N. 399 ORDINANZA (Atto di promovimento) 12 gennaio 1998

                                N.  399
  Ordinanza emessa il 12  gennaio  1998  dal  tribunale  di  Bari  nel
 procedimento penale a carico di Valentino Francesco ed altri
 Processo penale - Dibattimento - Esame di imputato che abbia reso nel
    corso delle indagini preliminari dichiarazioni indizianti a carico
    di coimputati - Lamentata prevista possibilita' di non comparire o
    di  rifiutarsi di sottoporsi all'esame - Disparita' di trattamento
    rispetto   ad  ipotesi  analoghe  (irripetibilita'  inevitabile  o
    imprevedibile) - Lesione del diritto di difesa  -  Violazione  dei
    principi  del  libero convincimento del giudice di obbligatorieta'
    dell'azione penale.
 Processo penale - Dibattimento - Esame di  coimputato  -  Ipotesi  di
    contumacia,  assenza  o  rifiuto di sottoporsi all'esame - Lettura
    delle dichiarazioni rese nel corso delle  indagini  preliminari  -
    Preclusione   per   il   giudice   di   utilizzabilita'   di  tali
    dichiarazioni nei confronti di altri  senza  il  loro  consenso  -
    Disparita'   di   trattamento   rispetto   ad   ipotesi   analoghe
    (irripetibilita' inevitabile o  imprevedibile)  -  Violazione  dei
    principi del libero convincimento del giudice e di obbligatorieta'
    dell'azione penale.
 (C.P.P. 1988, artt. 490, 503, comma 1, e 513, comma 1).
 (Cost.,  artt. 3, 24, 25, secondo comma, 101, 102, secondo comma, 111
    e 112).
(GU n.24 del 17-6-1998 )
                             IL TRIBUNALE
   Ha emesso la seguente ordinanza n. 633/1995 r.g.;
   A scioglimento della riserva formulata all'udienza dell'11 novembre
 1997.
                               In fatto
   1. - L'antivigilia di Natale del 1993, nel corso  di  un'operazione
 anticontrabbando,      militari      della     g.d.f.     procedevano
 all'identificazione di diverse persone, colte nell'atto di  scaricare
 t.l.e.  di  contrabbando dal mare alla terraferma in zona di Monopoli
 (a sud di Bari); fra tali persone vi era anche  Valentino  Francesco,
 che, essendo in possesso di un'arma clandestina, veniva arrestato dai
 militari.
   2.  -  Nel  corso  dell'interrogatorio  espletato  nell'udienza  di
 convalida dell'arresto,  celebratasi  dinanzi  al  g.i.p.  presso  il
 tribunale   di  Bari,  il  Valentino  Francesco  non  solo  ammetteva
 l'addebito   relativo   al   possesso   dell'arma   ed   al   proprio
 coinvolgimento nell'operazione di contrabbando, ma indicava anche gli
 altri  soggetti  coinvolti nella medesima operazione illecita (alcuni
 dei   quali,   peraltro,   identificati   dai    militi    in    loco
 nell'immediatezza dei fatti).
   3. - Con decreto in data 7 marzo 1995 il g.i.p. presso il tribunale
 di  Bari  disponeva  il  rinvio  a  giudizio  di Valentino Francesco,
 Valentino  Giacomo,  Parete  Aldo,  Murro  Matteo,  Parete   Antonio,
 Sassanelli   Antonio,   Semeraro  Carmelo,  Carparelli  Vitantonio  e
 Caldarola Lorenzo,  imputati  di  contrabbando  di  t.l.e.,  evasione
 I.V.A.  ed  altro,  sulla  scorta  di  fonti di prova costituite (tra
 l'altro) dalle dichiarazioni auto ed  eteroaccusatorie  di  Valentino
 Francesco.
   4. - All'udienza dibattimentale dell'11 novembre 1997 il p.m., dopo
 avere esposto i fatti di causa, chiedeva ammettersi l'esame dei testi
 indicati  nella  lista di cui all'art. 468 c.p.p. e, preso atto della
 contumacia di tutti gli imputati, chiedeva acquisirsi il  verbale  di
 interrogatorio reso dal Valentino Francesco dinanzi al g.i.p.
   Tutti  i  difensori  si  opponevano  alla acquisizione al fascicolo
 dibattimentale ed alla utilizzazione  delle  dichiarazioni  rese  dal
 Valentino Francesco.
   Preso  atto  dell'opposizione  dei  difensori, il p.m. produceva il
 verbale di dichiarazioni rese dal Valentino Francesco nei  limiti  ed
 ai  fini  di cui al vigente art. 513, comma 1, c.p.p. (limitatamente,
 cioe', alla posizione del Valentino Francesco) e chiedeva  sollevarsi
 questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 513, c.p.p., nei
 termini  di  cui  alle due esibite ordinanze del tribunale di Milano,
 aventi ad oggetto analoga questione.
   Il tribunale, ritenuta la necessita' di approfondire  la  questione
 di  illegittimita'  costituzionale  sollevata  dal p.m., riservava la
 decisione, sospendendo e rinviando il dibattimento ad altra udienza.
                              In diritto
   I. - Deve innanzitutto rilevarsi che la proposta  questione  appare
 rilevante ai fini del presente giudizio, atteso che tutti i difensori
 degli  imputati  diversi  dal  Valentino  Francesco  hanno  negato il
 consenso alla utilizzazione nei confronti dei propri assistiti  delle
 dichiarazioni  rese dal Valentino Francesco, sicche' le dichiarazioni
 rese dal Valentino Francesco, pur essendo allo  stato  "utilizzabili"
 nei  confronti  di tale imputato, non lo sono invece nei confronti di
 tutti gli altri imputati, alla luce del disposto dell'art. 513, comma
 1, c.p.p., cosi' come modificato dall'art. 1 della legge n. 267,  del
 7  agosto  1997.    Ne consegue che, in applicazione del vigente art.
 513, comma 1, c.p.p., la richiesta istruttoria del p.m.  (volta  alla
 utilizzazione  delle  dichiarazioni  rese dal Valentino Francesco nei
 confronti di tutti gli imputati, secondo la disciplina vigente  prima
 dell'entrata  in  vigore della legge n. 267/1997) dovrebbe essere sic
 et simpliciter rigettata in  applicazione  del  chiaro  disposto  del
 "nuovo"  art.  513, comma 1, c.p.p.  Che e' appunto il disposto della
 cui costituzionalita' il p.m.    dubita,  nella  parte  in  cui,  pur
 prevedendo   che  in  caso  di  contumacia,  assenza  ovvero  rifiuto
 dell'imputato di sottoporsi ad esame sia  disposta,  a  richiesta  di
 parte, la lettura "dei verbali delle dichiarazioni rese dall'imputato
 al  pubblico  ministero  o  alla  polizia  giudiziaria  su delega del
 pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini  preliminari
 o  nell'udienza  preliminare",  vieta  tuttavia  di  utilizzare "tali
 dichiarazioni ... nei confronti di altri senza il loro consenso".
   II. - Ritiene il  tribunale  che  la  questione  di  illegittimita'
 costituzionale sollevata dal p.m., cosi' come prospettata (il p.m. ha
 all'uopo  esibito  due pregevolissime ordinanze rese dal tribunale di
 Milano relativamente alla disposizione di cui al comma  2,  dell'art.
 513,   c.p.p.,   pervero   rispondente   alla  medesima  ratio  della
 disposizione di cui al  comma  1  del  medesimo  articolo),  sia  non
 manifestamente  infondata.  A  tale conclusione conducono le seguenti
 brevi considerazioni.
   III. - Come  e'  a  tutti  noto,  il  previgente  art.  513  c.p.p.
 stabiliva,  al  comma  1:  "il  giudice, se l'imputato e' contumace o
 assente  ovvero  si  rifiuta  di  sottoporsi  all'esame,  dispone,  a
 richiesta   di   parte,  che  sia  data  lettura  dei  verbali  delle
 dichiarazioni rese dall'imputato al pubblico ministero o  al  giudice
 nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare".  La
 Corte  costituzionale,  con  la  sentenza n. 60 del 24 febbraio 1995,
 ebbe a dichiarare incostituzionale detta disposizione "nella parte in
 cui non prevede che il giudice, ricorrendone le condizioni,  disponga
 che  sia  data  lettura dei verbali delle dichiarazioni dell'imputato
 assunte dalla polizia giudiziaria su delega del pubblico  ministero".
 La   Corte   evidenzio'   (tra  l'altro)  la  irragionevolezza  della
 disciplina posta  dall'art.  513  c.p.p.  alla  luce  della  modifica
 dell'art.  503  c.p.p.  operata  dal d.-l. n. 306 dell'8 giugno 1992,
 convertito dalla legge n. 356 del 7 agosto 1992, che, nel  consentire
 l'utilizzazione   per   le   contestazioni   nel   corso   dell'esame
 dell'imputato delle dichiarazioni dell'imputato assunte dalla polizia
 giudiziaria su delega del p.m.  (contestazioni a seguito delle  quali
 tali   dichiarazioni   erano   acquisite   nel   fascicolo   per   il
 dibattimento),  aveva  pienamente  equiparato  tali  dichiarazioni  a
 quelle dell'imputato direttamente assunte dal p.m.  o rese al giudice
 per  le  indagini preliminari.  Cio' posto, e' allora evidente che la
 disposizione  di  cui  al  "nuovo"  art.  513,  comma  1,  c.p.p.  e'
 perfettamente  identica a quella "previgente" (cosi' come "integrata"
 dalla Corte costituzionale), con l'eccezione dell'ultimo inciso  (sul
 quale  si  appunta,  in  buona  sostanza,  la  sollevata eccezione di
 incostituzionalita'): inciso che testualmente  vieta  l'utilizzazione
 di  "tali  dichiarazioni  ...  nei  confronti  di altri senza il loro
 consenso".
   IV. - Allora, se questo e' (ed e') il quadro normativo  attualmente
 vigente,  ad  avviso  del  tribunale  sussistono varie prospettive di
 violazione del dettato costituzionale (ovviamente in termini di  "non
 manifesta  infondatezza", limite al di la' del quale il tribunale non
 puo' esprimere valutazione alcuna).
   V. - Il primo profilo da considerare e' la violazione del principio
 di uguaglianza con riguardo alle dichiarazioni rese dall'imputato  al
 p.m.  o  alla  p.g.  su  delega  del p.m. o al giudice nelle indagini
 preliminari o nell'udienza preliminare (tutte situazioni nelle quali,
 si noti bene, l'imputato rende dichiarazioni "garantite") e  divenute
 irripetibili  a  seguito  della  mancata  comparizione  dell'imputato
 (perche' contumace o assente) dinanzi al giudice del  dibattimento  o
 del  rifiuto  dell'imputato  di  sottoporsi all'esame: disciplina che
 appare irragionevolmente  diversificata,  quanto  ad  utilizzabilita'
 dibattimentale,   rispetto   a   tutti   gli   altri   atti  divenuti
 imprevedibilmente od inevitabilmente irripetibili.  Il  problema  che
 si  pone e' se sia costituzionalmente corretto che, nell'ambito di un
 sistema accusatorio,  il  legislatore,  allo  scopo  di  tutelare  il
 contraddittorio, abbia introdotto un meccanismo che conferisce sia al
 soggetto  che  abbia  reso  dichiarazioni  a  carico  di  terzi sia a
 ciascuna  delle  parti  diverse   dal   soggetto   che   abbia   reso
 dichiarazioni  a carico di terzi il potere di impedire con la propria
 mancata comparizione (e cio' vale naturalmente per il dichiarante)  o
 con una semplice manifestazione di volonta' (e cio' vale naturalmente
 sia  per  il  dichiarante  sia  per  gli  altri) l'utilizzabilita' in
 dibattimento di elementi di prova raccolti dal pubblico ministero  in
 assenza  di  contraddittorio  (o  formatisi  dinanzi  al  g.i.p. o al
 g.u.p.) e di cui sia inevitabilmente sopravvenuta  l'irripetibilita'.
 Occorre  immediatamente  notare  che  lo  stesso  sistema codicistico
 prevede,  in   linea   di   principio,   la   piena   utilizzabilita'
 dibattimentale   degli   atti   del   pubblico   ministero   la   cui
 irripetibilita' fosse prevedibile ma inevitabile nonche'  degli  atti
 della   categoria  omogenea,  cioe'  quelli,  rispetto  ai  quali  il
 sopravvenire della causa di irripetibilita' fosse imprevedibile (art.
 512 c.p.p.).   Cio' posto, il problema  e'  se,  con  riferimento  ad
 alcuni  di essi - segnatamente le dichiarazioni dell'imputato assunte
 dal p.m. o dalla p.g. (su delega del p.m.) nel corso delle indagini o
 le  dichiarazioni  rese  dall'imputato  dinanzi  al giudice nel corso
 delle indagini preliminari  o  nell'udienza  preliminare  e  divenute
 irripetibili  per  mancata  presentazione  dell'imputato  dinanzi  al
 giudice  del  dibattimento  ovvero  per  rifiuto   dell'imputato   di
 sottoporsi  ad  esame  -, sia ragionevole introdurre un meccanismo di
 possibile  parziale  preclusione  dell'utilizzazione   dibattimentale
 fondato sulla mera manifestazione di volonta' delle parti indirizzata
 all'esclusione   della  prova.    Cosi'  impostato,  il  problema  e'
 facilmente risolvibile in base all'applicazione  dell'art.  3  Cost.,
 poiche' non appare ricorrere alcuna ragione per rimettere la prova di
 cui  si  discorre  nella  totale disponibilita' sia di colui il quale
 abbia reso le dichiarazioni sia delle parti diverse da colui il quale
 abbia  reso  le  dichiarazioni,  a  differenza  delle   altre   prove
 inevitabilmente    od    imprevedibilmente   divenute   irripetibili.
 L'insussistenza di tale ragione si coglie vie  piu'  considerando  il
 valore  che  lo  stesso  legislatore conferisce a quei medesimi atti,
 addirittura prima che siano  divenuti  irripetibili.    Se  e'  vero,
 infatti,  che  si  tratta  di  atti  talvolta  formati  in assenza di
 contraddittorio ed in segreto, e' pero' altrettanto vero:
  1)  che  si  tratta  di  atti  compiuti  dal  p.m.  (che  e'  organo
 giudiziario,   pubblico,  indipendente,  la  cui  azione  e'  rivolta
 esclusivamente all'applicazione imparziale della legge: cfr. sent. n.
 88/1991 della Corte costituzionale) o  dalla  p.g.  esclusivamente  a
 seguito di specifica delega del p.m.;
  2) che si tratta altresi' di atti che godono di particolari garanzie
 quanto  alla rispondenza alla realta' del loro contenuto, trattandosi
 di verbali;
  3) che si tratta infine di atti "garantiti" in quanto  assunti  alla
 presenza  del  difensore del dichiarante.  Cio' senza dimenticare che
 il vigente art. 513, comma 1, c.p.p.    pone  i  predetti  limiti  di
 utilizzazione non solo relativamente alle dichiarazioni dell'imputato
 assunte  dal  p.m.  o (su delega di questi) dalla p.g., ma anche alle
 dichiarazioni rese dall'imputato dinanzi al giudice nel  corso  delle
 indagini  preliminari  (si  pensi all'interrogatorio reso ex art. 391
 c.p.p., o ex art. 294 c.p.p., o ex art. 299, comma 3-ter,  c.p.p.)  o
 nel  corso  dell'udienza  preliminare  (e cioe' in una vera e propria
 fase  "giurisdizionale"):  dichiarazioni,   cioe',   rese   in   modo
 pienamente   garantito,   eventualmente  alla  presenza  degli  altri
 coimputati (cfr. art. 422 c.p.p.) e comunque dinanzi ad  un  giudice,
 che  e'  organo giudiziario pubblico, terzo, che amministra giustizia
 in nome del popolo ed e' soggetto soltanto alla legge (cfr. art.  101
 Cost.)  Proprio per questa loro particolare affidabilita',  la  legge
 riconosce  piena  rilevanza  agli  elementi  raccolti  dal p.m. nelle
 indagini o formatisi dinanzi al g.i.p. o al g.u.p.,  con  riferimento
 sia  ad atti che spiegano i loro effetti all'interno della fase delle
 indagini (es.: esercizio dell'azione penale nelle  sue  varie  forme)
 sia  ad  atti  che  spiegano  i  loro  effetti fuori dalla fase delle
 indagini (es.: al fine di emettere sentenza di non doversi  procedere
 o  decreto  che  dispone  il  giudizio)  sia  ad  atti  che  incidono
 profondamente su diritti costituzionali primari dei  cittadini  (es.:
 emissione di decreti di perquisizione e sequestro, adozione di misure
 cautelari  personali).    Se  agli  atti  di  cui si discorre vengono
 conferiti tali e tanti effetti in sede di indagini e  persino  "dopo"
 le  indagini  preliminari  (cfr.  artt.  416  e  ss.  c.p.p.)  e' poi
 irrazionale prevedere che di essi,  a  differenza  di  altri,  quando
 siano    divenuti    inevitabilmente   irripetibili,   sia   preclusa
 l'utilizzazione dibattimentale solo che una parte  manifesti  in  tal
 senso   la  sua  volonta',  con  atto  discrezionale,  immotivato  ed
 insindacabile.
   VI. - Il secondo  profilo  da  prendere  in  considerazione  e'  la
 irragionevolezza  dell'ostacolo  alla  formazione  della  prova, alla
 funzione  conoscitiva  del  dibattimento   ed   all'esercizio   della
 giurisdizione   mediante   l'introduzione   di   un   meccanismo   di
 disposizione della prova, in contrasto con gli  artt.  3,  25,  comma
 secondo, 101, comma secondo, 102, comma primo, 111, comma primo della
 Costituzione.    Con riferimento a questo profilo rileva quanto assai
 nitidamente affermato nelle sentenze n. 88 del 1991, 241, 254  e  255
 del  1992,  111  del 1993 della Corte costituzionale.  Se il processo
 deve tendere alla ricerca della verita'  reale,  se  il  processo  in
 generale  ed  il  dibattimento  in  particolare  hanno  una  funzione
 conoscitiva del fatto che ne e' oggetto, se il pubblico ministero  e'
 istituzionalmente  organo  di  giustizia  che  si  muove  al  fine di
 applicare la legge e compie validamente atti normativamente  previsti
 su  cui  possono  fondarsi  per  legge  altri  atti lesivi di diritti
 costituzionali  primari,  se  il  codice  stesso   prevede   numerosi
 meccanismi  di  recupero  dell'utilizzabilita'  di  atti  formati dal
 pubblico  ministero  quando  siano  divenuti   imprevedibilmente   od
 inevitabilmente  irripetibili,  cioe' quando il contraddittorio sia -
 per ragioni materiali o giuridiche - divenuto impossibile, senza che,
 percio',   l'omessa   rinnovazione   dell'atto   nelle   forme    del
 contraddittorio genetico sia imputabile al pubblico ministero, allora
 sembra  evidente  dover  dubitare di un meccanismo processuale che si
 risolve per un verso nel precludere l'esercizio dell'azione penale  e
 per  altro  verso nel precludere l'utilizzazione da parte del giudice
 di atti che appartengono a quelle categorie, in tal modo impedendogli
 di accertare il fatto e, in base a tale accertamento, di pervenire ad
 una  giusta  decisione.    I  diversi  aspetti  di  tale   sillogismo
 necessitano  di  una spiegazione analitica.  Anzitutto va vagliata la
 conformita'  della  disciplina   in   questione   al   principio   di
 razionalita'  nell'esercizio obbligatorio dell'azione penale (artt. 3
 e 112 Cost.). Chiariti come sopra la natura ed il valore  degli  atti
 compiuti  dal  pubblico  ministero,  occorre  considerare che il loro
 utilizzo ai fini sopra indicati non e', per il p.m., facoltativa,  ma
 e',   in  base  all'art.  112  Cost.,  obbligatoria.  Ne  deriva  che
 costituisce  un  irragionevole  ostacolo   al   razionale   esercizio
 dell'azione    penale,    oltreche    una   evidente   contraddizione
 ordinamentale, disporre che atti sui quali il pubblico  ministero  ha
 fondato  il  doveroso  esercizio  della  sua  funzione,  quando siano
 divenuti imprevedibilmente  od  inevitabilmente  irripetibili  -  con
 conseguente esclusione del contraddittorio non imputabile al pubblico
 ministero  medesimo -, siano utilizzabili in dibattimento solo con il
 consenso di tutte le  altre  parti  processuali,  tra  le  quali  gli
 imputati  nei  confronti  dei quali il contenuto di tali atti ha gia'
 spiegato in base alla legge i propri dannosi effetti.  Risulta  cioe'
 irrazionale  da un lato imporre al pubblico ministero di raccogliere,
 in modo tendenzialmente completo, elementi di prova circa  il  fatto,
 imporgli  di  chiedere  misure  cautelari  eventualmente ottenendole,
 introdurre  meccanismi  di  garanzia  contro  l'inerzia  del pubblico
 ministero,   e   poi,   quando   quegli   elementi   siano   divenuti
 imprevedibilmente  od  inevitabilmente  "irripetibili",  conferire al
 soggetto  controinteressato  il  potere  di   disporre   della   loro
 utilizzabilita'   addirittura   in  dibattimento,  cioe'  nella  fase
 processuale in cui il pubblico ministero  agisce  per  l'accertamento
 pieno  della  responsabilita'.   L'irragionevolezza appare ancor piu'
 evidente  laddove  si  considerino  due  aspetti.  In  primis,  sotto
 l'aspetto  degli  interessi  tutelati  da  una  norma simile, occorre
 osservare che la scelta delle parti diverse dal pubblico ministero ed
 in particolare quella dell'imputato in ordine a prove formate  contro
 di  lui  risponde a logiche che, per la natura del soggetto investito
 del potere, non possono essere che strettamente egoistiche e comunque
 privatistiche.  Sotto  il  diverso  aspetto  della  forma   giuridica
 dell'atto preclusivo della utilizzazione della prova risulta evidente
 che   trattasi   di   pura  manifestazione  di  volonta',  come  tale
 discrezionale, immotivata ed insindacabile.   Riformulando,  adattato
 al  caso che ne occupa, un passaggio della sentenza n. 88 del 1991 si
 potrebbe dire che "non dovrebbe essere consentito che i rapporti  fra
 p.m.  ed  imputato  si  sbilancino  al  punto  che il secondo, con un
 semplice atto di volonta' immotivato e, percio', incontrollabile,  si
 trovi  in grado di privare il primo degli elementi di prova, divenuti
 imprevedibilmente od inevitabilmente irripetibili, in base  ai  quali
 ha  legittimamente  esercitato  sino a quel momento l'azione penale".
 Riformulando, adattato al caso che  ne  occupa,  un  passaggio  della
 sentenza   n.   111   del   1993   si  potrebbe  dire:  "...  sarebbe
 contraddittorio, da un  lato  garantire  l'effettiva  obbligatorieta'
 dell'azione  penale  contro le negligenze o le deliberate inerzie del
 pubblico ministero conferendo al giudice per le indagini  preliminari
 il  potere  di  disporre  che  costui  formuli  l'imputazione ...; e,
 dall'altro, consentire che l'utilizzo di  atti  delle  indagini,  sui
 quali  si  e'  fondato  l'esercizio  dell'azione  penale  sino a quel
 momento e divenuti imprevedibilmente od inevitabilmente irripetibili,
 possa essere impedito dallo stesso pubblico ministero o  dalle  altre
 parti  con  una  nuda  ed  immotivata manifestazione di volonta'". In
 entrambi i casi atti disciplinati dalla normativa di cui  si  discute
 ma  costituzionalmente incompatibili con gli artt. 24 e 112 Cost.: in
 un caso identico - decadenza colposa o dolosa del p.m. dal diritto di
 richiedere le prove per omessa od  intempestiva  presentazione  della
 lista testimoniale - la Corte ha salvato il sistema solo perche' esso
 prevede,  mediante l'art. 507 c.p.p., il recupero di quelle prove. Un
 recupero  pero'  evidentemente   non   consentito   dalla   normativa
 introdotta  dall'art.    1,  legge  n.  267/1997.    Va altresi' data
 risposta  negativa,  per  quanto   qui   e'   possibile,   circa   la
 compatibilita'  tra  la  disciplina  di  cui si discute e la funzione
 conoscitiva,  di  tendenziale  accertamento  della   verita'   reale,
 attribuita dalla Costituzione al processo penale.
   E' indubbio, infatti, che la sottoposizione al consenso delle parti
 della   lettura   e   quindi   dell'acquisizione   di  atti  divenuti
 inevitabilmente irripetibili costituisca un ostacolo alla  formazione
 del convincimento giudiziale e quindi all'approssimarsi del risultato
 processuale  alla  verita', nella parte in cui consente che tali atti
 siano - senza alcuna possibilita'  di  rimedio  -  sottratti  a  quel
 convincimento  mediante una manifestazione di volonta' discrezionale,
 insindacabile   ed   immotivata.      Occorre  tuttavia  valutare  la
 ragionevolezza della introduzione di siffatto ostacolo.  Si  e'  gia'
 notato   che,   rispetto   a  situazioni  identiche,  si  coglie  con
 immediatezza  una  ingiustificabile  differenza.  Solo   rispetto   a
 dichiarazioni di coimputati che non compaiano dinanzi al giudice o si
 rifiutino  di  sottoporsi  all'esame  (o  di imputati in procedimento
 connesso che si avvalgano della facolta' di non  rispondere,  secondo
 quanto  analogamente  previsto  dall'art.  513, comma 2, c.p.p.)   e'
 stato  introdotto  il  potere  delle  parti  di  impedirne  ad  nutum
 l'utilizzo,  mentre  con riferimento ad altre identiche situazioni di
 inevitabile od imprevedibile irripetibilita'  di  atti  dello  stesso
 tipo,  tale  potere  non  e'  riconosciuto.    Della  prima  di  tali
 situazioni (irripetibilita' inevitabile) costituiscono  esempi,  come
 si  e'  detto  piu'  sopra, i casi di dichiarazioni del teste morente
 assunte da p.m. o p.g. senza  che  vi  sia  stato  il  tempo  tecnico
 necessario per celebrare l'incidente probatorio, di dichiarazioni del
 cittadino  straniero  residente all'estero assunte da p.m. o p.g., di
 dichiarazioni del testimone prossimo congiunto che si avvalga solo in
 dibattimento della facolta' di non sottoporsi ad esame.  Alla seconda
 categoria (irripetibilita'  imprevedibile),  governata  dai  medesimi
 principi,  appartengono  le dichiarazioni rese al p.m.  dall'imputato
 in procedimento connesso  (o  coimputato)  di  cui  sia  sopravvenuta
 l'irreperibilita'  (art.  513,  comma  2, seconda parte), il decesso,
 l'infermita' produttiva  di  amnesia  sui  fatti  (art.  512),  o  di
 soggetto  che  decida  di  sottoporsi  all'esame  ma  si  astenga dal
 rispondere a singole domande (fatto che consente la  contestazione  e
 l'utilizzazione delle dichiarazioni predibattimentali: art. 503) e di
 testimone  prossimo  congiunto  che  si avvalga della facolta' di non
 rispondere (sent. n. 179/1994).  Ad essere precisi,  gli  ultimi  due
 casi appartengono ad entrambe le categorie: atti imprevedibilmente ed
 inevitabilmente  irripetibili.    Ne'  pare  che  la diversa causa di
 irripetibilita'  sopravvenuta  -  naturale  (quale   il   decesso   o
 l'infermita')  o  giuridica  (quale l'esercizio della facolta' di non
 rispondere) - o le diverse  ragioni  per  cui  l'omessa  rinnovazione
 dell'atto  di  assunzione  della  prova  e' risultata non evitabile -
 naturale (quale  la  residenza  all'estero  del  teste  straniero)  o
 giuridica   (quale,   ancora,   l'esercizio  della  facolta'  di  non
 rispondere) - possano in alcun modo giustificare la  diversificazione
 delle  discipline  dell'utilizzabilita' degli atti di cui si discute,
 poiche' l'effetto dell'azione di tali  cause  sull'atto  e'  identico
 (irripetibilita'   e   preclusione   della  rinnovabilita'  dell'atto
 assuntivo della prova non imputabile al p.m.)  e  perche'  le  uniche
 differenze  -  ad esempio: diritto di difesa attuale rispetto al vivo
 ma non rispetto al morto  -  riguardano  il  dichiarante,  ma  non  i
 soggetti  attinti  dalle sue dichiarazioni rispetto al cui diritto al
 contraddittorio le diverse cause di  irripetibilita'  ed  inevitabile
 preclusione  alla  rinnovazione  dell'atto agiscono in modo identico,
 rendendolo impossibile.  Si tratta, lo si ribadisce, di casi identici
 - in cui il contraddittorio e' inibito senza che cio' sia  imputabile
 al   pubblico  ministero  -  alcuni  dei  quali  subiscono  pero'  un
 trattamento irragionevolmente diverso.
   Esiste  un  ulteriore  profilo  di  irragionevolezza  nell'ostacolo
 frapposto  alla  formazione  della  prova  mediante  il  procedimento
 alternativo e sussidiario piu' volte  menzionato,  profilo  attinente
 proprio  alla  devoluzione  alle parti in generale, ed in particolare
 agli   imputati,   della   decisione   circa   l'utilizzabilita'   in
 dibattimento di elementi raccolti dal pubblico ministero in  sede  di
 indagini  (elementi  che  possono  spiegare  una diretta od indiretta
 efficacia probatoria  a  loro  carico)  e  di  cui  sia  sopravvenuta
 imprevedibilmente  od  inevitabilmente  l'irripetibilita'.   La Corte
 costituzionale, come si e' detto, ha gia' avuto modo,  ragionando  su
 fattispecie  di  decadenza  colposa o consapevolmente determinata del
 pubblico ministero dalla prova, di affermare come  incontroverso  che
 "sarebbe   contrario  ai  principi  costituzionali  di  legalita'  ed
 obbligatorieta' dell'azione  penale  concepire  come  disponibile  la
 tutela   giurisdizionale   assicurata   dal   processo   penale";  e,
 immediatamente   dopo,   che   disporre   della    prova    equivale,
 indirettamente,  a  disporre  della  stessa  res  iudicanda (sent. n.
 111/1993).  Parimenti incontroverso, a parere de tribunale (v. supra)
 e' che la normativa di cui si tratta abbia introdotto  il  potere  di
 alcune  delle  parti di disporre della prova e che cio' consenta alle
 medesime - secondo l'insegnamento, totalmente condiviso, della  Corte
 (sent.     n.  111/1993)  -  di  disporre  altresi',  indirettamente,
 dell'oggetto del processo.  Ulteriore conferma di tale conclusione si
 rinviene considerando di nuovo gli interessi  tutelati  dal  tipo  di
 atto  di  cui si discute.   Trattandosi, come si e' detto, del potere
 attribuito alle  parti  del  processo  di  inibire  l'uso  di  prove,
 l'aspetto  di  tutela del diritto di difesa appare prospettabile solo
 come stimolo per il p.m.  a  chiedere  l'incidente  probatorio,  atto
 questo,  tuttavia,  incapace di garantire l'assicurazione della prova
 mediante la sua assunzione in contraddittorio,  posto  che  anche  in
 tale  sede  l'esaminato puo' impedire l'esercizio del contraddittorio
 non comparendo rifiutandosi di sottoporsi  all'esame  sembra  doversi
 escludere  che,  in  sede  di  incidente probatorio, l'indagato possa
 scegliere  di  non  comparire.  E'  infatti  vero   che   l'incidente
 probatorio  e'  una "anticipazione del dibattimento" e che l'art. 490
 c.p.p.   vieta   al   giudice   del    dibattimento    di    disporre
 l'accompagnamento coattivo dell'imputato quando la presenza di questi
 e' necessaria per l'assunzione dell'esame, ma e' altrettanto vero che
 l'art. 392, comma 1, lett. c) c.p.p. prevede che possa procedersi con
 incidente   probatorio   "all'esame  della  persona  sottoposta  alle
 indagini su fatti concernenti la  responsabilita'  di  altri"  e  che
 l'art.  399 c.p.p.  consente al giudice di disporre l'accompagnamento
 coattivo dell'indagato "la cui presenza e' necessaria per compiere un
 atto da assumere con l'incidente  probatorio"  (ampia  formula  nella
 quale   sembra  potersi  includere  l'esame,  espressamente  previsto
 dall'art.  392  c.p.p.).    Deve  dunque  ritenersi  che,  in  ordine
 all'esame,  il  giudice  ha in sede di incidente probatorio un potere
 coercitivo nei confronti dell'indagato che, al contrario, il  giudice
 del  dibattimento  non ha nei confronti dell'imputato.  Deve altresi'
 osservarsi che la Corte ha costantemente affermato che il diritto  di
 difesa,   ...   per   quanto   inviolabile,   non  puo'  non  trovare
 contemperamento  e  bilanciamento  rispetto  ad   altri   concorrenti
 principi  parimenti tutelati dalla costituzione e che, quindi, il suo
 livello di tutela deve essere rapportato  alle  singole,  e  diverse,
 situazioni  processuali.   Nel caso di specie, non va dimenticato che
 la stessa Corte  costituzionale,  con  riferimento  all'analogo  caso
 dell'imputato   in  procedimento  connesso  che  si  avvalesse  della
 facolta'   di   non   rispondere,  si  era  mossa  nel  senso  di  un
 bilanciamento di due valori diversi (sent. n. 254/1992):  l'esercizio
 dell'azione penale, ma soprattutto ed ancor di piu' l'esercizio della
 funzione  giurisdizionale  stessa,  da  un   lato,   e,   dall'altro,
 l'esercizio  del diritto di difesa. Quest'ultimo non rimaneva affatto
 impedito ma soltanto limitato dall'esercizio, da parte del coimputato
 od imputato in procedimento connesso, del suo diritto di difesa,  sub
 specie  di  diritto  di  non  rispondere  in  dibattimento anche alle
 domande di  chi,  direttamente  od  indirettamente,  aveva  accusato.
 Impedito cosi' l'esercizio del dirittodi difesa nel momento di genesi
 della   prova,   veniva   attivato  il  procedimento  sussidiario  ed
 alternativo di formazione della prova che comunque lasciava spazio al
 tradizionale esercizo del  diritto  di  difesa  sulla  prova  formata
 (oltre  ad introdurre, di fatto, argomenti sfavorevoli all'intrinseca
 credibilita' del dichiarante).  Ma la situazione si  aggrava  proprio
 quando   la   parte   (in  particolare  il  coimputato  nel  medesimo
 procedimento o l'imputato nel procedimento connesso o  collegato)  si
 oppone alla lettura di dichiarazioni irripetibili rese direttamente a
 suo  carico.  In  tal caso, infatti, posto che tali dichiarazioni non
 sono considerate ontologicamente inaffidabili dal  legislatore  (che,
 altrimenti,  non ne avrebbe consentito la documentazione e l'utilizzo
 non solo in fase di indagini preliminari  ed  a  fini  cautelari,  ma
 persino  in dibattimento, nei confronti dello stesso dichiarante), il
 meccanismo  normativo  risulta  semplicemente  paradossale:  i   veti
 incrociati  di soggetti privati (quali sono i coimputati nel medesimo
 procedimento, cioe' i soggetti nei quali  possono  identificarsi  gli
 "altri" di cui all'ultimo inciso dell'art. 513, comma 1, (quanto agli
 imputati  in  procedimento  connesso  o  collegato, pur astrattamente
 identificabili in tale inciso, per  essi  vi  e'  l'omologo  disposto
 dell'art.  513,  comma  2),  precludendo  l'ingresso  della  prova in
 dibattimento, finiscono inevitabilmente per precludere (in  tutto  od
 in  parte)  l'esercizio  stesso  della  giurisdizione  e prima ancora
 quello dell'azione penale.    Considerato  che  i  soggetti  predetti
 agiscono,  come  si  notava,  per  interessi  privatissimi  e sinanco
 meramente  egoistici,  l'ostacolo   frapposto   all'esercizio   della
 giurisdizione  non  puo'  non essere ritenuto irrazionale.  La stessa
 Corte costituzionaie  (sent.  n.  111/1993)  ha  infatti  considerato
 illegittimo il potere riconosciuto al pubblico ministero - organo cui
 pure la Corte riconosce funzioni pubbliche finalizzate esclusivamente
 all'applicazione  della  legge  (sent.  n. 88/1991) - di disporre del
 processo disponendo della prova (potere riconosciutogli  dai  giudici
 di  merito  remittenti  grazie  ad  una interpretazione dell'art. 507
 c.p.p. ritenuta illegittima).    A  questo  punto  non  si  puo'  non
 considerare   illegittimo   a   maggior   ragione   l'analogo  potere
 riconosciuto dalla legge a soggetti privati - quali sono gli imputati
 e la parte civile - che, come tali, orientano  i  loro  comportamenti
 secondo   logiche   meramente   individualistiche.      E'   altresi'
 prospettabile, considerate le precedenti  osservazioni,  una  diretta
 violazione  dell'art.  25, comma secondo, Costituzione nella parte in
 cui prevede che i colpevoli debbano essere puniti.  E' invero  quanto
 mai  evidente  che,  condizionando l'utilizzo da parte del giudice di
 elementi di  prova  irripetibili  raccolti  durante  le  indagini  al
 consenso  dell'imputato  a carico del quale tali elementi spiegano la
 loro  efficacia  probatoria,  si  consente  che  l'imputato   stesso,
 mediante  una  scelta  discrezionale,  immotivata,  insindacabile  ed
 eventualmente  ispirata  ad  interessi  non   tutelabili,   impedisca
 l'accertamento   del   fatto   e   percio'   delle   sue  (eventuali)
 responsabilita'.    In  sostanza,  lo  si  ribadisce,   si   consente
 all'imputato,  disponendo  della  prova  a  suo  carico,  di disporre
 indirettamente dell'oggetto stesso del processo, in violazione - gia'
 riconosciuta una volta dalla Corte costituzionale nella  sentenza  n.
 111/1993    con    riferimento    all'interpretazione   astrattamente
 formalistica dell'art. 507 c.p.p.  recepita dai giudici remittenti  -
 degli artt. 3, 25, comma secondo, 27, comma primo, Cost.
   Ne'  puo'  essere  richiamato, in contrario avviso, il principio di
 presunta innocenza dell'imputato, poiche' esso, se fosse interpretato
 nel senso assolutistico di conferimento all'imputato  del  potere  di
 interdire  l'assunzione  delle prove a suo carico, renderebbe inutile
 l'esercizio  stesso  dell'azione   penale   e   della   giurisdizione
 annullando  il  valore  dei  connessi  principi.    Va  approfondito,
 seguendo prospettive gia' accennate, il contrasto della disciplina di
 cui si discute con gli artt. 101 e 111 della Costituzione.  E' banale
 osservare che la formazione del razionale  e  motivato  convincimento
 giudiziale  -  artt. 3, 101, comma secondo, 111, Cost.  - non e' solo
 parte integrante dell'esercizio della funzione giurisdizionale, ma e'
 cio' in cui lo scopo stesso del processo si invera.  Ebbene, a parere
 del tribunale, la normativa di cui si tratta, introducendo il  potere
 delle  parti di disporre della prova - tale essendo, lo si ripete, in
 tutta la sistematica  codicistica  l'elemento  raccolto  in  sede  di
 indagini  dal  pubblico  ministero o formatosi dinanzi al g.i.p. o al
 g.u.p. divenuto imprevedibilmente od inevitabilmente irripetibile  -,
 consente  di  sottrarla  alla  razionale  e  motivata valutazione del
 giudice, in tal modo impedendoli di formarsi un convincimento che  si
 avvicini  il  piu'  possibile  alla  reale verificazione dei fatti e,
 quindi, impedendo la pronuncia di una giusta decisione.   Vale  anche
 notare  che,  almeno  nella  materia dell'utilizzabilita' delle prove
 processuali penali, quando, come nel caso di specie, la legge devolve
 a  privati  quali  sono  gli  imputati  (nonche'  gli   imputati   in
 procedimento  connesso  e  la  parte  civile)  la  decisione ultima e
 definitiva, oltre che discrezionale,  immotivata  ed  incontrollabile
 (tali  non  sono  le  scelte  effettuate nell'ambito dei procedimenti
 speciali, che hanno sempre come alternativa  il  giudizio  ordinario)
 sull'utilizzabilita'  delle  prove, allora appare violata dalla legge
 stessa la regola secondo cui il giudice e' soggetto solo alla  legge:
 per   il  tramite  formale  di  una  norma  giuridica  il  giudice  -
 nell'esercizio della funzione che gli e' piu' propria, il giudizio  -
 viene  fatto  soggiacere  alle  decisioni  altrui.    Ed ancora, sono
 l'aspetto della corretta e  razionale  formazione  del  convincimento
 giudiziale   nonche'   della   -  strettamente  connessa  -  funzione
 conoscitiva assegnata dalla Costituzione al  processo  penale  ed  al
 dibattimento,  risulta rilevante non solo l'aspetto del diniego della
 difesa alla lettura di prove introdotte dal  pubblico  ministero,  ma
 anche  l'aspetto  dell'assenso.    Invero,  le difese degli imputati,
 opportunamente negando e concedendo il loro consenso all'ingresso  di
 alcune  prove  ma  non di altre, ben possono costringere il giudice a
 ricostruire il fatto in modo anche molto  distante  dalla  sua  reale
 verificazione  o,  quanto  meno, dalla ricostruzione che del medesimo
 sarebbe razionalmente preferibile se al giudice fossero  fornite  per
 intero e completamente le prove gia' comunque esistenti agli atti del
 pubblico   ministero,  la  cui  introduzione  nel  fascicolo  per  il
 dibattimento solo il nutum delle parti puo' impedire. In tal senso il
 contrasto con  quanto  affermato  dalla  Corte  costituzionale  nelle
 sentenze n. 255 del 1992 e 111 del 1993 e' piu' che evidente.
   VII.  -  La  riprova della fondatezza (rectius, della non manifesta
 infondatezza)   di   quanto   sin   qui   esposto,   riviene    dalla
 contraddittorieta'  generale emergente dal sistema processuale, cosi'
 come disegnato dalla  legge  n.  267/1997,  con  conseguente  lesione
 dell'art.  3  della  Costituzione.    Si  pensi  a  questa semplice e
 frequentissima  situazione:  il  pubblico  ministero   raccoglie   le
 dichiarazioni   di  uno  o  piu'  imputati  (o  magari  raccoglie  le
 dichiarazioni rese da uno o piu' imputati dinanzi al g.i.p.) e  trova
 i   debiti  riscontri;  a  seguito  di  cio'  (adempiendo  al  dovere
 impostogli dall'art. 112  Cost.)  chiede  ed  ottiene  l'applicazione
 della custodia cautelare in carcere; in dibattimento l'imputato o gli
 imputati  "dichiaranti"  rimangono  contumaci  o  assenti ovvero, pur
 essendo presenti, si rifiutano di sottoporsi all'esame e subito  dopo
 gli  altri  imputati "accusati" non prestano il proprio consenso alla
 utilizzazione    nei    loro    confronti     delle     dichiarazioni
 predibattimentali  dei  primi;  ebbene, a causa della "sottrazione di
 prova" sancita dall'art.  513, comma 1, c.p.p., gli "altri"  imputati
 (cioe'  gli imputati "diversi" dai coimputati "dichiaranti") non solo
 verranno assolti, ma avranno anche diritto ad ottenere la riparazione
 per  ingiusta  detenzione  ex  art.  314   c.p.p.      L'ordinamento,
 chiaramente,  pone  se  stesso  come  generatore  di illegittimita' e
 quindi si pone in contraddizione con se stesso.
   VIII. - Un  ulteriore  profilo  che  merita  attenzione  e'  quello
 attinente  alla facolta' dell'imputato che innanzi al p.m., alla p.g.
 "delegata",  al  g.i.p.  o  al  g.u.p.   abbia   reso   dichiarazioni
 direttamente   od  indirettamente  indizianti  a  carico  di  "altri"
 soggetti di non  comparire  in  dibattimento  o,  pur  comparendo  in
 dibattimento,  di  rifiutarsi di sottoporsi all'esame rispetto a quei
 soggetti.    Ritiene  questo  Collegio  che   le   discrasie   e   le
 contraddizioni  in cui si involge la disciplina introdotta con l'art.
 1 della legge n. 267/1997 siano dovute alla creazione legislativa  di
 un  vero  e  proprio  conflitto,  in  quanto  tale irragionevole, tra
 diritto  di  difesa  ed  esercizio  della  funzione  giurisdizionale.
 Infatti, tutelando sino all'estremo limite per un verso il diritto al
 contraddittorio degli imputati e, per altro verso, il loro diritto di
 non   comparire   in   dibattimento  e  di  non  sottoporsi  all'eame
 dibattimentale - entrambi espressione del piu'  generale  diritto  di
 difesa   -,  la  legge  finisce  per  sacrificare  l'esercizio  della
 giurisdizione: in nome del suo diritto  al  contraddittorio  ciascuna
 parte puo' vietare ad nutum l'utilizzabilita' nei propri confronti di
 dichiarazioni di un coimputato che, in nome del suo diritto di difesa
 e   comunque   nell'esercizio   delle  sue  prerogative,  abbia  reso
 impossibile il contraddittorio medesimo,  rifiutandosi  ad  nutum  di
 sottoporsi  all'esame  o  addirittura  scegliendo (legittimamente) la
 strada della contumacia o dell'assenza in  udienza  (strada  che  non
 puo' essere sbarrata dall'esercizio di poteri coercitivi da parte del
 giudice,   posto  che  l'art.  490  c.p.p.    vieta  al  giudice  del
 dibattimento di  disporre  l'accompagnamento  coattivo  dell'imputato
 quando   la   presenza   di   questi  e'  finalizzata  all'assunzione
 dell'esame),  come puo' agevolmente notarsi, la esposta situazione e'
 persino piu' "grave" di quella prevista dal comma 2, dell'art.    513
 c.p.p.,  visto  che  nei  confronti  degli  imputati  in procedimento
 connesso o collegato puo' almeno disporsi l'accompagnamento  coattivo
 (fermo  restando  il  loro  diritto di non rispondere).   Da tale pur
 sintetica  analisi   emerge   immediatamente:   che   il   meccanismo
 processuale  e'  irragionevole,  poiche'  gli  artt.  2, 3, 25, comma
 secondo, 101, comma secondo, 102, 111, Cost. fondano il principio  di
 indefettibilita'  della  giurisdizione  penale, ed in particolare del
 dibattimento, finalizzati ad assicurare la piena conoscenza da  parte
 del  giudice  dei  fatti  oggetto del processo affinche' possa essere
 emessa una giusta decisione;  che  il  conflitto  reale  non  e'  tra
 diritto  di difesa e giurisdizione, ma tra i diritti di difesa di cui
 sono titolari i diversi soggetti; che il conflitto  in  questione  e'
 stato  erroneamente risolto a danno della giurisdizione.  E' evidente
 che in tanto il diritto alla non comparizione ed  al  silenzio  e  la
 facolta' di menzogna possono essere indirettamente tutelati in quanto
 non   consentano   di   bloccare   ne'  l'esercizio  dell'azione  ne'
 l'esercizio  della  giurisdizione,  ponendosi   solo   come   diritto
 dell'individuo  di  astenersi dal collaborare con gli organi preposti
 alla verifica della responsabilita' penale. Quindi i  contemperamenti
 volti   a   risolvere  il  problema  del  conflitto  degli  interessi
 contrapposti non possono che essere ricercati su  altri  piani.    Ed
 invero, il processo introdotto nel 1988 (tendenzialmente accusatorio)
 ha   fatto  proprio  e  valorizzato  come  principio  cardine  quello
 dell'oralita', id est della formazione della prova  in  dibattimento,
 cioe'  nel  contraddittorio  delle  parti  di fronte al giudice terzo
 investito del potere di decidere nel merito del processo.  Cio',  tra
 l'altro,  in  armonia con il disposto dell'art. 6, comma 2, lett. d),
 della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei   diritti   dell'uomo.
 L'intendimento di una maggiore salvaguardia del contraddittorio nella
 formazione  della  prova,  del  resto,  e'  apparso  uno  degli scopi
 fondamentali che hanno  mosso  l'azione  del  legislatore  del  1997.
 Seppure  a  mezzo  di  meccanismi  processuali  irrazionali e' palese
 l'intenzione di costruire il contraddittorio, sub specie  di  diritto
 all'esame  e  controesame, come diritto delle parti.  Tanto premesso,
 e' pero' pure palese che una delle condizioni  per  lo  sviluppo  del
 contraddittorio,  quando  esso assume la forma genetica della prova e
 cioe' la forma dell'esame incrociato, e' che il soggetto  che  vi  e'
 sottoposto  sia  gravato  dell'obbligo di presentarsi e di rispondere
 alle  domande  che  gli  vengono  rivolte.  Se  tali  condizioni  non
 sussistono,  invero, si concede al soggetto in questione il potere di
 vanificare l'altrui diritto all'esame e controesame. D'altra parte e'
 scontato, almeno  nel  nostro  ordinamento  processuale  penale,  che
 elementi  di  accusa  possano  provenire  da coimputati (oltre che da
 imputati  in  procedimento  connesso),  titolari,  come  tali,  della
 facolta'  di  non prestare il proprio consenso all'esame richiesto da
 altre parti e addirittura di  non  comparire  in  udienza.    Ebbene,
 mentre  la  concessione  alle  parti  di  un diritto di veto rispetto
 all'acquisizione delle dichiarazioni rese senza  contraddittorio  dai
 coimputati  divenute irripetibili finisce per ledere irreparabilmente
 il razionale esercizio dell'azione penale,  l'indefettibilita'  della
 giurisdizione  e  lo  scopo  stesso  del  processo,  la  acquisizione
 immediata di tali dichiarazioni finisce  per  ledere  il  diritto  di
 azione  e/o  difesa  delle  medesime  parti  sub  specie  di  diritto
 all'esame ed al controesame. Si privano le parti del potere  di  fare
 domande,   ricevere   risposte,   dialettizzare,  rispetto  ad  esse,
 l'elemento  di  prova  acquisito   nelle   indagini   attraverso   le
 contestazioni.    Cio'  posto  -  considerando  come fondamento della
 costruzione ordinamentale  da  un  lato  la  stessa  prospettiva  del
 legislatore  del 1988 e del 1997 e cioe' l'intangibilita' del diritto
 al  contradittorio  e,  dall'altro,  i   principi   di   uguaglianza,
 legalita',   obbligatorio   esercizio  dell'azione  penale,  funzione
 conoscitiva del processo e del dibattimento,  indefettibilita'  della
 giurisdizione  -,  diviene  irrazionale riconoscere al coimputato (ma
 analogo ragionamento vale per l'imputato  in  procedimento  connesso)
 che  abbia  reso  al  pubblico  ministero o alla p.g. "delegata" o al
 g.i.p.  o  al  g.u.p.  dichiarazioni   che   costituiscono   elemento
 indiziante  a  carico  di  determinati  soggetti,  la facolta' di non
 rispondere nel dibattimento a carico di quei soggetti  e  addirittura
 di  non  presentarsi  nemmeno in udienza.   In tali limiti appare non
 manifestamente infondata, in relazione  agli  artt.  3  e  24,  comma
 secondo,  Cost.,  la  questione  di legittimita' costituzionale degli
 artt. 490, 503, comma  1  e  513,  comma  1,  c.p.p.    E'  superfluo
 sottolineare   che   un'eventuale   declaratoria   di  illegittimita'
 costituzionale  delle  norme  predette  e   nei   limiti   suindicati
 consentirebbe  a  tutte  le  parti  di  esercitare il proprio diritto
 all'esame con le correlative ed eventuali contestazioni,  mentre  non
 introdurrebbe  per  i coimputati l'obbligo di dire la verita', con le
 correlative  sanzioni.  Dichiarazioni  rese  in  sede  di   esame   e
 contestazioni  sarebbero  ovviamente  valutabili  dal giudice ai fini
 della decisione.   In sostanza, l'unica  via  razionale  aperta  alla
 soluzione  del  problema  in questione - posti i vincoli di principio
 dell'indefettibilita'    della    giurisdizione,    dell'obbligatorio
 esercizio   dell'azione   penale,   della  funzione  conoscitiva  del
 processo, del diritto  di  difesa  degli  imputati  -  e'  quella  di
 ritenere  che,  a  fronte  di  dichiarazioni  indizianti  rese  da un
 imputato nei confronti di altri, il diritto di difesa del dichiarante
 si affievolisca di fronte al diritto di difesa dei chiamati in causa,
 sub specie  di  diritto  di  costoro  di  interrogarlo  sulle  accuse
 direttamente  od  indirettamente  rivolte  loro. La ragionevolezza di
 tale affievolimento si apprezza anche  in  considerazione  del  fatto
 che,  quando  in sede penale - indagini o dibattimento -, un soggetto
 sottoposto ad indagine o un imputato rivolge accuse ad  altri  compie
 un  atto che ha due effetti: da un lato esercita in quel modo preciso
 il suo diritto di difesa, con tutti i benefici  e  gli  inconvenienti
 del  caso,  dall'altro  impone  all'autorita'  giudiziaria  (art. 112
 Cost.)  di approfondire quelle affermazioni, con tutte le conseguenze
 in  termini  sia  di  eventuale  sacrificio  degli   altrui   diritti
 individuali  in  sede  cautelare,  sia  di dispendio di energie degli
 organi pubblici preposti all'accertamento. Date le conseguenze di  un
 tale  comportamento  non  e'  possibile esimere il dichiarante da una
 assunzione di responsabilita' che comporti, quanto meno, l'obbligo di
 presentarsi in udienza l'assunto non deve sembrare troppo "azzardato"
 posto che l'art. 392, comma 1,  lett.  c),  c.p.p.  (come  modificato
 dall'art. 4, comma 1, della legge n. 267/1997) stabilisce che si puo'
 procedere  "con  incidente  probatorio  ...  all'esame  della persona
 sottoposta alle indagini su fatti concernenti le  responsabilita'  di
 altri"  e l'art. 399 c.p.p.  stabilisce che "se la persona sottoposta
 alle indagini, la cui presenza e' necessaria per compiere un atto  da
 assumere  con  l'incidente  probatorio,  non compare senza addurre un
 legittimo  impedimento,  il  giudice  ne   ordina   l'accompagnamento
 coattivo".  Dunque,  in  sede  di  incidente probatorio, il combinato
 disposto degli artt. 392, comma 1, lett.  c) e 399 c.p.p. consente al
 giudice di disporre l'accompagnamento coattivo  dell'indagato  quando
 debba   procedersi   al   suo   esame   "su   fatti   concernenti  le
 responsabilita' di altri" e di rispondere alle domande rivoltegli  in
 sede di esame e controesame dai difensori dei soggetti accusati.
   Del  resto,  il  diritto di difesa del dichiarante non e' del tutto
 cancellato, posto che egli manterrebbe la facolta' di  dare  versioni
 diverse,  ritrattare,  perfino  mentire, facolta' pure essa ritenuta,
 fino ad oggi,  espressione  del  diritto  di  difesa.  D'altro  canto
 proprio le virtu' euristiche dell'esame dibattimentale nelle quali il
 legislatore  mostra di riporre la massima fiducia, oltre che l'intero
 sistema processuale  nel  suo  complesso,  garantiscono  piu'  che  a
 sufficienza  dal  pericolo  che  le  menzogne  dibattimentali vengano
 recepite in sentenza o, quanto meno, riducono tale pericolo  rispetto
 al  livello  che  esso attinge quando vengono acquisite dichiarazioni
 assunte da una parte senza contraddittorio e  divenute  irripetibili.
 Al   legislatore   rimarrebbe,   comunque,   sia  la  valutazione  se
 l'imputato-dichiarante debba o  no  essere  equiparato  al  testimone
 (secondo  quanto  avviene  nel  sistema nord-americano), sia, in caso
 contrario, la decisione circa l'introduzione -  ovviamente  opportuna
 poiche'   costituente  una  forma  di  tutela  dell'effettivita'  del
 contraddittorio - di un nuovo reato  contro  l'amministrazione  della
 giustizia  avente  come  fattispecie  obiettiva  l'omessa  risposta a
 domande rivolte nel corso dell'esame a carico di imputati che abbiano
 precedentemente reso al p.m. od alla p.g. o al  g.i.p.  o  al  g.u.p.
 dichiarazioni  indizianti  a  carico  di  "altri", sia coimputati nel
 medesimo procedimento sia imputati in altri  procedimenti.    Occorre
 infine  notare che la questione di legittimita' di cui si discorre e'
 stata trattata per ultima per mera comodita' espositiva dei complessi
 problemi sottostanti a quelle dianzi considerate,  ma  essa  si  pone
 come  preliminare rispetto a quella concernente l'art.  513, comma 1,
 c.p.p. come modificato dall'art. 1, della legge n.  267 del 1997.  E'
 chiaro  infatti  che, qualora venisse accolta la eccezione di cui qui
 si discorre, verrebbe meno uno dei presupposti fondamentali su cui e'
 costruita l'attuale disciplina dell'acquisizione delle  dichiarazioni
 degli  imputati  (o  degli  imputati  in  procedimento connesso) e si
 determinerebbe immediatamente,  in  base  a  questo  dato  nuovo,  la
 necessita'  di  verificare  la  compatibilita'  costituzionale di una
 disciplina  che  affida  alla  volonta'  delle  parti  il  potere  di
 interdire l'acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali di chi
 -  a  questo punto illegittimamente - rifiuta di rispondere.  Ritiene
 il Collegio  che  tutti  i  motivi  che  rendono  non  manifestamente
 infondata  la  questione  concernente  l'attuale testo dell'art. 513,
 comma 1, c.p.p. non possano che essere ribaditi con forza ed a maiori
 anche  con  riferimento  a  questa   nuova   situazione.      Inoltre
 l'illegittimo  rifiuto  di rispondere puo' conferire in astratto alle
 precedenti dichiarazioni o particolare credibilita'  -  perche'  sono
 acquisiti elementi dai quali si ricava che l'imputato ha rifiutato di
 rispondere   a  causa  di  minacce  od  offerte  di  utilita'  ovvero
 "risultano  altre  situazioni  che  hanno  compromesso  la genuinita'
 dell'esame" (secondo quanto stabilito, relativamente ai  "testimoni",
 dall'art.      500,   comma   5,   c.p.p.)   -   oppure   particolare
 inaffidabilita', potendosi ipotizzare che  l'illegittimo  rifiuto  di
 rispondere sia assimilabile ad una attendibile ritrattazione. Orbene,
 un  problema  del genere appare ovviamente irresolubile in astratto -
 cioe' mediante disciplina legislativa - e, per sua natura,  non  puo'
 che  essere risolto caso per caso nell'ambito del singolo processo e,
 cioe', sottoposto prima al  contraddittorio  delle  parti  e  poi  al
 razionale e motivato convincimento giudiziale, affinche' sia resa una
 giusta decisione nella situazione concreta.
   IX.  -  Si  deve  quindi  concludere  che,  rigettata  quest'ultima
 eccezione,  non  sia  manifestamente  infondata   la   questione   di
 legittimita'  dell'art.    513,  comma  1,  c.p.p.  - come sostituito
 dall'art. 1, legge n. 267/1997 - nella parte in cui, con  riferimento
 alle   dichiarazioni   predibattimentali  etero-accusatorie  rese  da
 imputati  che  in  dibattimento  non  si  presentino  o  comunque  si
 rifiutino di sottoporsi all'esame, subordina l'utilizzazione di "tali
 dichiarazioni  ...  nei  confronti  di  altri"  al consenso di questi
 ultimi.  E' appena il caso di rilevare, infine, che, come  si  evince
 agevolmente  da  quanto  detto, le questioni di legittimita' ritenute
 rilevanti  e  non  manifestamente  infondate  vengono  sollevate   in
 subordine  l'una  rispetto  all'altra,  essendovi  tra  le  stesse un
 rapporto di pregiudizialita'.
   X. - Pertanto, va disposta la  immediata  trasmissione  degli  atti
 alla Corte costituzionale ed il procedimento in corso va sospeso, con
 espletamento  da  parte della cancelleria dei conseguenti adempimenti
 di legge.
                               P. Q. M.
   Applicato l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
   Dichiara:
     1) rilevante e  non  manifestamente  infondata  la  questione  di
 legittimita'  costituzionale  dei  vigenti  artt. 490, 503, comma 1 e
 513, comma 1, c.p.p., in riferimento agli artt. 3, 24, comma secondo,
 25,  comma  secondo,  101,  102,  comma   primo,   111,   112   della
 Costituzione,  nella  parte in cui prevedono che l'imputato che abbia
 reso al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria  su  delega  del
 pubblico ministero, al giudice nel corso delle indagini preliminari o
 nell'udienza preliminare dichiarazioni direttamente od indirettamente
 indizianti  a  carico  di coimputati nel medesimo procedimento, possa
 non comparire dinanzi al giudice del dibattimento e  comunque  possa,
 relativamente a quei soggetti, rifiutarsi di sottoporsi all'esame;
     2)  in  subordine al rigetto della questione sub-1), questione di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  513,  comma  1,  c.p.p.,  in
 riferimento  agli  artt. 3, 25, comma secondo, 101, 102, comma primo,
 111, 112 della Costituzione, nella parte in cui, dopo avere stabilito
 che "il giudice se l'imputato e' contumace o assente  ovvero  rifiuta
 di  sottoporsi  all'esame dispone, a richiesta di parte, che sia data
 lettura  dei  verbali  delle  dichiarazioni  rese  dall'imputato   al
 pubblico  ministero o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico
 ministero o  al  giudice  nel  corso  delle  indagini  preliminari  o
 nell'udienza  preliminare",  vieta  tuttavia l'utilizzazione di "tali
 dichiarazioni ... nei confronti di altri" in mancanza del consenso di
 questi ultimi;
   Dispone    l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
 costituzionale;
   Sospende il dibattimento in  corso  nei  confronti  degli  imputati
 Valentino  Francesco,  Valentino  Giacomo, Parete Aldo, Murro Matteo,
 Parete Antonio,  Sassanelli  Antonio,  Semeraro  Carmelo,  Carparelli
 Vitantonio e Caldarola Lorenzo;
   Rinvia  la  trattazione del processo nei confronti degli imputati a
 data da fissarsi dopo la decisione della Corte costituzionale;
   Ordina che, a cura della cancelleria,  la  presente  ordinanza  sia
 notificata  alle  parti  ed  al Presidente del Consiglio dei Ministri
 nonche' comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
     Bari, addi' 12 gennaio 1998
                       Il presidente: Petrizzelli
 98C0623