N. 411 ORDINANZA (Atto di promovimento) 20 aprile 1998
N. 411 Ordinanza emessa il 20 aprile 1998 dal giudice di pace di Imola nel procedimento civile vertente tra ditta C.E.J. e ditta Elettro C.F. s.r.l. Astensione e ricusazione - Giudice di pace - Astensione (riguardo specificamente alle decisioni secondo equita') per ritenuta sussistenza, da parte di detto giudice, di difetto o pericolo di imparzialita' - Attribuzione al magistrato coordinatore dell'ufficio del potere di rigettare la relativa richiesta di autorizzazione - Irragionevolezza - Violazione del principio del "giusto processo" - Lesione dei diritti inviolabili dell'uomo - Incidenza sul principio secondo il quale il giudice e' soggetto solo alla legge e sul principio che stabilisce la distinzione fra magistrati solo per diversita' di funzioni. Astensione e ricusazione - Giudice di pace - Diritto all'astensione (riguardo specificamente alle decisioni secondo equita') per ritenuta sussistenza, da parte di detto giudice, di difetto o pericolo di imparzialita' - Mancata previsione - Irragionevolezza - Violazione del principio del "giusto processo" - Lesione dei diritti inviolabili dell'uomo - Incidenza sul principio secondo il quale il giudice e' soggetto solo alla legge e sul principio che stabilisce la distinzione fra magistrati solo per diversita' di funzioni. Astensione e ricusazione - Giudice di pace - Astensione (riguardo specificamente alle decisioni secondo equita') per ritenuta sussistenza, da parte di detto giudice, di difetto o pericolo di imparzialita' - Provvedimento di diniego della relativa autorizzazione, emesso dal magistrato coordinatore dell'ufficio - Diritto di ricusazione a favore delle parti in giudizio, alle quali tale provvedimento e' notificato - Possibilita', per ciascuna di esse, di proporre ricorso - Mancata previsione - Irragionevolezza - Violazione del principio del "giusto processo" - Lesione dei diritti inviolabili dell'uomo - Incidenza sul principio secondo il quale il giudice e' soggetto solo alla legge e sul principio che stabilisce la distinzione fra magistrati solo per diversita' di funzioni. (Legge 21 novembre 1991, n. 374, art. 10; c.p.c., artt. 51, secondo comma, 52 e 113, secondo comma; (disp. att. c.p.c., art. 78). (Cost., artt. 2, 3, 24, secondo comma, 101, secondo comma, e 107, terzo comma).(GU n.24 del 17-6-1998 )
IL GIUDICE DI PACE Ha emesso la seguente ordinanza nella causa civile iscritta al n. 237 del ruolo generale per gli affari contenziosi dell'anno 1997 dell'ufficio del giudice di pace di Imola, avente ad oggetto opposizione a decreto ingiuntivo, promossa dalla C.F.J di Aquilanti Vittorio, elettivamente domiciliata in Imola, via Garibaldi n. 20 presso e nello studio dell'avv. F. Campagnoli che la rappresenta e difende unitamente all'avv. M. Polita per procura in atti, contro la s.r.l. Elettro C.F., elettivamente domiciliata in Imola, via Cavour n. 82, presso e nello studio dell'avv. I. Golinelli che la rappresenta e difende per procura in atti. La causa, da decidere secondo equita' ai sensi dell'art. 113, comma 2, c.p.c. perche' il valore non eccede i due milioni di lire, e' stata riservata per la deliberazione nell'udienza del 25 febbraio 1998. Sciogliendo la riserva, si osserva quanto segue. 1. - Questo g.d.p. ai sensi dell'art. 51, comma 2, c.p.c. ha richiesto al magistrato coordinatore dell'ufficio l'autorizzazione ad astenersi temendo di non essere imparziale per i motivi indicati nella istanza del 5 marzo 1998 in atti a cui si rinvia. Al riguardo il magistrato coordinatore, per i motivi indicati nel provvedimento del 13 marzo 1998 in atti a cui si rinvia, ha ritenuto non sussistenti i gravi motivi di convenienza di cui all'art. 51, comma 2, c.p.c. Ha quindi rigettato l'istanza ed ha disposto la restituzione del fascicolo di causa a questo g.d.p. per la definizione del giudizio. 2. - Dovendo dare esecuzione al menzionato provvedimento e, quindi, deliberare e dovendo altresi' vincere la cosidetta forza della prevenzione (Corte costituzionale, sent. n. 432/1995), cioe' quella naturale tendenza a mantenere il giudizio di sussistenza della gravi ragioni di convenienza gia' espresso, il giudicante si e' trovato in uno stato d'animo di profondo disagio tale da compromettere "la genuita'" e "la correttezza" del processo formativo del suo convincimento e quindi l'imparzialita', che si ricollegano alla garanzia costituzionale del "giusto processo". Ogni giudice deve essere imparziale. Allorquando si deve decidere secondo equita', poi, massimo deve essere il rigore con il quale il giudice deve vigilare su se stesso. La Corte costituzionale ha osservato che il legislatore nel prevedere i casi in cui vi e' l'obbligo del giudice di astenersi, ha inteso perseguire "la finalita' di assicurare la mancanza di ogni (pur minima) interferenza sulla posizione di terzieta' del giudice stesso per preservare la indipendenza della funzione giurisdizionale quale strumentale presidio del diritto di agire in giudizio". "La preminente esigenza di tutela di tale valore di rilievo costituzionale - gia' evidenziata da ... sent. n. 390 del 1991 che ha ritenuto prevalenti ''la garanzia della serenita' e obiettivita' dei giudizi''" - anche sull'esigenze di immediatezza e celerita' dei giudizi - "e ''la imparzialita' e terzieta' del giudice''" - rende pienamente coerente una rigorosa e dettagliata disciplina delle ipotesi di astensione del giudice (...) potendo il legislatore prendere in considerazione anche situazioni in cui il rischio di interferenza sia minimo." (sent. n. 298/1993). Tale rigore e presidio deve essere, quindi, assicurato anche nei casi di c.d. astensione facoltativa, allorquando e' lo stesso giudice a dichiarare di ritenersi privo della necessaria serenita' di giudizio e tale da poter emettere una decisione favorevole o sfavorevole per una delle parti per ragioni diverse da quelle proprie della giustizia. 3. - Per quanto qui rileva, secondo il diritto vivente e l'interpretazione di questo g.d.p. dell'art. 10 della legge 21 novembre 1991 n. 374 e del richiamato art. 51, comma 2, c.p.c., e quindi dell'art. 78 disp. att. trans. c.p.c., nonche' dell'art. 52 c.p.c., si ha: che in base all'art. 10 della legge 21 novembre 1991 n. 374 "il magistrato onorario che esercita le funzioni di giudice di pace e' tenuto alla osservanza dei doveri previsti per i magistrati ordinari. Ha inoltre l'obbligo di astenersi, oltre che nei casi di cui all'art. 51 del codice di procedura civile, in ogni caso in cui abbia avuto o abbia rapporti di lavoro autonomo ovvero di collaborazione con una della parti"; che detta norma nulla statuisce - in riferimento al particolare status del giudice di pace, il quale esercita non solo "la giurisdizione in materia civile" ma anche "la funzione conciliare in materia civile" (art. 1 della legge n. 374/1991) - per cio' che concerne il suo "diritto" di astenersi allorquando dichiara il difetto o il pericolo di imparzialita' in relazione alla causa assegnatagli; che i casi di astensione obbligatoria previsti dalle sopra citate norme sono tassativi (Cass. 9 settembre 1945; 31 gennaio 1958, n. 270; 24 marzo 1964, n. 665) e fra questi non e' ricompreso quello di cui il giudice valuta e dichiara la sussistenza del difetto o del pericolo di imparzialita' come sopra precisato. Cio' si desume anche dal fatto che la Corte costituzionale, riguardo ad una fattispecie in cui era in discussione l'imparzialita' del giudice (sentenza n. 326 del 1997), ha ritenuto: che "... e' dovere del giudice di valutare, nel concreto, se ''esistono gravi ragioni di convenienza'' per ''richiedere al capo dell'ufficio l'autorizzazione ad astenersi'', secondo quanto gia' previsto dal capoverso dello stesso art. 51, cod. proc. civ."; che il giudice, compreso il giudice di pace, ha quindi il dovere di richiedere al capo dell'ufficio l'autorizzazione ad astenersi ex art. 51, comma 2, c.p.c., quando valuta sussistente il difetto o il pericolo di imparzialita'; che mentre nei casi elencati dal n. 1 al n. 5 del comma 1 dell'art. 51 c.p.c. e in quelli ulteriori indicati dall'art. 10 della legge n. 374/1991, il giudice obbligato ad astenersi ha l'onere di comunicare l'astensione al capo dell'ufficio il quale non autorizza ma si limita a prendere atto della astensione, nelle ipotesi di "in ogni altro caso" di cui al comma 2, dell'art. 51 c.p.c., l'autorizzaziione viene richiesta e puo' essere concessa, cosi' come puo' non essere concessa (Cass. 23 febbraio 1981, n. 1093); che qualora l'istanza di astensione per difetto o pericolo di imparzialita' venga rigettata dal capo dell'ufficio, come nel caso di specie, il giudice istante ha il dovere di non astenersi e di definire il giudizio. Lo impone, per l'evidenza, la funzione dell'autorizzazione; che tale dovere di non astensione e di definizione del giudizio sussiste anche nel caso in cui il giudice di pace deve decidere secondo equita' ai sensi dell'art. 113, comma 2, c.p.c.; che la Corte costituzionale con ordinanza n. 35 del 19 gennaio 1988 ha ritenuto: a) che il provvedimento del capo dell'ufficio viene emesso in un procedimento che non ha la natura giurisdizionale; b) che e' del tutto distinto dal giudizio in relazione al quale l'istanza stessa e' stata formulata; c) che riveste un carattere meramente ordinatorio in quanto espressione della facolta' di distribuzione del lavoro e, piu' in generale, della potesta' direttiva; che le parti della causa, quindi, sono del tutto estranee al predetto procedimento e che non hanno il potere di ricusare il giudice a cui e' stata negata l'autorizzazione ad astenersi per difetto o pericolo di imparzialita'. Questo g.d.p. ritiene che se dovesse applicare tout court le predette norme e, quindi, decidere definitivamente, violerebbe i principi costituzionali del "giusto processo", diritti inviolabili e peraltro indisponibili dell'uomo-giudice, nonche' imperativi categorici della propria coscienza in materia. Pertanto, cio' evidenziato in punto di rilevanza, decidendo non definitivamente, si solleva d'ufficio questione di legittimita' costituzionale delle norme di legge che, secondo il "diritto vivente" e l'interpretazione di questo g.d.p., legittimano la lesione del principio di imparzialita' del giudice e i connessi suoi diritti inviolabili e precisamente delle norme dell'art. 10 della legge 21 novembre 1991, n. 374 e del richiamato art. 51, comma 2, c.p.c., e quindi dell'art. 78 disp. att. trans. c.p.c., nonche' dell'art. 52 c.p.c., in riferimento ai principi di cui agli artt. 2, 3, 24, secondo comma, 101, secondo comma, 107, terzo comma, della Costituzione, osservando, per quanto concerne la non manifesta infondatezza della suddetta questione, quanto segue. 4. - "Il ''giusto processo'' - formula in cui si compendiano i principi che la Costituzione detta in ordine tanto ai caratteri della giurisdizione, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, quanto ai diritti di azione e difesa in giudizio - comprende l'esigenza di imparzialita' del giudice: imparzialita' che non e' che un aspetto di quel carattere di ''terzieta''' che connota nell'essenziale tanto la funzione giurisdizionale quanto la posizione del giudice, distinguendola da quella di tutti gli altri soggetti pubblici, e condiziona l'effettivita' del diritto di azione e difesa in giudizio." Corte costituzionale sentenza 17-24 aprile 1996, n. 131. L'imparzialita' e' percio' connaturata all'essenza della giurisdizione e richiede che la funzione del giudicare sia assegnata a un soggetto "terzo", non solo scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto, ma anche sgombro non solo da ogni tipo di "risentimento" ma anche da ogni altra preoccupazione che non sia quella di rendere la "giusta" giustizia. Come e' noto, il bene giuridico e morale dell'imparzialita' e' protetto in primo luogo dalla coscienza del giudice, per cio' che concerne il "foro interno", e dalle disposizioni del menzionato art. 10 e da quelle del richiamato art. 51 c.p.c., per quanto riguarda il "foro esterno" (salvo appunto quanto rilevato in seguito a proposito della disposizione del comma 2, di detto articolo). Infatti, tale bene interessa contestualmente le due grandi sfere in cui e' divisa la realta' umana: quella interiore e quella esteriore. Va da se', quindi, che il giudice puo' "essere" oppure puo' "apparire" parziale o imparziale, secondo le varie combinazioni che i casi concreti offrono. Nell'ambito del "foro esterno", in forza della presunzione assoluta di cui alle disposizioni del citato art. 10 e dell'art. 51, comma 1, c.p.c., e' rilevante solo l'apparenza-presunzione del pericolo di imparzialita'. Poco importa, infatti, se in uno dei casi concreti previsti da dette norme sussista ancor integra e intatta l'imparzialita' del giudice: in ogni caso il giudice ha l'obbligo di astenersi. E' ben vero che sussiste il pericolo che ne risulti penalizzata la verita'. Infatti possono esservi soggetti super dotati da superare ogni motivo di personale risentimento e giudicare con imparzialita' assoluta anche un loro nemico. Ma il tutto risulta giustificato dal timore, fondato sull'id quod plerumque accidit, che il giudice, in quei casi, sia non imparziale (Cass. 26 gennaio 1955, n. 184). L'ordinamento processuale provvede ut lites sine suspicione procedant senza porsi in contrasto con il canone della ragionevolezza. Viceversa, riguardo alla disposizione dell'art. 51, comma 2, c.p.c., nel caso di diniego dell'autorizzazione ad astenersi allorquando "la grave ragione" riguarda il difetto o il pericolo concreto di imparzialita', non si intravede alcuna fondata e razionale giustificazione circa la prevalenza dell'"apparenza di imparzialita'" sul dichiarato, da parte del giudice, pericolo di "essere parziale". Qui ci troviamo di fronte ad un disposto di legge che non solo non e' idoneo a tutelare il bene dell'imparzialita' ma che addirittura non considera in alcun modo il pericolo che un "giusto processo" si trasformi in un "ingiusto processo". Sotto questi profili, sia l'art. 24, comma 1, che l'art. 3 della Costituzione si ritiene che siano violati. Questo perche' la disposizione dell'art. 51, comma 2, c.p.c., quale norma di chiusura, affida, contro il canone della ragionevolezza, l'accertamento della sussistenza del difetto di imparzialita' al capo dell'ufficio sotto i due aspetti, apparire-essere, laddove questi puo' conoscere ragionevolmente solo dell'apparenza, vale a dire solo sotto il profilo oggettivo. Mentre nulla puo' conoscere sotto il profilo soggettivo essendo infatti impenetrabile l'intimo volere e l'intimo sentire ed essere dell'uomo, dei quali puo' conoscere "secondo verita'" solo il "tribunale della coscienza". E' appena il caso di osservare, poi, che "fatti" che non hanno connotazioni particolari, ritenuti irrilvanti penalmente, irrilevanti disciplinarmente, ben possono essere la causa efficiente che determina il difetto o il pericolo di imparzialita' del giudice (il quale, ovviamente, deve essere in possesso dei requisiti sogettivi necessari per l'esercizio alla funzione giurisdizionale) e ben possono essere ricompresi tra i casi residuali di cui all'espressione "in ogni altro caso" dell'art. 51, comma 2, c.p.c. Anzi proprio in quanto tali essi non sono ricompresi tra quelli di cui al comma 1, dell'art. 51. c.p.c. ed all'art. 10 della legge n. 374/1991. In sintesi questo g.d.p. ritiene che nessuno mai possa conoscere "secondo verita'" dell'imparzialita' dell'uomo-giudice se non il giudice stesso che ne denuncia il difetto o il pericolo e della cui dichiarazione l'ordinamento processuale deve solo e necessariamente prendere atto per non smentirsi e contraddirsi non sussistendo al riguardo alcun potere discrizionale di "convenienza", come viceversa recita la denunciata norma. Peraltro l'ordinamento processuale si contraddice ancora nel momento stesso in cui prevede l'autorizzazione e, quindi, la non autorizzazione. Infatti, in caso di diniego mentre non si apprezza la valutazione del giudice circa l'insussistenza di un presupposto processuale, quale e' la sua imparzialita', nel contempo per lo stesso procedimento lo si "grava" della funzione giurisdizionale che e' esercizio di poteri-doveri tra i quali vi e' appunto quello di valutare secondo il "suo prudente apprezzamento" e non in base all'apprezzamento di altri. Ecco quindi che si pone la questione di legittimita' costituzione dell'art. 51, comma 2, c.p.c.: a) nella parte in cui prevede che dei sentimenti che albergano nell'animo dell'uomo-giudice possa conoscere "secondo verita'" anche altri, oltre il giudice stesso; b) nella parte in cui, non riponendo fiducia nel giudice, prevede l'"istanza" e il conseguente procedimento; c) nella parte in cui statuisce, implicitamente, che il provvedimento di diniego dell'autorizzazione ad astenersi e' strumento idoneo per vincere e scongiurare il pericolo di imparzialita' del giudice il quale, pertanto, pur sfiduciato nel giudizio deve provvedere alla definizione del giudizio. Riguardo a tale ultimo punto, infatti, non si puo' ragionevolmente ritenere che la buona volonta' e la buona fede del giudice, e l'istanza ne e' la prova, oppure il provvedimento di diniego dell'autorizzazione ad astenersi, possano essere idonei ed efficaci mezzi per ridare al giudice l'imparzialita' ovvero per vincere effettivamente la forza della "prevenzione" o di opposti sentimenti che a volte ben si celano in altri stati d'animo e, quindi, per vincere i pericoli che possono insidiare i complessi meccanismi psicologici che presiedono alla formazione del suo convincimento e che ne influenzano seriamente la "genuita'", la "serenita'", la "correttezza". In conclusione, i principi costituzionali del "giusto processo" desumibili dall'art. 24 in combinazione con quello di cui all'art. 3 della Costituzione, visto piu' come parametro cui agganciare la valutazione della razionalita' interna che non come parametro cui ancorare la valutazione della ragionevolezza esterna delle scelte legislative, risultano gravemente lesi dalle norme sopra indicate perche' queste non tutelano affatto l'"essere imparziale" del giudice. 5. - Per quanto risulta a questo g.d.p., il tema dell'imparzialita' del giudice e' stato esaminato solo e soprattutto sotto il profilo della sussistenza o meno dell'obbligo ovvero del dovere del giudice di astenersi. Ultimamente alcuni giudici, pare proprio per osservare il dovere morale di essere imparziali, hanno richiesto alla Corte costituzionale sentenze c.d. additive in relazione a casi non espressamente indicati tra quelli che comportano l'obbligo di astensione. E la Corte il piu' delle volte non ha percorso tale strada non solo per motivi riguardanti il profilo dell'ammissibilita' delle questioni, atteso la sussistenza del potere discrezionale del legislatore circa le possibili, tante e diverse soluzioni da adottare, ma anche per motivi, si puo' dire, concernenti il merito avendo riscontrato che per le fattispecie sottoposte al suo esame non sussisteva, in astratto, il pericolo, fondato sull'id quod plerumque accidit, che il giudice potesse essere non imparziale. Tuttavia la Corte ha avvertito la fondatezza delle esigenze concrete degli istanti e ha indicato come rimedio, come estremo presidio, lo strumento dell'astensione c.d. facoltativa (sent. n. 326 del 1997). C'e' da chiedersi perche' mai i giudici non abbiano utilizzato l'istituto dell'astensione facoltativa. Non sarebbe manifestamente infondato rispondere che tale istituto, cosi' come attualmente disciplinato, non tutela affatto l'imparzialita' del giudice. Non e' stata, invece, sollevata la questione sotto il diverso profilo riguardante la rivendicazione del "diritto" del giudice di "essere" e di "apparire" imparziale, che e' l'altra faccia della stessa medaglia. Ed infatti si ritiene che la medaglia dell'imparzialita' abbia queste due facce: la prima riguarda sia l'obbligo del giudice (di pace) di' astenersi nei casi da 1 a 5 del comma 1, dell'art. 51, c.p.c. (e dell'art. 10 della legge n. 374/91) e sia il dovere del giudice, "in ogni altro caso", di richiedere l'autorizzazione ad astenersi; la seconda riguarda il diritto dell'uomo-giudice di "essere" e di "apparire" imparziale. Al riguardo si osserva quanto segue. L'art. 2 della Costituzione afferma solennemente che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalita'. Tra i diritti inviolabili dell'uomo, per quanto qui rileva, e' ricompreso quello connaturato di "essere", di "sentirsi" "uomo-giusto". E tra i. diritti inviolabili dell'uomo-giudice, e' ricompreso anche il diritto di astenersi, quale concreta espressione del diritto non solo di "essere", ma anche di "apparire" giudice imparziale, e cio' non in base a una concezione dualistica dell'uomo, ma perche' "l'uomo interno ed esterno" e' pur sempre "tutto l'uomo". Pertanto, "essere" e "apparire" imparziale e' nel contempo sia diritto inviolabile della personalita' dell'uomo-giudice e sia requisito imprescindibile e inderogabile del "giusto processo". E cio' vale anche per il giudice di pace soprattutto sotto il particolare profilo che tale giudice esercita non solo la funzione giuridizionale ma anche la funzione conciliativa in materia civile fuori dall'esercizio della giurisdizione (art. 1 della legge n. 374/1991; art. 322, c.p.c.). Ne consegue che anche in relazione a tale ultima peculiare funzione la sua personalita' deve risultare "agli occhi del mondo" necessariamente limpida. Orbene, le norme di legge sopra indicate e denunciate violano in modo grave, non prevedendone l'esercizio, il diritto inviolabile dell'uomo-giudice, peraltro all'evidenza indisponibile, di essere imparziale, riconosciuto direttamente dagli artt. 2 e 24 della Costituzione Con riferimento anche ai principi di cui all'art. 3 della Costituizone, vi e' poi, un altro profilo della questione che si accenna appena proprio perche' si e' ben consapevoli che comporta l'evidenziazione di un paradosso giuridico. In materia di obiezione di coscienza, per l'art. 1 della legge 12 ottobre 1993, n. 413, e' sufficiente la mera dichiarazione di voler obiettare e non e' prevista alcuna valutazione della fondatezza e della sincerita' dei motivi addotti. L'art. 2 ne prevede gli effetti esonerativi ed in base al successivo art. 4 si statuisce che nessuno puo' subire conseguenze sfavorevoli per aver dato voce alle intime esigenze del "suo essere" e del "suo sentire". Anche l'art. 9 della legge 22 maggio 1978, n. 194 richiede la sola dichiarazione del soggetto che rivendica il diritto di obiezione, salvo poi gli effetti di comportamenti concludenti di segno opposto. Persino riguardo al servizio militare, la societa' civile attualmente sta interessando il Parlamento, riferiscono le cronache, perche' l'obiezione di coscienza sia riconosciuta dalla legge come un diritto soggettivo sulla base della sola dichiarazione del cittadino, e non come una concessione dello Stato. Infatti e' all'esame del Parlamento la proposta di legge, in corso di definitiva approvazione, in base alla quale, non sussistendo cause ostative di natura oggettiva, e' sufficiente la dichiarazione del cittadino contenente l'espressa menzione dei motivi riguardanti l'obiezione di coscienza. Viceversa, per il cittadino-giudice, non e' sufficiente la sua dichiarazione per il riconoscimento del diritto di astenersi per difetto o pericolo di imparzialita'. Ritiene questo g.d.p. che sia del tutto evidente una ingiustificata, irragionevole disparita' di trattamento tra cittadini per l'esercizio e per la difesa del diritto alla liberta' di coscienza, vale a dire, riguardo alla presente questione, del diritto alla liberta' come realizzazione della giustizia nell'uguaglianza e nell'imparzialita'. Il paradosso e' che il bene dell'imparzialita' del giudice nel processo e' riconosciuto e tutelato direttamente dalla Costituzione mentre per i casi di obiezione di coscienza problemi possono esserci circa un loro possibile contrasto con i principi costituzionali. Concludendo, il diritto del giudice di astenersi sotto il duplice profilo di "essere" e di "apparire" imparziale, e' riconosciuto direttamente dalla Costituzione e il legislatore ordinario non puo' non tenerne conto senza violare in modo grave i principi solennemente affermati dal combinato disposto degli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione. Peraltro, ammesso pure che sussista in astratto un potere discrezionale del legislatore riguardo a modo di regolare l'esercizio di tale diritto, anche la soluzione concernente detta regolamentazione e' "a rime obbligate" dovendo il legislatore osservare i principi di cui all'art. 3 della Costituzione in relazione a quanto gia' legiferato in materia di diritto di obiezione di coscienza. Da ultimo si osserva che in caso di diniego dell'autorizzazione ad astenersi, il giudice istante deve osservare due doveri, uno morale e l'altro giuridico, di segni del tutto opposti sicche' l'adempimento di uno comporta l'inadempimento dell'altro. Ora, la norma che pone tale dilemma, non solo non sussistendone affatto la necessita', ma anzi dovendo essa stessa difendere il bene giuridico dell'imparzialita' del giudice che e' anche uno dei valori essenziali e primari della legge morale dell'uomo per l'uomo e del codice etico della Magistratura (art. 9), viola in modo evidente ancora gli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione. 6. - La previsione legislativa di un provvedimento di diniego dell'autorizzazione di astensione anche nel caso in cui il giudice istante dichiara il difetto o il pericolo di imparzialita', non solo configura una ulteriore causa idonea a compromettere il "giusto processo" per il contrasto di detto provvedimento con la forza della c.d. "prevenzione" della quale innanzi si e' detto, ma viola gravemente anche l'art. 101 della Costituzione. Il dovere di astensione del giudice nasce e vive momento per momento (art. 78, comma 2, del disp. att. tras. c.p.c.) nell'ambito dell'esercizio della funzione giurisdizionale e non fuori. E tuttavia il menzionato provvedimento di diniego, pur non avendo natura giurisdizionale ma natura meramente amministrativa, come e' stato ritenuto dalla Corte costituzionale (ord. n. 35/1998), in forza dell'art. 51, comma 2, c.p.c., non solo interferisce nell'ambito dell'esercizio della funzione giurisdizionale perche' valuta e statuisce circa la sussistenza di uno dei presupposti processuali fondamentali del "giusto processo" gia' oggetto di valutazione da parte del giudice istante, ma si pone in una posizione di prevalenza sulle determinazioni giurisdizionali gia' adottate per mezzo dei suoi effetti ordinatori nei confronti del giudice. Si rivendica, quindi, che "i giudici sono soggetti solo alla legge". Essi devono godere di una assoluta autonomia di giudizio, senza che il loro convincimento possa essere influenzato o, peggio, determinato da altro se non dalla loro coscienza e dalla loro professionalita'. Il fine della norma dell'art. 101 della Costituzione, che di per se' non tollera disposizioni lesive della funzione giurisdizionale, integrata con quella contenuta dall'art. 107, comma 3, seconda la quale "i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversita' di funzioni", e' proprio quello (come ha precisato la Corte costituzionale nella sentenza n. 86 del 1982) di sottrarre i giudici a rapporti di tipo gerarchico, da superiore ad inferiore, che ne intaccherebbero l'autonomia. Ne risulta altresi' violato l'art. 3 della Costituzione segnatamente con il generale canone di coerenza dell'ordinamento giuridico cui deve uniformarsi pure la disciplina degli istituti processuali e, quindi, dell'astensione. Quindi, si deduce che gli artt. 3, 101, comma 2, 107, comma 3, della Costituzione risultano violati dalle norma in questione. 7. - Il procedimento relativo all'istanza di astensione anche nel caso, come precisato, che si concluda con il diniego della autorizzazione e' un procedimento interno di carattere puramente amministrativo (Ord. n. 35 del 1988 della Corte costituzionai'e). Le parti lo ignorano ed ignorano anche che il giudice si possa trovare in una situazione di pregiudizievole "sofferenza" in quanto pur avendo denunciato il pericolo dell'imparzialita' deve provvedere alla definizione del giudizio. Esse non hanno alcuna possibilita' di esperire una immediata utile azione che, comportando la sospensione del processo, scongiuri un ritenuto concreto pericolo di sentenza ingiusta. Infatti le parti non possono proporre la ricusazione del giudice, che e' prevista dall'art. 52 c.p.c., solo nei casi in cui gli e' fatto obbligo di astenersi, e non invece "in ogni altro caso" di cui all'art. 51, comma 2, c.p.c. Eppure anche nel processo civile "la difesa e' diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento" e l'imparzialita' del giudice deve sempre e comunque essere assicurata. Nel suddetto processo, poi, vale in modo essenziale e con assicurazione di totale trasparenza la dialettica dei contrapposti interessi la quale di norma si svolge attraverso il contradditorio fra le parti proprio esercitando il diritto di azione e di difesa su un piano di "parita' delle armi", in una continua funzione propulsiva e di controllo che condiziona il proseguimento e la stessa conclusione del processo. Orbene, non si capisce quale sia il fondamento che giustifichi in modo ragionevole e razionale la mancanza di trasparenza e la totale lesione del diritto di difesa soprattutto nel caso, che e' il nostro, in cui il giudice di pace, dovendo decidere il merito della causa secondo equita', pronunzia sentenza inappellabile ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 339, c.p.c. Si ritiene quindi che, riguardo all'ipotesi di diniego dell'autorizzazione di astensione per difetto o pericolo di imparzialita' e in base al vigente assetto normativo, risultino del tutto violati sia il diritto di azione e sia il diritto di difesa dichiarati inviolabili dall'art. 24, comma 2, della Costituzione e che il combinato disposto dell'art. 10 della legge n. 374/1991, dell'art. 51, comma 2, e dell'art. 52 c.p.c., risulti del tutto irrazionale attribuendo il potere di ricusazione del giudice per i casi di presunta parzialita' ex lege e non attribuendolo nel caso di dichiarato concreto ed effettivo pericolo di parzialita'. 8. - Concludendo, si ritiene da un lato che gli aspetti specifici sin qui evidenziati riguardanti gli istituti dell'astensione e della ricusazione del giudice siano largamente giustificativi della presente ordinanza che si sostanzia in una valutazione che esclude la manifesta infondatezza della questione che si solleva, peraltro in modo gradato in relazioni alle emergenze di volta in volta prese in esame, e da un altro lato che le esigenze di tutela del valore dell'imparzialita' postulino un intervento della Corte costituzionale sulla disciplina di tali istituti, al fine di garantire comunque la tutela del giusto processo (e del diritto di difesa che ne e' componente essenziale) proprio nell'ottica conclusiva della sentenza n. 308 del 1997 della stessa Corte.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Solleva d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale, ritenuta e dichiarata rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, secondo comma, 101, secondo comma, 107, terzo comma, della Costituzione, in modo cosi' gradato: dell'art. 10 della legge 21 novembre 1991, n. 374, soprattutto riguardo alla decisione secondo equita' di cui all'art. 113, comma 2, c.p.c.: a) nella parte in cui, prescrivendo che il giudice di pace e' tenuto all'osservanza dei doveri previsti per i magistrati ordinari, e quindi all'osservanza dei doveri di cui all'art. 51, comma 2, c.p.c., prevede e attribuisce al capo dell'ufficio il potere di emettere provvedimento di rigetto della richiesta dell'autorizzazione di astensione anche nel caso in cui la grave ragione di convenienza, valutata sussistente dal giudice istante, riguarda il difetto o il pericolo di imparzialita'; b) nella parte in cui non prevede il (riconosciuto) diritto del giudice di pace di astenersi (per obbedire alla coscienza) nel caso in cui questi valuta sussistente il difetto o il pericolo di imparzialita'; degli artt. 51, comma 2, c.p.c., e 78 disp. att. trans. c.p.c., cui fa implicito rinvio il citato art. 10, soprattutto riguardo alla decisione secondo equita' di cui all'art. 113, comma 2. c.p.c.: a) nella parte in cui prevedono e attribuiscono al capo dell'ufficio il potere di emettere provvedimento di rigetto della richiesta dell'autorizzazione di astensione anche nel caso in cui la grave ragione di convenienza, valutata sussistente dal giudice istante, riguarda il difetto o il pericolo di imparzialita'; b) nella parte in cui non prevedono il (riconosciuto) diritto del giudice di astenersi (per obbedire alla coscienza) nel caso in cui questi valuta sussistente il difetto o il pericolo di imparzialita'; dell'art. 52, c.p.c., soprattutto riguardo alla decisione secondo equita' di cui all'art. 113, comma 2, c.p.c., nella parte in cui non prevede che ciascuna delle parti, alle quali e' notificato il provvedimento di diniego dell'autorizzazione di astensione di cui all'art. 51, comma 2, c.p.c. riguardo all'istanza del giudice che ha valutato sussistente il difetto o il pericolo di imparzialita', puo' proporre ricusazione del giudice mediante ricorso, contenente i motivi specifici e i mezzi di prova, depositato in cancelleria due giorni dopo la notifica; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso; Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri ed alle parti in causa, e comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Cosi' deciso in Imola, addi' 20 aprile 1998. Il giudice di pace: Persichella 98C0635