N. 399 ORDINANZA (Atto di promovimento) 12 gennaio 1998
N. 399 Ordinanza emessa il 12 gennaio 1998 dal tribunale di Bari nel procedimento penale a carico di Valentino Francesco ed altri Processo penale - Dibattimento - Esame di imputato che abbia reso nel corso delle indagini preliminari dichiarazioni indizianti a carico di coimputati - Lamentata prevista possibilita' di non comparire o di rifiutarsi di sottoporsi all'esame - Disparita' di trattamento rispetto ad ipotesi analoghe (irripetibilita' inevitabile o imprevedibile) - Lesione del diritto di difesa - Violazione dei principi del libero convincimento del giudice di obbligatorieta' dell'azione penale. Processo penale - Dibattimento - Esame di coimputato - Ipotesi di contumacia, assenza o rifiuto di sottoporsi all'esame - Lettura delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari - Preclusione per il giudice di utilizzabilita' di tali dichiarazioni nei confronti di altri senza il loro consenso - Disparita' di trattamento rispetto ad ipotesi analoghe (irripetibilita' inevitabile o imprevedibile) - Violazione dei principi del libero convincimento del giudice e di obbligatorieta' dell'azione penale. (C.P.P. 1988, artt. 490, 503, comma 1, e 513, comma 1). (Cost., artt. 3, 24, 25, secondo comma, 101, 102, secondo comma, 111 e 112).(GU n.24 del 17-6-1998 )
IL TRIBUNALE Ha emesso la seguente ordinanza n. 633/1995 r.g.; A scioglimento della riserva formulata all'udienza dell'11 novembre 1997. In fatto 1. - L'antivigilia di Natale del 1993, nel corso di un'operazione anticontrabbando, militari della g.d.f. procedevano all'identificazione di diverse persone, colte nell'atto di scaricare t.l.e. di contrabbando dal mare alla terraferma in zona di Monopoli (a sud di Bari); fra tali persone vi era anche Valentino Francesco, che, essendo in possesso di un'arma clandestina, veniva arrestato dai militari. 2. - Nel corso dell'interrogatorio espletato nell'udienza di convalida dell'arresto, celebratasi dinanzi al g.i.p. presso il tribunale di Bari, il Valentino Francesco non solo ammetteva l'addebito relativo al possesso dell'arma ed al proprio coinvolgimento nell'operazione di contrabbando, ma indicava anche gli altri soggetti coinvolti nella medesima operazione illecita (alcuni dei quali, peraltro, identificati dai militi in loco nell'immediatezza dei fatti). 3. - Con decreto in data 7 marzo 1995 il g.i.p. presso il tribunale di Bari disponeva il rinvio a giudizio di Valentino Francesco, Valentino Giacomo, Parete Aldo, Murro Matteo, Parete Antonio, Sassanelli Antonio, Semeraro Carmelo, Carparelli Vitantonio e Caldarola Lorenzo, imputati di contrabbando di t.l.e., evasione I.V.A. ed altro, sulla scorta di fonti di prova costituite (tra l'altro) dalle dichiarazioni auto ed eteroaccusatorie di Valentino Francesco. 4. - All'udienza dibattimentale dell'11 novembre 1997 il p.m., dopo avere esposto i fatti di causa, chiedeva ammettersi l'esame dei testi indicati nella lista di cui all'art. 468 c.p.p. e, preso atto della contumacia di tutti gli imputati, chiedeva acquisirsi il verbale di interrogatorio reso dal Valentino Francesco dinanzi al g.i.p. Tutti i difensori si opponevano alla acquisizione al fascicolo dibattimentale ed alla utilizzazione delle dichiarazioni rese dal Valentino Francesco. Preso atto dell'opposizione dei difensori, il p.m. produceva il verbale di dichiarazioni rese dal Valentino Francesco nei limiti ed ai fini di cui al vigente art. 513, comma 1, c.p.p. (limitatamente, cioe', alla posizione del Valentino Francesco) e chiedeva sollevarsi questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 513, c.p.p., nei termini di cui alle due esibite ordinanze del tribunale di Milano, aventi ad oggetto analoga questione. Il tribunale, ritenuta la necessita' di approfondire la questione di illegittimita' costituzionale sollevata dal p.m., riservava la decisione, sospendendo e rinviando il dibattimento ad altra udienza. In diritto I. - Deve innanzitutto rilevarsi che la proposta questione appare rilevante ai fini del presente giudizio, atteso che tutti i difensori degli imputati diversi dal Valentino Francesco hanno negato il consenso alla utilizzazione nei confronti dei propri assistiti delle dichiarazioni rese dal Valentino Francesco, sicche' le dichiarazioni rese dal Valentino Francesco, pur essendo allo stato "utilizzabili" nei confronti di tale imputato, non lo sono invece nei confronti di tutti gli altri imputati, alla luce del disposto dell'art. 513, comma 1, c.p.p., cosi' come modificato dall'art. 1 della legge n. 267, del 7 agosto 1997. Ne consegue che, in applicazione del vigente art. 513, comma 1, c.p.p., la richiesta istruttoria del p.m. (volta alla utilizzazione delle dichiarazioni rese dal Valentino Francesco nei confronti di tutti gli imputati, secondo la disciplina vigente prima dell'entrata in vigore della legge n. 267/1997) dovrebbe essere sic et simpliciter rigettata in applicazione del chiaro disposto del "nuovo" art. 513, comma 1, c.p.p. Che e' appunto il disposto della cui costituzionalita' il p.m. dubita, nella parte in cui, pur prevedendo che in caso di contumacia, assenza ovvero rifiuto dell'imputato di sottoporsi ad esame sia disposta, a richiesta di parte, la lettura "dei verbali delle dichiarazioni rese dall'imputato al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare", vieta tuttavia di utilizzare "tali dichiarazioni ... nei confronti di altri senza il loro consenso". II. - Ritiene il tribunale che la questione di illegittimita' costituzionale sollevata dal p.m., cosi' come prospettata (il p.m. ha all'uopo esibito due pregevolissime ordinanze rese dal tribunale di Milano relativamente alla disposizione di cui al comma 2, dell'art. 513, c.p.p., pervero rispondente alla medesima ratio della disposizione di cui al comma 1 del medesimo articolo), sia non manifestamente infondata. A tale conclusione conducono le seguenti brevi considerazioni. III. - Come e' a tutti noto, il previgente art. 513 c.p.p. stabiliva, al comma 1: "il giudice, se l'imputato e' contumace o assente ovvero si rifiuta di sottoporsi all'esame, dispone, a richiesta di parte, che sia data lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dall'imputato al pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare". La Corte costituzionale, con la sentenza n. 60 del 24 febbraio 1995, ebbe a dichiarare incostituzionale detta disposizione "nella parte in cui non prevede che il giudice, ricorrendone le condizioni, disponga che sia data lettura dei verbali delle dichiarazioni dell'imputato assunte dalla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero". La Corte evidenzio' (tra l'altro) la irragionevolezza della disciplina posta dall'art. 513 c.p.p. alla luce della modifica dell'art. 503 c.p.p. operata dal d.-l. n. 306 dell'8 giugno 1992, convertito dalla legge n. 356 del 7 agosto 1992, che, nel consentire l'utilizzazione per le contestazioni nel corso dell'esame dell'imputato delle dichiarazioni dell'imputato assunte dalla polizia giudiziaria su delega del p.m. (contestazioni a seguito delle quali tali dichiarazioni erano acquisite nel fascicolo per il dibattimento), aveva pienamente equiparato tali dichiarazioni a quelle dell'imputato direttamente assunte dal p.m. o rese al giudice per le indagini preliminari. Cio' posto, e' allora evidente che la disposizione di cui al "nuovo" art. 513, comma 1, c.p.p. e' perfettamente identica a quella "previgente" (cosi' come "integrata" dalla Corte costituzionale), con l'eccezione dell'ultimo inciso (sul quale si appunta, in buona sostanza, la sollevata eccezione di incostituzionalita'): inciso che testualmente vieta l'utilizzazione di "tali dichiarazioni ... nei confronti di altri senza il loro consenso". IV. - Allora, se questo e' (ed e') il quadro normativo attualmente vigente, ad avviso del tribunale sussistono varie prospettive di violazione del dettato costituzionale (ovviamente in termini di "non manifesta infondatezza", limite al di la' del quale il tribunale non puo' esprimere valutazione alcuna). V. - Il primo profilo da considerare e' la violazione del principio di uguaglianza con riguardo alle dichiarazioni rese dall'imputato al p.m. o alla p.g. su delega del p.m. o al giudice nelle indagini preliminari o nell'udienza preliminare (tutte situazioni nelle quali, si noti bene, l'imputato rende dichiarazioni "garantite") e divenute irripetibili a seguito della mancata comparizione dell'imputato (perche' contumace o assente) dinanzi al giudice del dibattimento o del rifiuto dell'imputato di sottoporsi all'esame: disciplina che appare irragionevolmente diversificata, quanto ad utilizzabilita' dibattimentale, rispetto a tutti gli altri atti divenuti imprevedibilmente od inevitabilmente irripetibili. Il problema che si pone e' se sia costituzionalmente corretto che, nell'ambito di un sistema accusatorio, il legislatore, allo scopo di tutelare il contraddittorio, abbia introdotto un meccanismo che conferisce sia al soggetto che abbia reso dichiarazioni a carico di terzi sia a ciascuna delle parti diverse dal soggetto che abbia reso dichiarazioni a carico di terzi il potere di impedire con la propria mancata comparizione (e cio' vale naturalmente per il dichiarante) o con una semplice manifestazione di volonta' (e cio' vale naturalmente sia per il dichiarante sia per gli altri) l'utilizzabilita' in dibattimento di elementi di prova raccolti dal pubblico ministero in assenza di contraddittorio (o formatisi dinanzi al g.i.p. o al g.u.p.) e di cui sia inevitabilmente sopravvenuta l'irripetibilita'. Occorre immediatamente notare che lo stesso sistema codicistico prevede, in linea di principio, la piena utilizzabilita' dibattimentale degli atti del pubblico ministero la cui irripetibilita' fosse prevedibile ma inevitabile nonche' degli atti della categoria omogenea, cioe' quelli, rispetto ai quali il sopravvenire della causa di irripetibilita' fosse imprevedibile (art. 512 c.p.p.). Cio' posto, il problema e' se, con riferimento ad alcuni di essi - segnatamente le dichiarazioni dell'imputato assunte dal p.m. o dalla p.g. (su delega del p.m.) nel corso delle indagini o le dichiarazioni rese dall'imputato dinanzi al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare e divenute irripetibili per mancata presentazione dell'imputato dinanzi al giudice del dibattimento ovvero per rifiuto dell'imputato di sottoporsi ad esame -, sia ragionevole introdurre un meccanismo di possibile parziale preclusione dell'utilizzazione dibattimentale fondato sulla mera manifestazione di volonta' delle parti indirizzata all'esclusione della prova. Cosi' impostato, il problema e' facilmente risolvibile in base all'applicazione dell'art. 3 Cost., poiche' non appare ricorrere alcuna ragione per rimettere la prova di cui si discorre nella totale disponibilita' sia di colui il quale abbia reso le dichiarazioni sia delle parti diverse da colui il quale abbia reso le dichiarazioni, a differenza delle altre prove inevitabilmente od imprevedibilmente divenute irripetibili. L'insussistenza di tale ragione si coglie vie piu' considerando il valore che lo stesso legislatore conferisce a quei medesimi atti, addirittura prima che siano divenuti irripetibili. Se e' vero, infatti, che si tratta di atti talvolta formati in assenza di contraddittorio ed in segreto, e' pero' altrettanto vero: 1) che si tratta di atti compiuti dal p.m. (che e' organo giudiziario, pubblico, indipendente, la cui azione e' rivolta esclusivamente all'applicazione imparziale della legge: cfr. sent. n. 88/1991 della Corte costituzionale) o dalla p.g. esclusivamente a seguito di specifica delega del p.m.; 2) che si tratta altresi' di atti che godono di particolari garanzie quanto alla rispondenza alla realta' del loro contenuto, trattandosi di verbali; 3) che si tratta infine di atti "garantiti" in quanto assunti alla presenza del difensore del dichiarante. Cio' senza dimenticare che il vigente art. 513, comma 1, c.p.p. pone i predetti limiti di utilizzazione non solo relativamente alle dichiarazioni dell'imputato assunte dal p.m. o (su delega di questi) dalla p.g., ma anche alle dichiarazioni rese dall'imputato dinanzi al giudice nel corso delle indagini preliminari (si pensi all'interrogatorio reso ex art. 391 c.p.p., o ex art. 294 c.p.p., o ex art. 299, comma 3-ter, c.p.p.) o nel corso dell'udienza preliminare (e cioe' in una vera e propria fase "giurisdizionale"): dichiarazioni, cioe', rese in modo pienamente garantito, eventualmente alla presenza degli altri coimputati (cfr. art. 422 c.p.p.) e comunque dinanzi ad un giudice, che e' organo giudiziario pubblico, terzo, che amministra giustizia in nome del popolo ed e' soggetto soltanto alla legge (cfr. art. 101 Cost.) Proprio per questa loro particolare affidabilita', la legge riconosce piena rilevanza agli elementi raccolti dal p.m. nelle indagini o formatisi dinanzi al g.i.p. o al g.u.p., con riferimento sia ad atti che spiegano i loro effetti all'interno della fase delle indagini (es.: esercizio dell'azione penale nelle sue varie forme) sia ad atti che spiegano i loro effetti fuori dalla fase delle indagini (es.: al fine di emettere sentenza di non doversi procedere o decreto che dispone il giudizio) sia ad atti che incidono profondamente su diritti costituzionali primari dei cittadini (es.: emissione di decreti di perquisizione e sequestro, adozione di misure cautelari personali). Se agli atti di cui si discorre vengono conferiti tali e tanti effetti in sede di indagini e persino "dopo" le indagini preliminari (cfr. artt. 416 e ss. c.p.p.) e' poi irrazionale prevedere che di essi, a differenza di altri, quando siano divenuti inevitabilmente irripetibili, sia preclusa l'utilizzazione dibattimentale solo che una parte manifesti in tal senso la sua volonta', con atto discrezionale, immotivato ed insindacabile. VI. - Il secondo profilo da prendere in considerazione e' la irragionevolezza dell'ostacolo alla formazione della prova, alla funzione conoscitiva del dibattimento ed all'esercizio della giurisdizione mediante l'introduzione di un meccanismo di disposizione della prova, in contrasto con gli artt. 3, 25, comma secondo, 101, comma secondo, 102, comma primo, 111, comma primo della Costituzione. Con riferimento a questo profilo rileva quanto assai nitidamente affermato nelle sentenze n. 88 del 1991, 241, 254 e 255 del 1992, 111 del 1993 della Corte costituzionale. Se il processo deve tendere alla ricerca della verita' reale, se il processo in generale ed il dibattimento in particolare hanno una funzione conoscitiva del fatto che ne e' oggetto, se il pubblico ministero e' istituzionalmente organo di giustizia che si muove al fine di applicare la legge e compie validamente atti normativamente previsti su cui possono fondarsi per legge altri atti lesivi di diritti costituzionali primari, se il codice stesso prevede numerosi meccanismi di recupero dell'utilizzabilita' di atti formati dal pubblico ministero quando siano divenuti imprevedibilmente od inevitabilmente irripetibili, cioe' quando il contraddittorio sia - per ragioni materiali o giuridiche - divenuto impossibile, senza che, percio', l'omessa rinnovazione dell'atto nelle forme del contraddittorio genetico sia imputabile al pubblico ministero, allora sembra evidente dover dubitare di un meccanismo processuale che si risolve per un verso nel precludere l'esercizio dell'azione penale e per altro verso nel precludere l'utilizzazione da parte del giudice di atti che appartengono a quelle categorie, in tal modo impedendogli di accertare il fatto e, in base a tale accertamento, di pervenire ad una giusta decisione. I diversi aspetti di tale sillogismo necessitano di una spiegazione analitica. Anzitutto va vagliata la conformita' della disciplina in questione al principio di razionalita' nell'esercizio obbligatorio dell'azione penale (artt. 3 e 112 Cost.). Chiariti come sopra la natura ed il valore degli atti compiuti dal pubblico ministero, occorre considerare che il loro utilizzo ai fini sopra indicati non e', per il p.m., facoltativa, ma e', in base all'art. 112 Cost., obbligatoria. Ne deriva che costituisce un irragionevole ostacolo al razionale esercizio dell'azione penale, oltreche una evidente contraddizione ordinamentale, disporre che atti sui quali il pubblico ministero ha fondato il doveroso esercizio della sua funzione, quando siano divenuti imprevedibilmente od inevitabilmente irripetibili - con conseguente esclusione del contraddittorio non imputabile al pubblico ministero medesimo -, siano utilizzabili in dibattimento solo con il consenso di tutte le altre parti processuali, tra le quali gli imputati nei confronti dei quali il contenuto di tali atti ha gia' spiegato in base alla legge i propri dannosi effetti. Risulta cioe' irrazionale da un lato imporre al pubblico ministero di raccogliere, in modo tendenzialmente completo, elementi di prova circa il fatto, imporgli di chiedere misure cautelari eventualmente ottenendole, introdurre meccanismi di garanzia contro l'inerzia del pubblico ministero, e poi, quando quegli elementi siano divenuti imprevedibilmente od inevitabilmente "irripetibili", conferire al soggetto controinteressato il potere di disporre della loro utilizzabilita' addirittura in dibattimento, cioe' nella fase processuale in cui il pubblico ministero agisce per l'accertamento pieno della responsabilita'. L'irragionevolezza appare ancor piu' evidente laddove si considerino due aspetti. In primis, sotto l'aspetto degli interessi tutelati da una norma simile, occorre osservare che la scelta delle parti diverse dal pubblico ministero ed in particolare quella dell'imputato in ordine a prove formate contro di lui risponde a logiche che, per la natura del soggetto investito del potere, non possono essere che strettamente egoistiche e comunque privatistiche. Sotto il diverso aspetto della forma giuridica dell'atto preclusivo della utilizzazione della prova risulta evidente che trattasi di pura manifestazione di volonta', come tale discrezionale, immotivata ed insindacabile. Riformulando, adattato al caso che ne occupa, un passaggio della sentenza n. 88 del 1991 si potrebbe dire che "non dovrebbe essere consentito che i rapporti fra p.m. ed imputato si sbilancino al punto che il secondo, con un semplice atto di volonta' immotivato e, percio', incontrollabile, si trovi in grado di privare il primo degli elementi di prova, divenuti imprevedibilmente od inevitabilmente irripetibili, in base ai quali ha legittimamente esercitato sino a quel momento l'azione penale". Riformulando, adattato al caso che ne occupa, un passaggio della sentenza n. 111 del 1993 si potrebbe dire: "... sarebbe contraddittorio, da un lato garantire l'effettiva obbligatorieta' dell'azione penale contro le negligenze o le deliberate inerzie del pubblico ministero conferendo al giudice per le indagini preliminari il potere di disporre che costui formuli l'imputazione ...; e, dall'altro, consentire che l'utilizzo di atti delle indagini, sui quali si e' fondato l'esercizio dell'azione penale sino a quel momento e divenuti imprevedibilmente od inevitabilmente irripetibili, possa essere impedito dallo stesso pubblico ministero o dalle altre parti con una nuda ed immotivata manifestazione di volonta'". In entrambi i casi atti disciplinati dalla normativa di cui si discute ma costituzionalmente incompatibili con gli artt. 24 e 112 Cost.: in un caso identico - decadenza colposa o dolosa del p.m. dal diritto di richiedere le prove per omessa od intempestiva presentazione della lista testimoniale - la Corte ha salvato il sistema solo perche' esso prevede, mediante l'art. 507 c.p.p., il recupero di quelle prove. Un recupero pero' evidentemente non consentito dalla normativa introdotta dall'art. 1, legge n. 267/1997. Va altresi' data risposta negativa, per quanto qui e' possibile, circa la compatibilita' tra la disciplina di cui si discute e la funzione conoscitiva, di tendenziale accertamento della verita' reale, attribuita dalla Costituzione al processo penale. E' indubbio, infatti, che la sottoposizione al consenso delle parti della lettura e quindi dell'acquisizione di atti divenuti inevitabilmente irripetibili costituisca un ostacolo alla formazione del convincimento giudiziale e quindi all'approssimarsi del risultato processuale alla verita', nella parte in cui consente che tali atti siano - senza alcuna possibilita' di rimedio - sottratti a quel convincimento mediante una manifestazione di volonta' discrezionale, insindacabile ed immotivata. Occorre tuttavia valutare la ragionevolezza della introduzione di siffatto ostacolo. Si e' gia' notato che, rispetto a situazioni identiche, si coglie con immediatezza una ingiustificabile differenza. Solo rispetto a dichiarazioni di coimputati che non compaiano dinanzi al giudice o si rifiutino di sottoporsi all'esame (o di imputati in procedimento connesso che si avvalgano della facolta' di non rispondere, secondo quanto analogamente previsto dall'art. 513, comma 2, c.p.p.) e' stato introdotto il potere delle parti di impedirne ad nutum l'utilizzo, mentre con riferimento ad altre identiche situazioni di inevitabile od imprevedibile irripetibilita' di atti dello stesso tipo, tale potere non e' riconosciuto. Della prima di tali situazioni (irripetibilita' inevitabile) costituiscono esempi, come si e' detto piu' sopra, i casi di dichiarazioni del teste morente assunte da p.m. o p.g. senza che vi sia stato il tempo tecnico necessario per celebrare l'incidente probatorio, di dichiarazioni del cittadino straniero residente all'estero assunte da p.m. o p.g., di dichiarazioni del testimone prossimo congiunto che si avvalga solo in dibattimento della facolta' di non sottoporsi ad esame. Alla seconda categoria (irripetibilita' imprevedibile), governata dai medesimi principi, appartengono le dichiarazioni rese al p.m. dall'imputato in procedimento connesso (o coimputato) di cui sia sopravvenuta l'irreperibilita' (art. 513, comma 2, seconda parte), il decesso, l'infermita' produttiva di amnesia sui fatti (art. 512), o di soggetto che decida di sottoporsi all'esame ma si astenga dal rispondere a singole domande (fatto che consente la contestazione e l'utilizzazione delle dichiarazioni predibattimentali: art. 503) e di testimone prossimo congiunto che si avvalga della facolta' di non rispondere (sent. n. 179/1994). Ad essere precisi, gli ultimi due casi appartengono ad entrambe le categorie: atti imprevedibilmente ed inevitabilmente irripetibili. Ne' pare che la diversa causa di irripetibilita' sopravvenuta - naturale (quale il decesso o l'infermita') o giuridica (quale l'esercizio della facolta' di non rispondere) - o le diverse ragioni per cui l'omessa rinnovazione dell'atto di assunzione della prova e' risultata non evitabile - naturale (quale la residenza all'estero del teste straniero) o giuridica (quale, ancora, l'esercizio della facolta' di non rispondere) - possano in alcun modo giustificare la diversificazione delle discipline dell'utilizzabilita' degli atti di cui si discute, poiche' l'effetto dell'azione di tali cause sull'atto e' identico (irripetibilita' e preclusione della rinnovabilita' dell'atto assuntivo della prova non imputabile al p.m.) e perche' le uniche differenze - ad esempio: diritto di difesa attuale rispetto al vivo ma non rispetto al morto - riguardano il dichiarante, ma non i soggetti attinti dalle sue dichiarazioni rispetto al cui diritto al contraddittorio le diverse cause di irripetibilita' ed inevitabile preclusione alla rinnovazione dell'atto agiscono in modo identico, rendendolo impossibile. Si tratta, lo si ribadisce, di casi identici - in cui il contraddittorio e' inibito senza che cio' sia imputabile al pubblico ministero - alcuni dei quali subiscono pero' un trattamento irragionevolmente diverso. Esiste un ulteriore profilo di irragionevolezza nell'ostacolo frapposto alla formazione della prova mediante il procedimento alternativo e sussidiario piu' volte menzionato, profilo attinente proprio alla devoluzione alle parti in generale, ed in particolare agli imputati, della decisione circa l'utilizzabilita' in dibattimento di elementi raccolti dal pubblico ministero in sede di indagini (elementi che possono spiegare una diretta od indiretta efficacia probatoria a loro carico) e di cui sia sopravvenuta imprevedibilmente od inevitabilmente l'irripetibilita'. La Corte costituzionale, come si e' detto, ha gia' avuto modo, ragionando su fattispecie di decadenza colposa o consapevolmente determinata del pubblico ministero dalla prova, di affermare come incontroverso che "sarebbe contrario ai principi costituzionali di legalita' ed obbligatorieta' dell'azione penale concepire come disponibile la tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale"; e, immediatamente dopo, che disporre della prova equivale, indirettamente, a disporre della stessa res iudicanda (sent. n. 111/1993). Parimenti incontroverso, a parere de tribunale (v. supra) e' che la normativa di cui si tratta abbia introdotto il potere di alcune delle parti di disporre della prova e che cio' consenta alle medesime - secondo l'insegnamento, totalmente condiviso, della Corte (sent. n. 111/1993) - di disporre altresi', indirettamente, dell'oggetto del processo. Ulteriore conferma di tale conclusione si rinviene considerando di nuovo gli interessi tutelati dal tipo di atto di cui si discute. Trattandosi, come si e' detto, del potere attribuito alle parti del processo di inibire l'uso di prove, l'aspetto di tutela del diritto di difesa appare prospettabile solo come stimolo per il p.m. a chiedere l'incidente probatorio, atto questo, tuttavia, incapace di garantire l'assicurazione della prova mediante la sua assunzione in contraddittorio, posto che anche in tale sede l'esaminato puo' impedire l'esercizio del contraddittorio non comparendo rifiutandosi di sottoporsi all'esame sembra doversi escludere che, in sede di incidente probatorio, l'indagato possa scegliere di non comparire. E' infatti vero che l'incidente probatorio e' una "anticipazione del dibattimento" e che l'art. 490 c.p.p. vieta al giudice del dibattimento di disporre l'accompagnamento coattivo dell'imputato quando la presenza di questi e' necessaria per l'assunzione dell'esame, ma e' altrettanto vero che l'art. 392, comma 1, lett. c) c.p.p. prevede che possa procedersi con incidente probatorio "all'esame della persona sottoposta alle indagini su fatti concernenti la responsabilita' di altri" e che l'art. 399 c.p.p. consente al giudice di disporre l'accompagnamento coattivo dell'indagato "la cui presenza e' necessaria per compiere un atto da assumere con l'incidente probatorio" (ampia formula nella quale sembra potersi includere l'esame, espressamente previsto dall'art. 392 c.p.p.). Deve dunque ritenersi che, in ordine all'esame, il giudice ha in sede di incidente probatorio un potere coercitivo nei confronti dell'indagato che, al contrario, il giudice del dibattimento non ha nei confronti dell'imputato. Deve altresi' osservarsi che la Corte ha costantemente affermato che il diritto di difesa, ... per quanto inviolabile, non puo' non trovare contemperamento e bilanciamento rispetto ad altri concorrenti principi parimenti tutelati dalla costituzione e che, quindi, il suo livello di tutela deve essere rapportato alle singole, e diverse, situazioni processuali. Nel caso di specie, non va dimenticato che la stessa Corte costituzionale, con riferimento all'analogo caso dell'imputato in procedimento connesso che si avvalesse della facolta' di non rispondere, si era mossa nel senso di un bilanciamento di due valori diversi (sent. n. 254/1992): l'esercizio dell'azione penale, ma soprattutto ed ancor di piu' l'esercizio della funzione giurisdizionale stessa, da un lato, e, dall'altro, l'esercizio del diritto di difesa. Quest'ultimo non rimaneva affatto impedito ma soltanto limitato dall'esercizio, da parte del coimputato od imputato in procedimento connesso, del suo diritto di difesa, sub specie di diritto di non rispondere in dibattimento anche alle domande di chi, direttamente od indirettamente, aveva accusato. Impedito cosi' l'esercizio del dirittodi difesa nel momento di genesi della prova, veniva attivato il procedimento sussidiario ed alternativo di formazione della prova che comunque lasciava spazio al tradizionale esercizo del diritto di difesa sulla prova formata (oltre ad introdurre, di fatto, argomenti sfavorevoli all'intrinseca credibilita' del dichiarante). Ma la situazione si aggrava proprio quando la parte (in particolare il coimputato nel medesimo procedimento o l'imputato nel procedimento connesso o collegato) si oppone alla lettura di dichiarazioni irripetibili rese direttamente a suo carico. In tal caso, infatti, posto che tali dichiarazioni non sono considerate ontologicamente inaffidabili dal legislatore (che, altrimenti, non ne avrebbe consentito la documentazione e l'utilizzo non solo in fase di indagini preliminari ed a fini cautelari, ma persino in dibattimento, nei confronti dello stesso dichiarante), il meccanismo normativo risulta semplicemente paradossale: i veti incrociati di soggetti privati (quali sono i coimputati nel medesimo procedimento, cioe' i soggetti nei quali possono identificarsi gli "altri" di cui all'ultimo inciso dell'art. 513, comma 1, (quanto agli imputati in procedimento connesso o collegato, pur astrattamente identificabili in tale inciso, per essi vi e' l'omologo disposto dell'art. 513, comma 2), precludendo l'ingresso della prova in dibattimento, finiscono inevitabilmente per precludere (in tutto od in parte) l'esercizio stesso della giurisdizione e prima ancora quello dell'azione penale. Considerato che i soggetti predetti agiscono, come si notava, per interessi privatissimi e sinanco meramente egoistici, l'ostacolo frapposto all'esercizio della giurisdizione non puo' non essere ritenuto irrazionale. La stessa Corte costituzionaie (sent. n. 111/1993) ha infatti considerato illegittimo il potere riconosciuto al pubblico ministero - organo cui pure la Corte riconosce funzioni pubbliche finalizzate esclusivamente all'applicazione della legge (sent. n. 88/1991) - di disporre del processo disponendo della prova (potere riconosciutogli dai giudici di merito remittenti grazie ad una interpretazione dell'art. 507 c.p.p. ritenuta illegittima). A questo punto non si puo' non considerare illegittimo a maggior ragione l'analogo potere riconosciuto dalla legge a soggetti privati - quali sono gli imputati e la parte civile - che, come tali, orientano i loro comportamenti secondo logiche meramente individualistiche. E' altresi' prospettabile, considerate le precedenti osservazioni, una diretta violazione dell'art. 25, comma secondo, Costituzione nella parte in cui prevede che i colpevoli debbano essere puniti. E' invero quanto mai evidente che, condizionando l'utilizzo da parte del giudice di elementi di prova irripetibili raccolti durante le indagini al consenso dell'imputato a carico del quale tali elementi spiegano la loro efficacia probatoria, si consente che l'imputato stesso, mediante una scelta discrezionale, immotivata, insindacabile ed eventualmente ispirata ad interessi non tutelabili, impedisca l'accertamento del fatto e percio' delle sue (eventuali) responsabilita'. In sostanza, lo si ribadisce, si consente all'imputato, disponendo della prova a suo carico, di disporre indirettamente dell'oggetto stesso del processo, in violazione - gia' riconosciuta una volta dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 111/1993 con riferimento all'interpretazione astrattamente formalistica dell'art. 507 c.p.p. recepita dai giudici remittenti - degli artt. 3, 25, comma secondo, 27, comma primo, Cost. Ne' puo' essere richiamato, in contrario avviso, il principio di presunta innocenza dell'imputato, poiche' esso, se fosse interpretato nel senso assolutistico di conferimento all'imputato del potere di interdire l'assunzione delle prove a suo carico, renderebbe inutile l'esercizio stesso dell'azione penale e della giurisdizione annullando il valore dei connessi principi. Va approfondito, seguendo prospettive gia' accennate, il contrasto della disciplina di cui si discute con gli artt. 101 e 111 della Costituzione. E' banale osservare che la formazione del razionale e motivato convincimento giudiziale - artt. 3, 101, comma secondo, 111, Cost. - non e' solo parte integrante dell'esercizio della funzione giurisdizionale, ma e' cio' in cui lo scopo stesso del processo si invera. Ebbene, a parere del tribunale, la normativa di cui si tratta, introducendo il potere delle parti di disporre della prova - tale essendo, lo si ripete, in tutta la sistematica codicistica l'elemento raccolto in sede di indagini dal pubblico ministero o formatosi dinanzi al g.i.p. o al g.u.p. divenuto imprevedibilmente od inevitabilmente irripetibile -, consente di sottrarla alla razionale e motivata valutazione del giudice, in tal modo impedendoli di formarsi un convincimento che si avvicini il piu' possibile alla reale verificazione dei fatti e, quindi, impedendo la pronuncia di una giusta decisione. Vale anche notare che, almeno nella materia dell'utilizzabilita' delle prove processuali penali, quando, come nel caso di specie, la legge devolve a privati quali sono gli imputati (nonche' gli imputati in procedimento connesso e la parte civile) la decisione ultima e definitiva, oltre che discrezionale, immotivata ed incontrollabile (tali non sono le scelte effettuate nell'ambito dei procedimenti speciali, che hanno sempre come alternativa il giudizio ordinario) sull'utilizzabilita' delle prove, allora appare violata dalla legge stessa la regola secondo cui il giudice e' soggetto solo alla legge: per il tramite formale di una norma giuridica il giudice - nell'esercizio della funzione che gli e' piu' propria, il giudizio - viene fatto soggiacere alle decisioni altrui. Ed ancora, sono l'aspetto della corretta e razionale formazione del convincimento giudiziale nonche' della - strettamente connessa - funzione conoscitiva assegnata dalla Costituzione al processo penale ed al dibattimento, risulta rilevante non solo l'aspetto del diniego della difesa alla lettura di prove introdotte dal pubblico ministero, ma anche l'aspetto dell'assenso. Invero, le difese degli imputati, opportunamente negando e concedendo il loro consenso all'ingresso di alcune prove ma non di altre, ben possono costringere il giudice a ricostruire il fatto in modo anche molto distante dalla sua reale verificazione o, quanto meno, dalla ricostruzione che del medesimo sarebbe razionalmente preferibile se al giudice fossero fornite per intero e completamente le prove gia' comunque esistenti agli atti del pubblico ministero, la cui introduzione nel fascicolo per il dibattimento solo il nutum delle parti puo' impedire. In tal senso il contrasto con quanto affermato dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 255 del 1992 e 111 del 1993 e' piu' che evidente. VII. - La riprova della fondatezza (rectius, della non manifesta infondatezza) di quanto sin qui esposto, riviene dalla contraddittorieta' generale emergente dal sistema processuale, cosi' come disegnato dalla legge n. 267/1997, con conseguente lesione dell'art. 3 della Costituzione. Si pensi a questa semplice e frequentissima situazione: il pubblico ministero raccoglie le dichiarazioni di uno o piu' imputati (o magari raccoglie le dichiarazioni rese da uno o piu' imputati dinanzi al g.i.p.) e trova i debiti riscontri; a seguito di cio' (adempiendo al dovere impostogli dall'art. 112 Cost.) chiede ed ottiene l'applicazione della custodia cautelare in carcere; in dibattimento l'imputato o gli imputati "dichiaranti" rimangono contumaci o assenti ovvero, pur essendo presenti, si rifiutano di sottoporsi all'esame e subito dopo gli altri imputati "accusati" non prestano il proprio consenso alla utilizzazione nei loro confronti delle dichiarazioni predibattimentali dei primi; ebbene, a causa della "sottrazione di prova" sancita dall'art. 513, comma 1, c.p.p., gli "altri" imputati (cioe' gli imputati "diversi" dai coimputati "dichiaranti") non solo verranno assolti, ma avranno anche diritto ad ottenere la riparazione per ingiusta detenzione ex art. 314 c.p.p. L'ordinamento, chiaramente, pone se stesso come generatore di illegittimita' e quindi si pone in contraddizione con se stesso. VIII. - Un ulteriore profilo che merita attenzione e' quello attinente alla facolta' dell'imputato che innanzi al p.m., alla p.g. "delegata", al g.i.p. o al g.u.p. abbia reso dichiarazioni direttamente od indirettamente indizianti a carico di "altri" soggetti di non comparire in dibattimento o, pur comparendo in dibattimento, di rifiutarsi di sottoporsi all'esame rispetto a quei soggetti. Ritiene questo Collegio che le discrasie e le contraddizioni in cui si involge la disciplina introdotta con l'art. 1 della legge n. 267/1997 siano dovute alla creazione legislativa di un vero e proprio conflitto, in quanto tale irragionevole, tra diritto di difesa ed esercizio della funzione giurisdizionale. Infatti, tutelando sino all'estremo limite per un verso il diritto al contraddittorio degli imputati e, per altro verso, il loro diritto di non comparire in dibattimento e di non sottoporsi all'eame dibattimentale - entrambi espressione del piu' generale diritto di difesa -, la legge finisce per sacrificare l'esercizio della giurisdizione: in nome del suo diritto al contraddittorio ciascuna parte puo' vietare ad nutum l'utilizzabilita' nei propri confronti di dichiarazioni di un coimputato che, in nome del suo diritto di difesa e comunque nell'esercizio delle sue prerogative, abbia reso impossibile il contraddittorio medesimo, rifiutandosi ad nutum di sottoporsi all'esame o addirittura scegliendo (legittimamente) la strada della contumacia o dell'assenza in udienza (strada che non puo' essere sbarrata dall'esercizio di poteri coercitivi da parte del giudice, posto che l'art. 490 c.p.p. vieta al giudice del dibattimento di disporre l'accompagnamento coattivo dell'imputato quando la presenza di questi e' finalizzata all'assunzione dell'esame), come puo' agevolmente notarsi, la esposta situazione e' persino piu' "grave" di quella prevista dal comma 2, dell'art. 513 c.p.p., visto che nei confronti degli imputati in procedimento connesso o collegato puo' almeno disporsi l'accompagnamento coattivo (fermo restando il loro diritto di non rispondere). Da tale pur sintetica analisi emerge immediatamente: che il meccanismo processuale e' irragionevole, poiche' gli artt. 2, 3, 25, comma secondo, 101, comma secondo, 102, 111, Cost. fondano il principio di indefettibilita' della giurisdizione penale, ed in particolare del dibattimento, finalizzati ad assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto del processo affinche' possa essere emessa una giusta decisione; che il conflitto reale non e' tra diritto di difesa e giurisdizione, ma tra i diritti di difesa di cui sono titolari i diversi soggetti; che il conflitto in questione e' stato erroneamente risolto a danno della giurisdizione. E' evidente che in tanto il diritto alla non comparizione ed al silenzio e la facolta' di menzogna possono essere indirettamente tutelati in quanto non consentano di bloccare ne' l'esercizio dell'azione ne' l'esercizio della giurisdizione, ponendosi solo come diritto dell'individuo di astenersi dal collaborare con gli organi preposti alla verifica della responsabilita' penale. Quindi i contemperamenti volti a risolvere il problema del conflitto degli interessi contrapposti non possono che essere ricercati su altri piani. Ed invero, il processo introdotto nel 1988 (tendenzialmente accusatorio) ha fatto proprio e valorizzato come principio cardine quello dell'oralita', id est della formazione della prova in dibattimento, cioe' nel contraddittorio delle parti di fronte al giudice terzo investito del potere di decidere nel merito del processo. Cio', tra l'altro, in armonia con il disposto dell'art. 6, comma 2, lett. d), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. L'intendimento di una maggiore salvaguardia del contraddittorio nella formazione della prova, del resto, e' apparso uno degli scopi fondamentali che hanno mosso l'azione del legislatore del 1997. Seppure a mezzo di meccanismi processuali irrazionali e' palese l'intenzione di costruire il contraddittorio, sub specie di diritto all'esame e controesame, come diritto delle parti. Tanto premesso, e' pero' pure palese che una delle condizioni per lo sviluppo del contraddittorio, quando esso assume la forma genetica della prova e cioe' la forma dell'esame incrociato, e' che il soggetto che vi e' sottoposto sia gravato dell'obbligo di presentarsi e di rispondere alle domande che gli vengono rivolte. Se tali condizioni non sussistono, invero, si concede al soggetto in questione il potere di vanificare l'altrui diritto all'esame e controesame. D'altra parte e' scontato, almeno nel nostro ordinamento processuale penale, che elementi di accusa possano provenire da coimputati (oltre che da imputati in procedimento connesso), titolari, come tali, della facolta' di non prestare il proprio consenso all'esame richiesto da altre parti e addirittura di non comparire in udienza. Ebbene, mentre la concessione alle parti di un diritto di veto rispetto all'acquisizione delle dichiarazioni rese senza contraddittorio dai coimputati divenute irripetibili finisce per ledere irreparabilmente il razionale esercizio dell'azione penale, l'indefettibilita' della giurisdizione e lo scopo stesso del processo, la acquisizione immediata di tali dichiarazioni finisce per ledere il diritto di azione e/o difesa delle medesime parti sub specie di diritto all'esame ed al controesame. Si privano le parti del potere di fare domande, ricevere risposte, dialettizzare, rispetto ad esse, l'elemento di prova acquisito nelle indagini attraverso le contestazioni. Cio' posto - considerando come fondamento della costruzione ordinamentale da un lato la stessa prospettiva del legislatore del 1988 e del 1997 e cioe' l'intangibilita' del diritto al contradittorio e, dall'altro, i principi di uguaglianza, legalita', obbligatorio esercizio dell'azione penale, funzione conoscitiva del processo e del dibattimento, indefettibilita' della giurisdizione -, diviene irrazionale riconoscere al coimputato (ma analogo ragionamento vale per l'imputato in procedimento connesso) che abbia reso al pubblico ministero o alla p.g. "delegata" o al g.i.p. o al g.u.p. dichiarazioni che costituiscono elemento indiziante a carico di determinati soggetti, la facolta' di non rispondere nel dibattimento a carico di quei soggetti e addirittura di non presentarsi nemmeno in udienza. In tali limiti appare non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3 e 24, comma secondo, Cost., la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 490, 503, comma 1 e 513, comma 1, c.p.p. E' superfluo sottolineare che un'eventuale declaratoria di illegittimita' costituzionale delle norme predette e nei limiti suindicati consentirebbe a tutte le parti di esercitare il proprio diritto all'esame con le correlative ed eventuali contestazioni, mentre non introdurrebbe per i coimputati l'obbligo di dire la verita', con le correlative sanzioni. Dichiarazioni rese in sede di esame e contestazioni sarebbero ovviamente valutabili dal giudice ai fini della decisione. In sostanza, l'unica via razionale aperta alla soluzione del problema in questione - posti i vincoli di principio dell'indefettibilita' della giurisdizione, dell'obbligatorio esercizio dell'azione penale, della funzione conoscitiva del processo, del diritto di difesa degli imputati - e' quella di ritenere che, a fronte di dichiarazioni indizianti rese da un imputato nei confronti di altri, il diritto di difesa del dichiarante si affievolisca di fronte al diritto di difesa dei chiamati in causa, sub specie di diritto di costoro di interrogarlo sulle accuse direttamente od indirettamente rivolte loro. La ragionevolezza di tale affievolimento si apprezza anche in considerazione del fatto che, quando in sede penale - indagini o dibattimento -, un soggetto sottoposto ad indagine o un imputato rivolge accuse ad altri compie un atto che ha due effetti: da un lato esercita in quel modo preciso il suo diritto di difesa, con tutti i benefici e gli inconvenienti del caso, dall'altro impone all'autorita' giudiziaria (art. 112 Cost.) di approfondire quelle affermazioni, con tutte le conseguenze in termini sia di eventuale sacrificio degli altrui diritti individuali in sede cautelare, sia di dispendio di energie degli organi pubblici preposti all'accertamento. Date le conseguenze di un tale comportamento non e' possibile esimere il dichiarante da una assunzione di responsabilita' che comporti, quanto meno, l'obbligo di presentarsi in udienza l'assunto non deve sembrare troppo "azzardato" posto che l'art. 392, comma 1, lett. c), c.p.p. (come modificato dall'art. 4, comma 1, della legge n. 267/1997) stabilisce che si puo' procedere "con incidente probatorio ... all'esame della persona sottoposta alle indagini su fatti concernenti le responsabilita' di altri" e l'art. 399 c.p.p. stabilisce che "se la persona sottoposta alle indagini, la cui presenza e' necessaria per compiere un atto da assumere con l'incidente probatorio, non compare senza addurre un legittimo impedimento, il giudice ne ordina l'accompagnamento coattivo". Dunque, in sede di incidente probatorio, il combinato disposto degli artt. 392, comma 1, lett. c) e 399 c.p.p. consente al giudice di disporre l'accompagnamento coattivo dell'indagato quando debba procedersi al suo esame "su fatti concernenti le responsabilita' di altri" e di rispondere alle domande rivoltegli in sede di esame e controesame dai difensori dei soggetti accusati. Del resto, il diritto di difesa del dichiarante non e' del tutto cancellato, posto che egli manterrebbe la facolta' di dare versioni diverse, ritrattare, perfino mentire, facolta' pure essa ritenuta, fino ad oggi, espressione del diritto di difesa. D'altro canto proprio le virtu' euristiche dell'esame dibattimentale nelle quali il legislatore mostra di riporre la massima fiducia, oltre che l'intero sistema processuale nel suo complesso, garantiscono piu' che a sufficienza dal pericolo che le menzogne dibattimentali vengano recepite in sentenza o, quanto meno, riducono tale pericolo rispetto al livello che esso attinge quando vengono acquisite dichiarazioni assunte da una parte senza contraddittorio e divenute irripetibili. Al legislatore rimarrebbe, comunque, sia la valutazione se l'imputato-dichiarante debba o no essere equiparato al testimone (secondo quanto avviene nel sistema nord-americano), sia, in caso contrario, la decisione circa l'introduzione - ovviamente opportuna poiche' costituente una forma di tutela dell'effettivita' del contraddittorio - di un nuovo reato contro l'amministrazione della giustizia avente come fattispecie obiettiva l'omessa risposta a domande rivolte nel corso dell'esame a carico di imputati che abbiano precedentemente reso al p.m. od alla p.g. o al g.i.p. o al g.u.p. dichiarazioni indizianti a carico di "altri", sia coimputati nel medesimo procedimento sia imputati in altri procedimenti. Occorre infine notare che la questione di legittimita' di cui si discorre e' stata trattata per ultima per mera comodita' espositiva dei complessi problemi sottostanti a quelle dianzi considerate, ma essa si pone come preliminare rispetto a quella concernente l'art. 513, comma 1, c.p.p. come modificato dall'art. 1, della legge n. 267 del 1997. E' chiaro infatti che, qualora venisse accolta la eccezione di cui qui si discorre, verrebbe meno uno dei presupposti fondamentali su cui e' costruita l'attuale disciplina dell'acquisizione delle dichiarazioni degli imputati (o degli imputati in procedimento connesso) e si determinerebbe immediatamente, in base a questo dato nuovo, la necessita' di verificare la compatibilita' costituzionale di una disciplina che affida alla volonta' delle parti il potere di interdire l'acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali di chi - a questo punto illegittimamente - rifiuta di rispondere. Ritiene il Collegio che tutti i motivi che rendono non manifestamente infondata la questione concernente l'attuale testo dell'art. 513, comma 1, c.p.p. non possano che essere ribaditi con forza ed a maiori anche con riferimento a questa nuova situazione. Inoltre l'illegittimo rifiuto di rispondere puo' conferire in astratto alle precedenti dichiarazioni o particolare credibilita' - perche' sono acquisiti elementi dai quali si ricava che l'imputato ha rifiutato di rispondere a causa di minacce od offerte di utilita' ovvero "risultano altre situazioni che hanno compromesso la genuinita' dell'esame" (secondo quanto stabilito, relativamente ai "testimoni", dall'art. 500, comma 5, c.p.p.) - oppure particolare inaffidabilita', potendosi ipotizzare che l'illegittimo rifiuto di rispondere sia assimilabile ad una attendibile ritrattazione. Orbene, un problema del genere appare ovviamente irresolubile in astratto - cioe' mediante disciplina legislativa - e, per sua natura, non puo' che essere risolto caso per caso nell'ambito del singolo processo e, cioe', sottoposto prima al contraddittorio delle parti e poi al razionale e motivato convincimento giudiziale, affinche' sia resa una giusta decisione nella situazione concreta. IX. - Si deve quindi concludere che, rigettata quest'ultima eccezione, non sia manifestamente infondata la questione di legittimita' dell'art. 513, comma 1, c.p.p. - come sostituito dall'art. 1, legge n. 267/1997 - nella parte in cui, con riferimento alle dichiarazioni predibattimentali etero-accusatorie rese da imputati che in dibattimento non si presentino o comunque si rifiutino di sottoporsi all'esame, subordina l'utilizzazione di "tali dichiarazioni ... nei confronti di altri" al consenso di questi ultimi. E' appena il caso di rilevare, infine, che, come si evince agevolmente da quanto detto, le questioni di legittimita' ritenute rilevanti e non manifestamente infondate vengono sollevate in subordine l'una rispetto all'altra, essendovi tra le stesse un rapporto di pregiudizialita'. X. - Pertanto, va disposta la immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale ed il procedimento in corso va sospeso, con espletamento da parte della cancelleria dei conseguenti adempimenti di legge.
P. Q. M. Applicato l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara: 1) rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dei vigenti artt. 490, 503, comma 1 e 513, comma 1, c.p.p., in riferimento agli artt. 3, 24, comma secondo, 25, comma secondo, 101, 102, comma primo, 111, 112 della Costituzione, nella parte in cui prevedono che l'imputato che abbia reso al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero, al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare dichiarazioni direttamente od indirettamente indizianti a carico di coimputati nel medesimo procedimento, possa non comparire dinanzi al giudice del dibattimento e comunque possa, relativamente a quei soggetti, rifiutarsi di sottoporsi all'esame; 2) in subordine al rigetto della questione sub-1), questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513, comma 1, c.p.p., in riferimento agli artt. 3, 25, comma secondo, 101, 102, comma primo, 111, 112 della Costituzione, nella parte in cui, dopo avere stabilito che "il giudice se l'imputato e' contumace o assente ovvero rifiuta di sottoporsi all'esame dispone, a richiesta di parte, che sia data lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dall'imputato al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare", vieta tuttavia l'utilizzazione di "tali dichiarazioni ... nei confronti di altri" in mancanza del consenso di questi ultimi; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Sospende il dibattimento in corso nei confronti degli imputati Valentino Francesco, Valentino Giacomo, Parete Aldo, Murro Matteo, Parete Antonio, Sassanelli Antonio, Semeraro Carmelo, Carparelli Vitantonio e Caldarola Lorenzo; Rinvia la trattazione del processo nei confronti degli imputati a data da fissarsi dopo la decisione della Corte costituzionale; Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei Ministri nonche' comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Bari, addi' 12 gennaio 1998 Il presidente: Petrizzelli 98C0623