. 267, il cui art. 1 ha modificato l'art. 513 c.p.p., oggetto di censura. Se, dunque, la Corte costituzionale nella citata sentenza n. 179/1994 ha affermato che l'esercizio del diritto di non rispondere costituisce una "oggettiva e non prevedibile" causa di "impossibilita' di ripetizione dell'atto dichiarativo", appare irragionevole, sulla base appunto dei criteri fissati dallo stesso organo costituzionale, escludere l'irripetibilita' delle dichiarazioni precedentemente rese dall'imputato o indagato di reato connesso che presentandosi si avvalga della facolta' di non rispondere (come dell'imputato che si rifiuti di sottoporsi all'esame). In entrambi i casi l'atto e' irripetibile e cio' basta, in armonia con i principi fissati dalla Corte costituzionale, perche' il giudice debba potersene avvalere liberamente al fine di pervenire ad una sentenza giusta, adempiendo al precetto costituzionale di cui all'art. 101 comma secondo della Costituzione. La disciplina introdotta dalla legge n. 267/1997 e' affetta, sotto questo profilo, da irragionevolezza violando l'art. 3 della Costituzione e determinando un conflitto ineliminabile tra diritto di difesa ed esercizio della funzione giurisdizionale il cui fine primario e' - come si e' detto - quello della ricerca della verita'. Basti rilevare che nell'ipotesi in cui le dichiarazioni predibattimentali concernono piu' coimputati del medesimo reato, ben potrebbe verificarsi che il patrimonio conoscitivo utilizzabile dal giudice per la sua decisione, pur essendo il medesimo, possa essere diverso per ciascun imputato, a secondo della utilizzabilita' o meno delle dichiarazioni, dipendente dal potere dispositivo concesso alle parti private dall'art. 513 c.p.p. Tale scelta - come posto in evidenza dal rappresentante del p.m. - puo' quindi condurre alla situazione paradossale in cui le medesime dichiarazioni in ordine allo stesso fatto-reato portino alla condanna per l'imputato che presta il suo consenso alla lettura ex art. 513 ed all'assoluzione per chi si sia opposto a tale lettura con evidente violazione del principio di cui agli artt. 3, 101, secondo comma, e 111 della Costituzione secondo il quale la decisione dell'organo giudicante deve essere il frutto del razionale e motivato convincimento del giudice. Opinando diversamente si consentirebbe, attraverso l'introduzione nel sistema di norme che irrazionalmente impongono al giudice, nel contesto della stessa decisione, di fondare la propria valutazione solo su quegli elementi probatori consentiti dalla insindacabile volonta' delle parti, una sostanziale limitazione del potere-dovere del giudice di accertare la verita'. Appare dunque evidente che in siffatta situazione si determina un contrasto tra il fine imposto al giudice della ricerca della verita' e gli strumenti processuali che gli sono offerti; situazione che contrasta con i principi costituzionali, poiche' la legge tutelando sino all'estremo limite il diritto al contraddittorio finisce per sacrificare l'esercizio della stessa giurisdizione, quando un ordinamento improntato al principio di legalita' e di obbligatorieta' dall'azione penale, che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate, non puo' tollerare norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione. La violazione del principio di non dispersione delle prove non appare affatto scongiurata - a giudizio di questa Corte di assise - dalla previsione del meccanismo dell'incidente probatorio, benche' svincolato dai requisiti previsti in via geerale dall'art. 392 c.p.p., ove anche si ritenesse possibile il ricorso a tale istituto nella fase di giudizio precedente la lettura, poiche' in tale sede resta comunque ferma la facolta' di non rendere dichiarazioni; e' evidente, dunque, che l'adozione di tale meccanismo, prescelto dal legislatore della novella proprio per rifuggire da accuse di incostituzionalita', anziche' tradursi in valvola di sicurezza del sistema, si riduce ad una mera anticipazione della prova, senza assicurare tuttavia l'effettiva acquisizione al processo. E nel caso di specie nulla autorizza ad ipotizzare che il De Marco avrebbe tenuto un atteggiamento diverso se si fosse trovato non in dibattimento dinanzi alla Corte, ma in sede di incidente probatorio avanti al giudice per le indagini preliminari. Va, inoltre, osservato che il legislatore riservando all'insindacabile scelta delle parti private l'utilizzazione delle dichiarazioni rese in precedenza, ha rimesso in definitiva alla totale disponibilita' delle parti l'ingresso della prova in dibattimento, condizionando l'esercizio stesso dell'azione penale e rendendo disponibile la stessa res iudicanda. La Corte costituzionale nella sentenza n. 111 del 24-26 marzo 1993, premesso che il processo penale italiano, come "processo di parti", nella misura in cui evoca lo schema di una contesa tra parti contrapposte operanti sul medesimo piano, non puo' non considerare che il pubblico ministero e' un magistrato indipendente appartenente all'ordine giudiziario "che non fa valere interessi particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell'interesse generale all'osservanza della legge", ha escluso che il nostro ordinamento processuale sia improntato al principio dispositivo in materia di prova, riconoscendo "incontroverso che sarebbe contrario ai principi costituzionali di legalita' ed obbligatorieta' dell'azione penale concepire come disponibile la tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale. Cio' invero significherebbe, da un lato, recidere il legame strutturale e funzionale tra lo strumento processuale e l'interesse sostanziale pubblico alla repressione dei fatti criminosi che quei principi intendono garantire, dall'altro, contraddire all'esigenza, ad essi correlata, che la responsabilita' penale sia riconosciuta solo per i fatti realmente commessi, nonche' al carattere indisponibile della liberta' personale. Sotto questo profilo, e' significativo che il nuovo codice non conosca procedure in cui la concorde richiesta delle parti svincoli il giudice sul merito della decisione; prova ne sia che ad un simile esito non conduce neanche l'istituto dell'applicazione di pena su richiesta. Ma l'assunzione di un principio dispositivo in materia di prova non trova riscontro nella normativa positiva nonche' sul terreno del giudizio ordinario. Il metodo dialogico di formazione della prova e' stato, invero, prescelto come metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente idoneo al loro per quanto piu' possibile pieno accertamento, e non come strumento per far programmaticamente prevalere una verita' formale risultante dal mero confronto dialettico tra le parti sulla verita' reale: altrimenti, ne sarebbe risultata tradita la funzione conoscitiva del processo, che discende dal principio di legalita' e da quel suo particolare aspetto costituito da principio di obbligatorieta' dell'azione penale". Spetta, pertanto, al giudice - rileva la Corte costituzionale - il "potere-dovere di integrazione anche di ufficio delle prove, per l'ipotesi in cui la carenza o insufficienza, per qualsiasi ragione, dell'iniziativa delle parti impedisca al dibattimento di assolvere la funzione di assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto del processo, onde consentirgli di pervenire ad una giusta decisione". La funzione del giudice, dunque, puo' e deve essere anche di supplenza dell'inerzia delle parti e deve esplicarsi in modo che tutto il tema della decisione gli possa essere chiarito. Con l'avere condizionato l'utilizzo da parte del giudice di elementi di prova irripetibili raccolti durante le indagini al consenso dell'imputato a carico del quale tali elementi spiegano la loro efficacia probatoria, si consente all'imputato stesso, discrezionalmente ed immotivatamente di impedire l'accertamento del fatto e vietare al giudice di pervenire all'accertamento della verita'. Si consente all'imputato, disponendo della prova a suo carico, di disporre indirettamente dell'oggetto stesso del processo, in violazione degli artt. 3 della Costituzione (violazione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza poiche' si lede il principio di parita' tra accusa e difesa e perche' ad un'analogia di posizioni sostanziali tra imputati potrebbe far riscontro una diversita' di situazioni processuali), 101 e 111 (disattendendo il duplice canone della sottoposizione del giudice alla sola legge e del libero motivato apprezzamento, facendo dipendere l'esercizio della giurisdizione non dal convincimento del giudice, formulato sulla base delle prove raccolte, bensi' dal consenso immotivato dell'imputato o degli imputati interessati), 102 (poiche' la funzione giurisdizionale non puo' essere razionalmente esercitata se al giudice viene resa impossibile una compiuta conoscenza delle circostanze su cui deve pronunciarsi), 2 e 24 (poiche' tra i soggetti che hanno diritto a far valere giudizialmente le proprie pretese, sono ricomprese indubbiamente anche le persone offese dai reati e tra queste lo Stato con il suo diritto-dovere alla persecuzione degli autori dei reati) e 112 (poiche' il principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale resterebbe vanificato dalle scelte discrezionali delle parti). Va aggiunto che se il potere dispositivo delle prove nel processo e' negato alle parti, a maggior ragione cio' deve valere per chi, come le persone di cui all'art. 210 c.p.p. e' estraneo al processo nel quale e' chiamato a rendere dichiarazioni. La norma impugnata, al contrario, consente di sottrarre una prova al vaglio del dibattimento, a seguito di un atto meramente discrezionale - e dunque potenzialmente immotivato - compiuto da un soggetto che neppure e' parte, come avviene nel caso in cui la persona esaminata ai sensi dell'art. 210 c.p.p. si avvalga della facolta' di non rispondere a cui si aggiunge l'ulteriore requisito dell'accordo delle parti, ai fini della possibilita' di acquisire tali dichiarazioni. Nel caso di specie, all'udienza del 26 febbraio 1998 De Marco Salvatore, collaboratore di giustizia gia' ammesso al programma di protezione, si e' rifiutato di rispondere motivando la sua scelta con il fatto che gli era stato revocato il programma di protezione. De Marco ha dunque usato la sua condizione processuale di fonte di prova per ottenere 1'esaudimento delle sue pretese e nulla ha a che vedere il suo comportamento con l'esercizio di un diritto di difesa. Tale sua scelta tuttavia, alla stregua della legge che si impugna, condiziona l'esercizio della giurisdizione assoggettata di fatto alle scelte incontrollabili dell'imputato di reato connesso. Ed e' appena il caso di osservare come il far dipendere l'esito di un processo dall'esercizio di un diritto siffatto esponga il titolare di questo diritto a pressioni, ricatti, blandizie varie che finirebbero, per ultimo, per costituire il vero sostrato di una sentenza di assoluzione o di condanna. Ne' da una eventuale pronuncia di incostituzionalita' della norma potrebbe scaturire un vulnus per il diritto di difesa dell'imputato che si esplica principalmente nella possibilita' della piena partecipazione all'attivita' dibattimentale mediante la critica e la valutazione degli elementi processuali legittimamente acquisiti dall'accusa; ed allo stesso imputato gia' noti, nonche' nella facolta' di fornire gli elementi probatori favorevoli alla sua posizione processuale, in contrasto con gli elementi di accusa contenuti nel fascicolo del p.m. Ulteriore aspetto di incostituzionalita' dell'art. 513, comma 2, c.p.p. concerne le evidenti disparita' di trattamento che si verificano in relazione ad altre situazioni. In primo luogo non appare giustificato il diverso trattamento che viene riservato dall'art. 5l3, comma 2, al caso in cui l'imputato di reato connesso si avvalga del diritto al silenzio, rispetto alle altre ipotesi, previste dallo stesso secondo comma, in cui non sia possibile ottenere la presenza in dibattimento, per fatti imprevedibili, dell'imputato di reato connesso, che determinano l'acquisibilita' delle sue dichiarazioni al fascicolo per il dibattimento senza alcuna necessita' di consenso. Altra disparita' di trattamento si ha con l'ipotesi prevista dall'art. 503 c.p.p. In base a tale articolo qualora l'imputato di reato connesso non rifiuti l'esame ne' si avvalga della facolta' di non rispondere ma, sottoponendosi all'esame dibattimentale, nega in tutto o in parte il contenuto delle dichiarazioni rese in precedenza, queste ultime possono essere utilizzate attraverso il meccanismo della contestazione ai sensi del comma 5, mentre invece la nuova formulazione dell'art. 513 preclude in assoluto qualsiasi possibilita' di utilizzazione nell'ipotesi del rifiuto a deporre: in questo modo si perviene ad un esito apparentemente paradossale, poiche' se l'imputato di reato connesso resta in silenzio il giudice non potra' fare uso, nei confronti di altri che non prestano il loro consenso, delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini; se invece l'imputato parla per negare quanto riferito in precedenza, i verbali delle dichiarazioni pregresse sono utilizzabili ai fini della prova, anche per dimostrare il contrario di quello che ha detto nel dibattimento. Altra irragionevole disparita' di trattamento si ha rispetto al regime previsto dall'art. 503, comma 5, per l'ipotesi di rifiuto da parte dei testi, quando risulta che il teste e' stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o altra utilita'. Cio' integra una evidente disparita', non essendo consentito al giudice alcun controllo sulla spontaneita' del rifiuto di rispondere, sulla presenza di forme di intimidazione, ne' al p.m. o alle altre parti private di poter provare eventuali forme di pressione sull'imputato o indagato di reato connesso gia' dichiarante al fine di ottenere il suo silenzio. Per le considerazioni che precedono la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513, comma 2, c.p.p. va ritenuta rilevante e non manifestamente infondata. Ai sensi dell'art. 23 legge 11 marzo 1953 n. 87 gli atti riguardanti gli imputati Guella Giuseppe e Colletti Giovanni vanno trasmessi alla Corte costituzionale ed il giudizio che riguarda i predetti imputati va sospeso fino all'esito del giudizio incidentale di legittimita' costituzionale.
P. Q. M. Visto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513, comma 2, c.p.p., come modificato dalla legge 7 agosto 1997, n. 267, per violazione degli artt. 2, 3, 24, 101, 102, 111 e 112 Cost.; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Sospende il giudizio in corso a carico di Guella Giuseppe e Colletti Giovanni fino all'esito del giudizio incidentale di legittimita' costituzionale; Ordina che la presente ordinanza sia notificata a cura della cancelleria al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata al Presidente del Senato della Repubblica e al Presidente della Camera dei deputati. Cosi' deciso in Agrigento il 19 marzo 1998. Il presidente: Ciccone 98C0524