N. 343 ORDINANZA (Atto di promovimento) 19 marzo 1998

                                N. 343
  Ordinanza emessa il 19 marzo 1998 dalla Corte d'assise di  Agrigento
 nel procedimento penale a carico di Guella Giuseppe ed altro
 Processo  penale  -  Dibattimento  -  Esame  di  persona  imputata in
    procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere
    - Lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese  nel  corso
    delle  indagini  preliminari  -  Preclusione  per il giudice salvo
    l'accordo delle parti - Lamentata dispersione di mezzi di prova  -
    Irragionevolezza  -  Disparita'  di trattamento tra imputati sotto
    diversi profili - Lesioni dei principi di indipendenza del giudice
    e  di obbligatorieta' dell'azione penale - Incidenza sul principio
    del libero convincimento dei giudice.
 (C.P.P. 1988, art. 513, comma 2,  modificato  dalla  legge  7  agosto
    1997, n. 267).
 (Cost., artt. 2, 3, 24, 101, 102, 111 e 112).
(GU n.20 del 20-5-1998 )
                          LA CORTE DI ASSISE
   Ha  emesso  la  seguente ordinanza nel processo penale n. 14/97 nei
 confronti di: Guella Giuseppe, nato  a    Giuliana  (Palermo)  il  10
 settembre  1952,  Colletti  Giovanni  nato a Giuliana (Palermo) il 31
 maggio 1949, entrambi imputati dei reati di cui: a) agli  artt.  110,
 575  c.p.;  b)  agli  artt.  61  n. 2, 110 c.p., 10, 12 e 14 legge n.
 497/74; c) agli artt. 110, 648 c.p., il Guella in stato  di  custodia
 cautelare in carcere dal 26 marzo 1997 ed il Colletti, pure arrestato
 il  26  marzo  1997,  agli  arresti  domiciliari  dal  2  marzo 1998;
 decidendo sulla richeista formulata dal p.m. di  sollevare  eccezione
 di  illegittimita'  costituzionale  dell'art.  513, comma 2, c.p.p. e
 dell'art. 6, commi 2 e 5, legge n. 267/1997.
                         Considerato in fatto
   In data 19 gennaio 1998 la Corte,  sentite  le  richieste  avanzate
 dalle  parti,  emetteva  ordinanza  di ammissione delle prove, tra le
 quali l'esame dell'indagato per reato  connesso  De  Marco  Salvatore
 sulla conforme istanza  del p.m.
   All'udienza del 26 febbraio 1998, fissata per l'esame di questi, il
 De Marco Salvatore si avvaleva della facolta' di non rispondere;
   Di seguito a tale rifiuto il p.m. chiedeva che venisse data lettura
 delle  dichiarazioni  rese, nel corso delle indagini preliminari, dal
 predetto indagato al p.m. di Marsala e Sciacca in date 10 marzo 1995,
 4 maggio 1995, 11 luglio 1996, 28 dicembre 1996, sulla considerazione
 che il caso di specie fosse regolato dalla  disposizione  transitoria
 di cui all'art. 6, commi 2 e 5 della legge n. 267/1997;
   La  Corte,  in  esito a tale istanza, la rigettava ritenendo che la
 norma invocata non trovasse applicazione nell'ipotesi considerata.
   In conseguenza, il   p.m., preso atto  del  mancato  accordo  delle
 parti  sulla  lettura  per l'opposizione dei difensori degli imputati
 Guella e Colletti, all'udienza del 12 marzo 1998,  instava  affinche'
 questa  Corte  sollevasse    questione di legittimita' costituzionale
 relativamente all'art. 513,   comma 2,  c.p.p.  nella  parte  in  cui
 subordina  all'intervenuto  accordo  fra  le  parti  in  giudizio, la
 lettura dei  verbali  contenenti  dichiarazioni  rese  dalle  persone
 indicate  all'art.  210 c.p.p. che si siano avvalse della facolta' di
 non rispondere nonche' con riguardo all'art. 6, commi 2 e 5, legge n.
 267/1997 nella parte in cui stabilisce che esclusivamente nel caso in
 cui l'imputato di reato connesso si sia gia' avvalso in  dibattimento
 della  facolta'  di  non  sottoporsi  all'esame e sia stata gia' data
 lettura   delle   dichiarazioni   dallo   stesso   rese    in    fase
 predibattimentale,  e'  possibile,  attraverso una nuova convocazione
 del medesimo, acquisire le precedenti dichiarazioni rese al p.m.
   A tal fine il rappresentante  della  pubblica  accusa  svolgeva  le
 proprie  argomentazioni  in  una  memoria che depositava nella stessa
 udienza.
   I difensori degli imputati Guella e Colletti chiedevano il  rigetto
 dell'eccezione.
                         Osservato in diritto
   1.  -  Tanto  premesso,  ritiene  la  Corte  che  non  sussistano i
 presupposti per devolvere alla Consulta la  questione  relativa  alla
 verifica  di  costituzionalita'  dell'art.  6,  commi 2 e 5, legge n.
 267/1997 sotto il profilo della manifesta infondatezza della  censura
 cosi' mossa alla norma in esame.
   Il p.m. ha dedotto il contrasto tra questa norma e gli artt. 3, 101
 e  112  della  Costituzione  ove  non disciplina l'ipotesi in cui pur
 essendo iniziato il giudizio alla data di  entrata  in  vigore  della
 riforma  l'indagato  di  reato    connesso  o collegato non sia stato
 ancora  sottoposto  ad  esame,  avvalendosi  della  facolta'  di  non
 rispondere,  con  cio'  sostanzialmente  sancendo  una  disparita' di
 trattamento di fattispecie  omogenee  nella  misura  in  cui  rimette
 l'acquisizione  della  fonte  di  prova  al fascicolo dibattimentale,
 mediante il sistema di recupero di cui ai commi 2 e 5, ad  una  serie
 di circostanze puramente casuali quali la fissazione della prima data
 per il dibattimento o la scelta dell'ordine di escussione o di esame.
 Del pari, rimarrebbe vulnerato il principio generale del tempus regit
 actum  mediante  l'attribuzione alle dichiarazioni recuperate secondo
 il detto meccanismo di un singolare rilievo probatorio  a  meta'  fra
 quello della precedente e della attuale disciplina ex art. 513 c.p.p.
 Da  ultimo,  la  pubblica  accusa  rilevava  il contrasto della norma
 citata con il principio di non dispersione della prova legittimamente
 acquisita in fase di indagine e della priorita' della  ricerca  della
 verita'  processuale, con la conseguenza di offendere il principio di
 coerenza logica della sentenza di cui all'art. 111 della Costituzione
 e   rendere    possibile    pronunce    giudiziali    intrinsecamente
 contraddittorie.
    Orbene, va in proposito considerato come la norma in questione non
 costituisce  un meccanismo di recupero di dichiarazioni gia' rese dai
 soggetti indicati nell'art.  210  c.p.p.,  ma  fornisce  il  criterio
 limitativo  di  valutazione  della  sola  prova  gia'  acquisita, nel
 tentativo di disciplinare la sorte del materiale probatorio nel guado
 tra vecchia e  nuova  normativa.  Nel  compiere  tale  operazione  il
 legislatore,   consapevole   della   impossibilita'   di  creare  una
 categoria  di  "inutilizzabilita'   sopravvenuta",   ha   scelto   di
 improntare  la disciplina transitoria agli stessi principi ispiratori
 della riforma.
   Si deve allora riconoscere come la norma  in  questione  produca  i
 suoi  effetti su un terreno affatto diverso da quello presupposto dal
 p.m. nel muovere le proprie censure, di guisa che,  in  primo  luogo,
 non   si   riscontra  omogeneita'  tra  fattispecie  regolate,  sulla
 considerazione della diversita' tra l'ipotesi in cui la prova si  sia
 gia'  pienamente  formata e quella in cui invece le dichiarazioni non
 siano ancora entrate, con dignita' probatoria, nel  dibattimento.  In
 secondo   luogo,   giova   osservare  come  la  detta  inversione  di
 prospettiva nell'analisi della norma in questione  finisca  per  fare
 del  criterio  di applicazione, censurato di irragionevolezza perche'
 casuale;  il  presupposto  oggettivo  da  regolare  nella   fase   di
 applicazione  transitoria  della  disposizione processuale riformata;
 con la conseguenza che, fermo il principio del  tempus  regit  actum,
 non  e' stata creata una speciale valenza probatoria per il materiale
 gia' acquisito ma  e'  stato  invece  regolato  un  fenomeno  che  di
 necessita'  si  prospettava  con  tratti  peculiari al legislatore al
 momento dell'intervento su una realta' inevitabilmente  in  movimento
 come   quella  processuale.  Il  tutto  nell'ottica  di  incrementare
 l'equiordinato   principio   della   formazione   della   prova   nel
 contraddittorio dibattimentale.
    Va  quindi  ribadito  che  la  norma in esame si applica alla sola
 ipotesi in cui, prima della sua entrata in vigore, sia stata disposta
 la lettura ovvero siano stati acquisiti ex art. 513 c.p.p. i  verbali
 delle  dichiarazioni  rese al p.m. alla polizia giudiziaria su delega
 del p.m., al giudice  per  le  indagini  preliminari  o  dell'udienza
 preliminare.
   Ove  invece,  come  nel  caso  di specie, al tempo della entrata in
 vigore  della   norma   non   si   sia   ancora   svolto      l'esame
 dell'indagato/imputato  di  reato connesso/collegato, la disposizione
 regolatrice  va  rinvenuta  nell'art.  513  c.p.p.  come   modificato
 dall'art. 1 della legge n. 267/1997.
   2.  -    Con  riguardo  a  tale  ultima norma, gia' alla luce della
 indicazione delle fonti  di  prova  come  elencate  nel  decreto  che
 dispone  il  giudizio,  di  quanto  esposto  dal p.m. nella relazione
 introduttiva e delle richieste di prova da questo pure  formulate  ex
 art.  493  c.p.p. ed accolte da questa Corte con provvedimento del l9
 gennaio  1998  non  puo'  non  ritenersi  -  indipendentemente  dalla
 produzione,  in  questa  fase,  delle  dichiarazioni di cui si chiede
 l'acquisizione - la rilevanza della dedotta questione di legittimita'
 costituzionale in relazione al comma 2, dell'art.  513 c.p.p.  atteso
 peraltro  che  l'impianto  accusatorio  poggia,  come  risulta  dagli
 elementi  sopra  evidenziati,  in  larga  parte  sulle  dichiarazioni
 dell'indagato per reato connesso De Marco Salvatore le quali, proprio
 ai  sensi della cennata disposizione, non possono essere acquisite al
 dibattimento essendosi avvalso il De  Marco  della  facolta'  di  non
 rispondere  e  non  essendosi formato l'accordo delle parti in ordine
 alla acquisizione dei relativi verbali.
   La questione, inoltre, non appare manifestamente infondata.
   La previsione della radicale inutilizzabilita' delle  dichiarazioni
 rese  dalle persone di cui all'art. 210 c.p.p.,  fissata a priori, in
 favore dell'imputato che non presta il proprio  consenso,  contrasta,
 innanzi  tutto,  con  il  criterio  della  ragionevolezza, ledendo il
 fondamentale principio della non dispersione dei mezzi di  prova  che
 e' stato affermato ripetutamente dalla Corte costituzionale.
   Ha rilevato la Corte nella nota sentenza 3 giugno 1992, n. 255 (con
 la   quale   ha   dichiarato  l'incostituzionalita',  per  violazione
 dell'art. 3 Cost., dell'art. 500, comma 4, c.p.p. nella parte in  cui
 non  prevedeva  l'acquisizione  nel fascicolo per il dibattimento, se
 utilizzate per le contestazioni previste  dai  commi  1  e  2,  delle
 dichiarazioni  precedentemente  rese  dal  testimone  e contenute nel
 fasciolo del p.m.) che l'oralita', assunta a principio ispiratore del
 nuovo sistema  processuale,  non  rappresenta  nella  disciplina  del
 codice,   il   veicolo   esclusivo  di  formazione  della  prova  nel
 dibattimento, cio' perche' fine primario ed ineludibile del  processo
 penale  non  puo' che rimanere quello della ricerca della verita' (in
 armonia coi principi della Costituzione) di guisa che in taluni  casi
 in  cui  la  prova  non  possa, di fatto, prodursi oralmente, e' dato
 rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad
 atti formatisi prima ed al di filori del dibattimento.
     che la volonta' del legislatore esprima anche un principio di non
 dispersione  dei  mezzi di prova - continua la Corte costituzionale -
 emerge con evidenza  da  tutti  quegli  istituti  che  recuperano  al
 fascicolo  del  dibattimento,  e quindi all'utilizzazione probatoria,
 atti  non  suscettibili  di  essere  surrogati  (o  compiutamente   o
 genuinamente  surrogati)  da  una  prova dibattimentale: in tal senso
 depongono le disposizioni, ad es. sugli atti irripetibili (artt.  431
 e   512),   sull'acquisizione  di  dichiarazioni  rese  dai  testi  o
 dall'imputato se utilizzate per  le  contestazioni  nell'esame  (art.
 500, comma 4, e  503, comma 5).
   Siffatti   istituti   derogano   al   principio   dell'oralita'   e
 dell'immediatezza dibattimentale che non e'  regola  assoluta  bensi'
 criterio  guida  del  nuovo  processo  e  tendono  a  contemperare il
 rispetto del metodo orale con l'esigenza  di evitare la "perdita", ai
 fini della decisione, di quanto acquisito prima  del  dibattimento  e
 che sia irripetibile in tale sede.
   La  Corte  aveva  avuto  gia' modo di sottolineare l'importanza del
 principio di non dispersione dei mezzi di prova: la dichiarazione  di
 illegittimita'  costituzionale  del  comma  4, dell'art. 195 consente
 ora, attraverso la testimonianza de relato della polizia  giudiziaria
 il   recupero  di  elementi  probatori  acquisiti  nella  fase  delle
 indagini; del pari con sentenza n. 254  del  1992  veniva  dichiarata
 l'illegittimita'   costituzionale   dell'art.   513,   comma  2,  per
 violazione dell'art. 3 Cost., nella parte in cui non prevedeva che il
 giudice disponeva la lettura dei verbali delle dichiarazioni  di  cui
 al  primo  comma  del  medesimo articolo, rese dalle persone indicate
 nell'art. 210, che si avvalgono della facolta' di non rispondere.
   Nella sentenza n. 255/1992  la  Corte  costituzionale  ha,  dunque,
 concluso  con  l'affermare  che  il sistema accusatorio positivamente
 instaurato   ha   prescelto   la   dialettica   del   contraddittorio
 dibattimentale  quale  criterio maggiormente rispondente all'esigenza
 di ricerca della verita', ma accanto al  principio  dell'oralita'  e'
 presente,   nel  nuovo  sistema  processuale,  il  principio  di  non
 dispersione  degli  elementi  di  prova  non  compiutamente  (o   non
 genuinamente) acquisibili con il metodo orale.
   Nella sentenza n. 254 del 3 giugno 1992 citata, la Corte rileva che
 il  legislatore delegato, nel dettare l'art. 513, comma 1, c.p.p., il
 quale consentiva la lettura delle dichiarazioni precedentemente  rese
 dall'imputato   qualora  questi  era  contumace,  assente  ovvero  si
 rifiutava di sottoporsi all'esame, ha inteso comprendere nei casi  di
 sopravvenuta  impossibilita'  di  ripetizione  dell'atto (di cui alla
 direttiva 76  della  legge  delega)  anche  l'indisponibilita'  dello
 stesso   imputato  all'esame;  e  cio'  in  linea  con  il  criterio,
 rinvenibile in varie disposizioni del codice, tendente a contemperare
 il rispetto del  principio  guida  dell'oralita'  con  l'esigenza  di
 evitare  la  perdita,  ai  fini  della decisione, di quanto acquisito
 prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede.
   Ancora piu' recentemente,  proseguendo  nella  strada  di  indicare
 principi   costituzionali   certi   in  materia  di  acquisizione  ed
 utilizzabilita' delle prove, la Corte  costituzionale,  sempre  sulla
 base  del principio secondo il quale fine centrale del processo e' la
 ricerca della verita', con la sentenza n. 179 del 16 maggio  1994  ha
 confermato   il     proprio  orientamento  relativamente  all'ipotesi
 dell'esercizio della facolta'  di  astenersi  dal  deporre  riservata
 dal-l'art. 199 c.p.p. ai prossimi congiunti dell'imputato.
   Cio'  posto, il principio della non dispersione dei mezzi di prova,
 che ha alla base la funzione primaria   dell'ordinamento  processuale
 che  e'  quella  dell'accertamento  della  verita',  non puo' ora non
 essere richiamato, dato che il complessivo  assetto  dell'ordinamento
 non  ha  subito  modifiche diverse da quelle introdotte dalla legge 7
 agosto 1997, n. 267, il cui art. 1 ha modificato l'art.  513  c.p.p.,
 oggetto di censura.
   Se,  dunque,  la  Corte  costituzionale  nella  citata  sentenza n.
 179/1994 ha affermato che l'esercizio del diritto di  non  rispondere
 costituisce    una   "oggettiva   e   non   prevedibile"   causa   di
 "impossibilita'  di  ripetizione  dell'atto   dichiarativo",   appare
 irragionevole,  sulla  base  appunto dei criteri fissati dallo stesso
 organo    costituzionale,    escludere    l'irripetibilita'     delle
 dichiarazioni  precedentemente rese dall'imputato o indagato di reato
 connesso  che  presentandosi  si  avvalga  della  facolta'   di   non
 rispondere   (come   dell'imputato   che  si  rifiuti  di  sottoporsi
 all'esame).
   In entrambi i casi l'atto e' irripetibile e cio' basta, in  armonia
 con i principi fissati dalla Corte costituzionale, perche' il giudice
 debba  potersene  avvalere  liberamente  al  fine di pervenire ad una
 sentenza  giusta,  adempiendo  al  precetto  costituzionale  di   cui
 all'art.  101 comma secondo della Costituzione.
   La  disciplina introdotta dalla legge n. 267/1997 e' affetta, sotto
 questo  profilo,  da  irragionevolezza  violando   l'art.   3   della
 Costituzione e determinando un conflitto ineliminabile tra diritto di
 difesa  ed  esercizio  della  funzione  giurisdizionale  il  cui fine
 primario e' - come si e' detto - quello della ricerca della verita'.
   Basti  rilevare  che   nell'ipotesi   in   cui   le   dichiarazioni
 predibattimentali  concernono piu' coimputati del medesimo reato, ben
 potrebbe verificarsi che il patrimonio conoscitivo  utilizzabile  dal
 giudice  per  la sua decisione, pur essendo il medesimo, possa essere
 diverso per ciascun imputato, a secondo della utilizzabilita' o  meno
 delle  dichiarazioni, dipendente dal potere dispositivo concesso alle
 parti private dall'art.  513 c.p.p.
   Tale scelta - come posto in evidenza dal rappresentante del p.m.  -
 puo' quindi condurre alla situazione paradossale in cui  le  medesime
 dichiarazioni in ordine allo stesso fatto-reato portino alla condanna
 per l'imputato che presta il suo consenso alla lettura ex art. 513 ed
 all'assoluzione  per  chi si sia opposto a tale lettura con  evidente
 violazione del principio di cui agli artt. 3, 101, secondo  comma,  e
 111  della  Costituzione  secondo  il  quale la decisione dell'organo
 giudicante  deve  essere  il  frutto   del   razionale   e   motivato
 convincimento  del giudice.   Opinando diversamente si consentirebbe,
 attraverso l'introduzione nel sistema di  norme  che  irrazionalmente
 impongono al giudice, nel contesto della stessa decisione, di fondare
 la  propria  valutazione solo su quegli elementi probatori consentiti
 dalla insindacabile volonta' delle parti, una sostanziale limitazione
 del potere-dovere del giudice di accertare la verita'.
   Appare dunque evidente che in siffatta situazione si  determina  un
 contrasto  tra il fine imposto al giudice della ricerca della verita'
 e gli strumenti processuali che  gli  sono  offerti;  situazione  che
 contrasta  con  i principi costituzionali, poiche' la legge tutelando
 sino all'estremo limite il diritto  al  contraddittorio  finisce  per
 sacrificare   l'esercizio   della  stessa  giurisdizione,  quando  un
 ordinamento improntato al principio di legalita' e di obbligatorieta'
 dall'azione  penale,  che  rende doverosa la punizione delle condotte
 penalmente  sanzionate,  non  puo'  tollerare  norme  di  metodologia
 processuale  che  ostacolino  in  modo  irragionevole  il processo di
 accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta
 decisione.
   La violazione del principio di  non  dispersione  delle  prove  non
 appare  affatto  scongiurata - a giudizio di questa Corte di assise -
 dalla previsione del meccanismo  dell'incidente  probatorio,  benche'
 svincolato  dai  requisiti  previsti  in  via  geerale  dall'art. 392
 c.p.p., ove anche si ritenesse possibile il ricorso a  tale  istituto
 nella  fase  di  giudizio precedente la lettura, poiche' in tale sede
 resta comunque ferma la facolta' di  non  rendere  dichiarazioni;  e'
 evidente,  dunque,  che  l'adozione di tale meccanismo, prescelto dal
 legislatore  della  novella  proprio  per  rifuggire  da  accuse   di
 incostituzionalita',  anziche'  tradursi  in valvola di sicurezza del
 sistema, si riduce ad  una  mera  anticipazione  della  prova,  senza
 assicurare tuttavia l'effettiva acquisizione al processo.
   E  nel caso di specie nulla autorizza ad ipotizzare che il De Marco
 avrebbe tenuto un atteggiamento diverso se si fosse  trovato  non  in
 dibattimento  dinanzi  alla Corte, ma in sede di incidente probatorio
 avanti al giudice per le indagini preliminari.
   Va,   inoltre,   osservato   che    il    legislatore    riservando
 all'insindacabile  scelta  delle  parti private l'utilizzazione delle
 dichiarazioni rese in  precedenza,  ha  rimesso  in  definitiva  alla
 totale   disponibilita'   delle   parti  l'ingresso  della  prova  in
 dibattimento, condizionando l'esercizio stesso dell'azione  penale  e
 rendendo disponibile la stessa res iudicanda.
   La Corte costituzionale nella sentenza n. 111 del 24-26 marzo 1993,
 premesso  che  il processo penale italiano, come "processo di parti",
 nella misura in  cui  evoca  lo  schema  di  una  contesa  tra  parti
 contrapposte  operanti  sul  medesimo piano, non puo' non considerare
 che il pubblico ministero e' un magistrato indipendente  appartenente
 all'ordine  giudiziario  "che  non fa valere interessi particolari ma
 agisce esclusivamente a tutela dell'interesse generale all'osservanza
 della legge", ha escluso che il nostro  ordinamento  processuale  sia
 improntato al principio dispositivo in materia di prova, riconoscendo
 "incontroverso  che  sarebbe  contrario ai principi costituzionali di
 legalita'  ed  obbligatorieta'  dell'azione  penale  concepire   come
 disponibile la tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale.
 Cio'   invero   significherebbe,  da  un  lato,  recidere  il  legame
 strutturale e funzionale tra lo strumento processuale  e  l'interesse
 sostanziale  pubblico  alla  repressione dei fatti criminosi che quei
 principi intendono garantire, dall'altro,  contraddire  all'esigenza,
 ad  essi  correlata,  che  la responsabilita' penale sia riconosciuta
 solo  per  i  fatti  realmente   commessi,   nonche'   al   carattere
 indisponibile  della  liberta'  personale.  Sotto  questo profilo, e'
 significativo che il nuovo codice non conosca  procedure  in  cui  la
 concorde  richiesta  delle parti svincoli il giudice sul merito della
 decisione; prova ne sia che ad un simile esito  non  conduce  neanche
 l'istituto dell'applicazione di pena su richiesta. Ma l'assunzione di
 un  principio  dispositivo  in  materia  di prova non trova riscontro
 nella normativa positiva nonche' sul terreno del giudizio  ordinario.
 Il  metodo  dialogico  di  formazione  della  prova e' stato, invero,
 prescelto  come  metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente
 idoneo al loro per quanto piu' possibile pieno  accertamento,  e  non
 come  strumento  per  far  programmaticamente  prevalere  una verita'
 formale risultante dal mero confronto dialettico tra le  parti  sulla
 verita'  reale:  altrimenti, ne sarebbe risultata tradita la funzione
 conoscitiva del processo, che discende dal principio di  legalita'  e
 da   quel  suo  particolare  aspetto  costituito  da    principio  di
 obbligatorieta' dell'azione penale".
   Spetta, pertanto, al giudice - rileva la Corte costituzionale -  il
 "potere-dovere  di  integrazione  anche di   ufficio delle prove, per
 l'ipotesi in cui la carenza o insufficienza, per  qualsiasi  ragione,
 dell'iniziativa delle parti impedisca al dibattimento di assolvere la
 funzione  di  assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei
 fatti oggetto del processo, onde consentirgli  di  pervenire  ad  una
 giusta decisione".
   La  funzione  del  giudice,  dunque,  puo'  e  deve essere anche di
 supplenza dell'inerzia delle parti e  deve  esplicarsi  in  modo  che
 tutto il tema della decisione gli possa essere chiarito.
   Con  l'avere  condizionato  l'utilizzo  da  parte  del  giudice  di
 elementi di  prova  irripetibili  raccolti  durante  le  indagini  al
 consenso  dell'imputato  a carico del quale tali elementi spiegano la
 loro  efficacia  probatoria,   si   consente   all'imputato   stesso,
 discrezionalmente  ed  immotivatamente di impedire l'accertamento del
 fatto e  vietare  al  giudice  di  pervenire  all'accertamento  della
 verita'.  Si  consente  all'imputato,  disponendo  della  prova a suo
 carico, di disporre indirettamente dell'oggetto stesso del  processo,
 in  violazione  degli  artt.  3  della  Costituzione  (violazione dei
 principi di eguaglianza e ragionevolezza poiche' si lede il principio
 di parita' tra accusa e difesa e perche' ad un'analogia di  posizioni
 sostanziali  tra  imputati  potrebbe  far riscontro una diversita' di
 situazioni processuali), 101 e 111 (disattendendo il  duplice  canone
 della  sottoposizione  del  giudice  alla  sola  legge  e  del libero
 motivato   apprezzamento,   facendo   dipendere   l'esercizio   della
 giurisdizione non dal convincimento del giudice, formulato sulla base
 delle  prove raccolte, bensi' dal consenso immotivato dell'imputato o
 degli   imputati   interessati),   102      (poiche'   la    funzione
 giurisdizionale  non  puo'  essere  razionalmente  esercitata  se  al
 giudice  viene  resa  impossibile  una  compiuta   conoscenza   delle
 circostanze su cui deve pronunciarsi), 2 e 24 (poiche' tra i soggetti
 che  hanno  diritto  a  far valere giudizialmente le proprie pretese,
 sono ricomprese indubbiamente anche le persone offese dai reati e tra
 queste lo Stato con il suo  diritto-dovere  alla  persecuzione  degli
 autori  dei  reati) e 112 (poiche' il  principio dell'obbligatorieta'
 dell'azione penale resterebbe vanificato dalle  scelte  discrezionali
 delle parti).
   Va  aggiunto  che se il potere dispositivo delle prove nel processo
 e' negato alle parti, a maggior ragione cio'  deve  valere  per  chi,
 come  le  persone  di cui all'art. 210 c.p.p. e' estraneo al processo
 nel quale e' chiamato a rendere dichiarazioni.
   La norma impugnata, al contrario, consente di sottrarre  una  prova
 al   vaglio   del  dibattimento,  a  seguito  di  un  atto  meramente
 discrezionale - e dunque potenzialmente immotivato - compiuto  da  un
 soggetto  che  neppure  e'  parte,  come  avviene  nel caso in cui la
 persona esaminata ai sensi dell'art.  210  c.p.p.  si  avvalga  della
 facolta'  di  non  rispondere a cui si aggiunge l'ulteriore requisito
 dell'accordo delle parti, ai fini  della  possibilita'  di  acquisire
 tali dichiarazioni.
   Nel  caso  di  specie,  all'udienza  del  26 febbraio 1998 De Marco
 Salvatore, collaboratore di giustizia gia' ammesso  al  programma  di
 protezione, si e' rifiutato di rispondere motivando la sua scelta con
 il  fatto  che  gli era stato revocato il programma di protezione. De
 Marco ha dunque usato la sua condizione processuale di fonte di prova
 per ottenere 1'esaudimento delle sue pretese e nulla ha a che  vedere
 il  suo  comportamento  con l'esercizio di un diritto di difesa. Tale
 sua scelta  tuttavia,  alla  stregua  della  legge  che  si  impugna,
 condiziona l'esercizio della giurisdizione assoggettata di fatto alle
 scelte incontrollabili dell'imputato di reato connesso.
   Ed  e' appena il caso di osservare come il far dipendere l'esito di
 un processo dall'esercizio di un diritto siffatto esponga il titolare
 di  questo  diritto  a  pressioni,  ricatti,  blandizie   varie   che
 finirebbero,  per  ultimo,  per  costituire  il  vero sostrato di una
 sentenza di assoluzione o di condanna.
   Ne' da una eventuale pronuncia di incostituzionalita'  della  norma
 potrebbe  scaturire  un vulnus per il diritto di difesa dell'imputato
 che  si  esplica  principalmente  nella  possibilita'   della   piena
 partecipazione  all'attivita' dibattimentale mediante la critica e la
 valutazione  degli  elementi  processuali  legittimamente   acquisiti
 dall'accusa;  ed  allo  stesso  imputato  gia'  noti,  nonche'  nella
 facolta' di  fornire  gli  elementi  probatori  favorevoli  alla  sua
 posizione    processuale,  in  contrasto  con  gli elementi di accusa
 contenuti nel fascicolo del p.m.
   Ulteriore aspetto di incostituzionalita' dell'art.  513,  comma  2,
 c.p.p.   concerne  le  evidenti  disparita'  di  trattamento  che  si
 verificano in relazione ad altre situazioni.
   In primo luogo non appare giustificato il diverso  trattamento  che
 viene  riservato dall'art. 5l3, comma 2, al caso in cui l'imputato di
 reato connesso si avvalga del  diritto  al  silenzio,  rispetto  alle
 altre  ipotesi,  previste  dallo stesso secondo comma, in cui non sia
 possibile  ottenere  la   presenza   in   dibattimento,   per   fatti
 imprevedibili,
  dell'imputato  di  reato  connesso, che determinano l'acquisibilita'
 delle sue dichiarazioni al fascicolo per il dibattimento senza alcuna
 necessita' di consenso.
   Altra disparita'  di  trattamento  si  ha  con  l'ipotesi  prevista
 dall'art.    503 c.p.p. In base a tale articolo qualora l'imputato di
 reato connesso non rifiuti l'esame ne' si avvalga della  facolta'  di
 non  rispondere  ma, sottoponendosi all'esame dibattimentale, nega in
 tutto o in parte il contenuto delle dichiarazioni rese in precedenza,
 queste ultime possono  essere  utilizzate  attraverso  il  meccanismo
 della  contestazione  ai  sensi  del  comma 5, mentre invece la nuova
 formulazione  dell'art.     513  preclude   in   assoluto   qualsiasi
 possibilita'  di utilizzazione nell'ipotesi del rifiuto a deporre: in
 questo modo si  perviene  ad  un  esito  apparentemente  paradossale,
 poiche' se l'imputato di reato
  connesso  resta  in  silenzio  il  giudice  non potra' fare uso, nei
 confronti  di  altri  che  non  prestano  il  loro  consenso,   delle
 dichiarazioni  rese  nel  corso  delle indagini; se invece l'imputato
 parla per negare quanto  riferito  in  precedenza,  i  verbali  delle
 dichiarazioni  pregresse sono utilizzabili ai fini della prova, anche
 per dimostrare il contrario di quello che ha detto nel dibattimento.
   Altra irragionevole disparita' di trattamento  si  ha  rispetto  al
 regime  previsto dall'art. 503, comma 5, per  l'ipotesi di rifiuto da
 parte dei testi, quando risulta che il teste e'  stato  sottoposto  a
 violenza,  minaccia,  offerta  o promessa di denaro o altra utilita'.
 Cio' integra una  evidente  disparita',  non  essendo  consentito  al
 giudice alcun controllo sulla spontaneita' del rifiuto di rispondere,
 sulla  presenza  di  forme di intimidazione, ne' al p.m. o alle altre
 parti  private  di  poter  provare  eventuali  forme   di   pressione
 sull'imputato  o  indagato di reato connesso gia' dichiarante al fine
 di ottenere il suo silenzio.
   Per le considerazioni che precedono la  questione  di  legittimita'
 costituzionale dell'art. 513, comma 2, c.p.p. va ritenuta rilevante e
 non manifestamente infondata.
   Ai  sensi  dell'art.  23  legge  11  marzo  1953  n.  87  gli  atti
 riguardanti gli imputati Guella Giuseppe e Colletti   Giovanni  vanno
 trasmessi  alla  Corte  costituzionale  ed il giudizio che riguarda i
 predetti imputati va sospeso fino all'esito del giudizio  incidentale
 di legittimita' costituzionale.
                               P. Q. M.
   Visto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87;
   Dichiara  rilevante  e non manifestamente infondata la questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 513,   comma  2,  c.p.p.,  come
 modificato  dalla  legge  7 agosto 1997, n. 267, per violazione degli
 artt. 2, 3, 24, 101, 102, 111 e  112 Cost.;
   Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla    Corte
 costituzionale;
   Sospende  il  giudizio  in  corso  a  carico  di  Guella Giuseppe e
 Colletti  Giovanni  fino  all'esito  del  giudizio   incidentale   di
 legittimita' costituzionale;
   Ordina  che  la  presente  ordinanza  sia  notificata  a cura della
 cancelleria al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata  al
 Presidente  del  Senato della Repubblica e al Presidente della Camera
 dei deputati.
   Cosi' deciso in Agrigento il 19 marzo 1998.
                        Il presidente: Ciccone
 98C0524