N. 411 ORDINANZA (Atto di promovimento) 20 aprile 1998

                                N.  411
  Ordinanza  emessa il 20 aprile 1998 dal giudice di pace di Imola nel
 procedimento civile vertente tra ditta C.E.J. e  ditta  Elettro  C.F.
 s.r.l.
 Astensione  e  ricusazione  -  Giudice di pace - Astensione (riguardo
    specificamente  alle  decisioni  secondo  equita')  per   ritenuta
    sussistenza,  da  parte di detto giudice, di difetto o pericolo di
    imparzialita'   -   Attribuzione   al   magistrato    coordinatore
    dell'ufficio  del  potere  di  rigettare  la relativa richiesta di
    autorizzazione - Irragionevolezza - Violazione del  principio  del
    "giusto  processo"  -  Lesione dei diritti inviolabili dell'uomo -
    Incidenza sul principio secondo il quale il  giudice  e'  soggetto
    solo  alla legge e sul principio che stabilisce la distinzione fra
    magistrati solo per diversita' di funzioni.
 Astensione e ricusazione - Giudice di pace -  Diritto  all'astensione
    (riguardo  specificamente  alle  decisioni  secondo  equita')  per
    ritenuta sussistenza, da parte di  detto  giudice,  di  difetto  o
    pericolo  di imparzialita' - Mancata previsione - Irragionevolezza
    - Violazione del principio del "giusto  processo"  -  Lesione  dei
    diritti inviolabili dell'uomo - Incidenza sul principio secondo il
    quale  il  giudice e' soggetto solo alla legge e sul principio che
    stabilisce la distinzione fra magistrati solo  per  diversita'  di
    funzioni.
 Astensione  e  ricusazione  -  Giudice di pace - Astensione (riguardo
    specificamente  alle  decisioni  secondo  equita')  per   ritenuta
    sussistenza,  da  parte di detto giudice, di difetto o pericolo di
    imparzialita'  -   Provvedimento   di   diniego   della   relativa
    autorizzazione,  emesso dal magistrato coordinatore dell'ufficio -
    Diritto di ricusazione a favore  delle  parti  in  giudizio,  alle
    quali   tale  provvedimento  e'  notificato  -  Possibilita',  per
    ciascuna di esse, di  proporre  ricorso  -  Mancata  previsione  -
    Irragionevolezza  - Violazione del principio del "giusto processo"
    - Lesione  dei  diritti  inviolabili  dell'uomo  -  Incidenza  sul
    principio  secondo il quale il giudice e' soggetto solo alla legge
    e sul principio che stabilisce la distinzione fra magistrati  solo
    per diversita' di funzioni.
 (Legge  21  novembre 1991, n. 374, art. 10; c.p.c., artt. 51, secondo
    comma, 52 e 113, secondo comma; (disp. att. c.p.c., art. 78).
 (Cost., artt. 2, 3, 24, secondo comma, 101,  secondo  comma,  e  107,
    terzo comma).
(GU n.24 del 17-6-1998 )
                          IL GIUDICE DI PACE
   Ha  emesso  la seguente ordinanza nella causa civile iscritta al n.
 237 del ruolo generale per  gli  affari  contenziosi  dell'anno  1997
 dell'ufficio  del  giudice  di  pace  di  Imola,  avente  ad  oggetto
 opposizione a decreto ingiuntivo, promossa dalla C.F.J  di  Aquilanti
 Vittorio,  elettivamente  domiciliata  in  Imola, via Garibaldi n. 20
 presso e nello studio dell'avv. F. Campagnoli che  la  rappresenta  e
 difende  unitamente all'avv. M. Polita per procura in atti, contro la
 s.r.l.  Elettro C.F., elettivamente domiciliata in Imola, via  Cavour
 n.   82,  presso  e  nello  studio  dell'avv.  I.  Golinelli  che  la
 rappresenta e difende per procura in atti.
   La causa, da decidere secondo equita' ai sensi dell'art. 113, comma
 2, c.p.c. perche' il valore non eccede i  due  milioni  di  lire,  e'
 stata  riservata  per  la  deliberazione nell'udienza del 25 febbraio
 1998. Sciogliendo la riserva, si osserva quanto segue.
   1.  -  Questo  g.d.p.  ai  sensi  dell'art.  51, comma 2, c.p.c. ha
 richiesto al magistrato coordinatore dell'ufficio l'autorizzazione ad
 astenersi temendo di non essere  imparziale  per  i  motivi  indicati
 nella istanza del 5 marzo 1998 in atti a cui si rinvia.
   Al  riguardo  il magistrato coordinatore, per i motivi indicati nel
 provvedimento del 13 marzo 1998 in atti a cui si rinvia, ha  ritenuto
 non  sussistenti  i  gravi  motivi di convenienza di cui all'art. 51,
 comma 2, c.p.c. Ha quindi  rigettato  l'istanza  ed  ha  disposto  la
 restituzione   del   fascicolo  di  causa  a  questo  g.d.p.  per  la
 definizione del giudizio.
   2. - Dovendo  dare  esecuzione  al    menzionato  provvedimento  e,
 quindi,  deliberare  e  dovendo  altresi'  vincere la cosidetta forza
 della prevenzione (Corte costituzionale, sent.  n.  432/1995),  cioe'
 quella naturale tendenza a mantenere il giudizio di sussistenza della
 gravi  ragioni  di  convenienza  gia'  espresso,  il giudicante si e'
 trovato  in  uno  stato  d'animo  di   profondo   disagio   tale   da
 compromettere "la genuita'" e "la correttezza" del processo formativo
 del  suo  convincimento  e quindi l'imparzialita', che si ricollegano
 alla garanzia costituzionale del "giusto processo".
   Ogni giudice deve essere imparziale. Allorquando si  deve  decidere
 secondo  equita',  poi, massimo deve essere il rigore con il quale il
 giudice deve vigilare su se stesso.
   La  Corte  costituzionale  ha  osservato  che  il  legislatore  nel
 prevedere  i casi in cui vi e' l'obbligo del giudice di astenersi, ha
 inteso perseguire "la finalita' di assicurare  la  mancanza  di  ogni
 (pur  minima)  interferenza  sulla posizione di terzieta' del giudice
 stesso per preservare la indipendenza della funzione  giurisdizionale
 quale  strumentale  presidio  del  diritto di agire in giudizio". "La
 preminente  esigenza  di   tutela   di   tale   valore   di   rilievo
 costituzionale - gia' evidenziata da ... sent. n. 390 del 1991 che ha
 ritenuto  prevalenti ''la garanzia della serenita' e obiettivita' dei
 giudizi''" - anche sull'esigenze  di  immediatezza  e  celerita'  dei
 giudizi  -  "e  ''la imparzialita' e terzieta' del giudice''" - rende
 pienamente coerente  una  rigorosa  e  dettagliata  disciplina  delle
 ipotesi  di  astensione  del  giudice  (...)  potendo  il legislatore
 prendere in considerazione anche situazioni  in  cui  il  rischio  di
 interferenza sia minimo." (sent. n. 298/1993).
   Tale  rigore  e  presidio deve essere, quindi, assicurato anche nei
 casi di c.d. astensione facoltativa, allorquando e' lo stesso giudice
 a  dichiarare  di  ritenersi  privo  della  necessaria  serenita'  di
 giudizio  e  tale  da  poter  emettere  una  decisione  favorevole  o
 sfavorevole per una delle parti per ragioni diverse da quelle proprie
 della giustizia.
   3.  -  Per  quanto  qui  rileva,  secondo  il  diritto  vivente   e
 l'interpretazione  di  questo  g.d.p.  dell'art.  10  della  legge 21
 novembre 1991 n. 374 e del richiamato art. 51,  comma  2,  c.p.c.,  e
 quindi  dell'art.  78  disp. att. trans. c.p.c., nonche' dell'art. 52
 c.p.c., si ha:
     che in base all'art. 10 della legge 21 novembre 1991 n.  374  "il
 magistrato  onorario  che  esercita le funzioni di giudice di pace e'
 tenuto alla osservanza dei doveri previsti per i magistrati ordinari.
 Ha inoltre l'obbligo di astenersi, oltre che nei casi di cui all'art.
 51 del codice di procedura civile, in ogni caso in cui abbia avuto  o
 abbia  rapporti  di  lavoro autonomo ovvero di collaborazione con una
 della parti";
     che detta norma nulla statuisce - in riferimento  al  particolare
 status   del  giudice  di  pace,  il  quale  esercita  non  solo  "la
 giurisdizione in materia civile" ma anche "la funzione conciliare  in
 materia  civile"  (art.  1  della  legge  n. 374/1991) - per cio' che
 concerne il  suo  "diritto"  di  astenersi  allorquando  dichiara  il
 difetto  o  il  pericolo  di  imparzialita'  in  relazione alla causa
 assegnatagli;
     che i casi di astensione obbligatoria previsti dalle sopra citate
 norme sono tassativi (Cass. 9 settembre 1945;  31  gennaio  1958,  n.
 270;  24 marzo 1964, n. 665) e fra questi non e' ricompreso quello di
 cui il giudice valuta e dichiara la sussistenza  del  difetto  o  del
 pericolo  di imparzialita' come sopra precisato. Cio' si desume anche
 dal fatto che la Corte costituzionale, riguardo ad una fattispecie in
 cui era in discussione l'imparzialita' del giudice (sentenza n.   326
 del 1997), ha ritenuto:
     che  "...  e'  dovere  del  giudice di valutare, nel concreto, se
 ''esistono gravi ragioni di convenienza'' per  ''richiedere  al  capo
 dell'ufficio  l'autorizzazione  ad  astenersi'',  secondo quanto gia'
 previsto dal capoverso dello stesso art. 51, cod. proc. civ.";
     che il giudice, compreso il giudice di pace, ha quindi il  dovere
 di  richiedere  al capo dell'ufficio l'autorizzazione ad astenersi ex
 art. 51, comma 2, c.p.c., quando valuta sussistente il difetto  o  il
 pericolo di imparzialita';
     che  mentre  nei  casi  elencati  dal  n.  1  al n. 5 del comma 1
 dell'art.   51 c.p.c. e in quelli  ulteriori  indicati  dall'art.  10
 della legge n. 374/1991, il giudice obbligato ad astenersi ha l'onere
 di   comunicare  l'astensione  al  capo  dell'ufficio  il  quale  non
 autorizza ma si  limita  a  prendere  atto  della  astensione,  nelle
 ipotesi  di  "in  ogni  altro  caso"  di cui al comma 2, dell'art. 51
 c.p.c., l'autorizzaziione viene richiesta  e  puo'  essere  concessa,
 cosi'  come  puo'  non  essere  concessa  (Cass. 23 febbraio 1981, n.
 1093);
     che qualora l'istanza di astensione per  difetto  o  pericolo  di
 imparzialita' venga rigettata dal capo dell'ufficio, come nel caso di
 specie,  il  giudice  istante  ha  il  dovere  di  non astenersi e di
 definire  il  giudizio.  Lo  impone,  per  l'evidenza,  la   funzione
 dell'autorizzazione;
     che  tale  dovere di non astensione e di definizione del giudizio
 sussiste anche nel caso in cui  il  giudice  di  pace  deve  decidere
 secondo equita' ai sensi dell'art. 113, comma 2, c.p.c.;
     che  la  Corte  costituzionale con ordinanza n. 35 del 19 gennaio
 1988 ha ritenuto:
      a) che il provvedimento del capo dell'ufficio viene emesso in un
 procedimento che non ha la natura giurisdizionale;
      b) che e' del tutto distinto dal giudizio in relazione al  quale
 l'istanza stessa e' stata formulata;
      c)  che  riveste  un  carattere  meramente ordinatorio in quanto
 espressione della facolta' di distribuzione del  lavoro  e,  piu'  in
 generale, della potesta' direttiva;
     che  le  parti  della  causa,  quindi, sono del tutto estranee al
 predetto procedimento e che  non  hanno  il  potere  di  ricusare  il
 giudice  a  cui  e'  stata  negata  l'autorizzazione ad astenersi per
 difetto o pericolo di imparzialita'.
   Questo  g.d.p.  ritiene  che  se  dovesse  applicare  tout court le
 predette norme e,  quindi,  decidere  definitivamente,  violerebbe  i
 principi  costituzionali del "giusto processo", diritti inviolabili e
 peraltro   indisponibili   dell'uomo-giudice,   nonche'    imperativi
 categorici della propria coscienza in materia.
   Pertanto,  cio'  evidenziato  in  punto di rilevanza, decidendo non
 definitivamente,  si  solleva  d'ufficio  questione  di  legittimita'
 costituzionale delle norme di legge che, secondo il "diritto vivente"
 e  l'interpretazione  di  questo  g.d.p.,  legittimano la lesione del
 principio di imparzialita' del giudice  e  i  connessi  suoi  diritti
 inviolabili  e  precisamente  delle norme dell'art. 10 della legge 21
 novembre 1991, n. 374 e del richiamato art. 51, comma  2,  c.p.c.,  e
 quindi  dell'art.  78 disp.  att. trans. c.p.c., nonche' dell'art. 52
 c.p.c., in riferimento ai principi  di  cui  agli  artt.  2,  3,  24,
 secondo   comma,  101,    secondo  comma,  107,  terzo  comma,  della
 Costituzione,  osservando,  per  quanto  concerne  la  non  manifesta
 infondatezza della suddetta questione, quanto segue.
   4.  -  "Il  ''giusto  processo''  - formula in cui si compendiano i
 principi che la Costituzione detta in ordine tanto ai caratteri della
 giurisdizione, sotto il profilo soggettivo  e  oggettivo,  quanto  ai
 diritti  di  azione  e  difesa  in giudizio - comprende l'esigenza di
 imparzialita' del giudice: imparzialita' che non e' che un aspetto di
 quel carattere di ''terzieta''' che connota nell'essenziale tanto  la
 funzione   giurisdizionale   quanto   la   posizione   del   giudice,
 distinguendola da quella di tutti  gli  altri  soggetti  pubblici,  e
 condiziona   l'effettivita'   del  diritto  di  azione  e  difesa  in
 giudizio." Corte costituzionale sentenza 17-24 aprile 1996, n. 131.
   L'imparzialita'   e'   percio'   connaturata   all'essenza    della
 giurisdizione  e richiede che la funzione del giudicare sia assegnata
 a un soggetto "terzo",  non  solo  scevro  di  interessi  propri  che
 possano  far  velo  alla  rigorosa applicazione del diritto, ma anche
 sgombro non solo da ogni tipo di  "risentimento"  ma  anche  da  ogni
 altra  preoccupazione  che  non  sia  quella  di  rendere la "giusta"
 giustizia.
   Come e' noto, il bene  giuridico  e  morale  dell'imparzialita'  e'
 protetto  in  primo  luogo  dalla coscienza del giudice, per cio' che
 concerne il "foro interno", e dalle disposizioni del menzionato  art.
 10  e da quelle del richiamato art. 51 c.p.c., per quanto riguarda il
 "foro esterno" (salvo appunto quanto rilevato in seguito a  proposito
 della disposizione del comma 2, di detto articolo).
   Infatti, tale bene interessa contestualmente le due grandi sfere in
 cui  e' divisa la realta' umana: quella interiore e quella esteriore.
 Va  da  se',  quindi,  che  il  giudice  puo'  "essere"  oppure  puo'
 "apparire" parziale o imparziale, secondo le varie combinazioni che i
 casi concreti offrono.
   Nell'ambito del "foro esterno", in forza della presunzione assoluta
 di  cui alle disposizioni del citato art. 10 e dell'art. 51, comma 1,
 c.p.c., e' rilevante solo  l'apparenza-presunzione  del  pericolo  di
 imparzialita'.  Poco  importa,  infatti,  se in uno dei casi concreti
 previsti  da  dette  norme   sussista   ancor   integra   e   intatta
 l'imparzialita'  del giudice: in ogni caso il giudice ha l'obbligo di
 astenersi. E' ben vero  che  sussiste  il  pericolo  che  ne  risulti
 penalizzata  la  verita'.    Infatti  possono  esservi soggetti super
 dotati  da superare ogni motivo di personale risentimento e giudicare
 con imparzialita' assoluta anche un loro nemico. Ma il tutto  risulta
 giustificato  dal timore, fondato sull'id quod plerumque accidit, che
 il giudice, in quei casi, sia non imparziale (Cass. 26 gennaio  1955,
 n.  184). L'ordinamento processuale provvede ut lites sine suspicione
 procedant  senza   porsi   in   contrasto   con   il   canone   della
 ragionevolezza.
   Viceversa,  riguardo  alla  disposizione  dell'art.  51,  comma  2,
 c.p.c.,  nel  caso  di  diniego  dell'autorizzazione   ad   astenersi
 allorquando  "la  grave  ragione"  riguarda  il difetto o il pericolo
 concreto  di  imparzialita',  non  si  intravede  alcuna  fondata   e
 razionale  giustificazione  circa  la  prevalenza  dell'"apparenza di
 imparzialita'" sul dichiarato, da  parte  del  giudice,  pericolo  di
 "essere parziale".
   Qui  ci troviamo di fronte ad un disposto di legge che non solo non
 e' idoneo a tutelare il bene dell'imparzialita'  ma  che  addirittura
 non  considera  in alcun modo il pericolo che un "giusto processo" si
 trasformi in un "ingiusto processo".
   Sotto questi profili, sia l'art. 24, comma 1, che  l'art.  3  della
 Costituzione si ritiene che siano violati.
   Questo perche' la disposizione dell'art. 51, comma 2, c.p.c., quale
 norma  di  chiusura,  affida,  contro il canone della ragionevolezza,
 l'accertamento della sussistenza del difetto di imparzialita' al capo
 dell'ufficio sotto i due  aspetti,  apparire-essere,  laddove  questi
 puo'  conoscere ragionevolmente solo dell'apparenza, vale a dire solo
 sotto il profilo oggettivo. Mentre  nulla  puo'  conoscere  sotto  il
 profilo  soggettivo  essendo  infatti impenetrabile l'intimo volere e
 l'intimo sentire  ed  essere  dell'uomo,  dei  quali  puo'  conoscere
 "secondo verita'" solo il "tribunale della coscienza".
   E'  appena  il  caso  di  osservare, poi, che "fatti" che non hanno
 connotazioni particolari, ritenuti irrilvanti penalmente, irrilevanti
 disciplinarmente,  ben  possono  essere  la  causa   efficiente   che
 determina  il  difetto o il pericolo di imparzialita' del giudice (il
 quale, ovviamente, deve essere in possesso  dei  requisiti  sogettivi
 necessari  per  l'esercizio  alla  funzione  giurisdizionale)  e  ben
 possono essere ricompresi tra i casi residuali di cui all'espressione
 "in ogni altro caso" dell'art. 51, comma 2, c.p.c.  Anzi  proprio  in
 quanto  tali  essi  non sono ricompresi tra quelli di cui al comma 1,
 dell'art. 51. c.p.c.  ed all'art. 10 della legge n. 374/1991.
   In sintesi questo g.d.p. ritiene che nessuno  mai  possa  conoscere
 "secondo  verita'"  dell'imparzialita'  dell'uomo-giudice  se  non il
 giudice stesso che ne denuncia il difetto o il pericolo e  della  cui
 dichiarazione  l'ordinamento  processuale deve solo e necessariamente
 prendere atto per non smentirsi e  contraddirsi  non  sussistendo  al
 riguardo  alcun potere discrizionale di "convenienza", come viceversa
 recita la denunciata norma.
   Peraltro  l'ordinamento  processuale  si  contraddice  ancora   nel
 momento  stesso  in  cui  prevede  l'autorizzazione e, quindi, la non
 autorizzazione.  Infatti, in caso di diniego mentre non  si  apprezza
 la  valutazione  del  giudice circa l'insussistenza di un presupposto
 processuale, quale e' la  sua  imparzialita',  nel  contempo  per  lo
 stesso  procedimento lo si "grava" della funzione giurisdizionale che
 e' esercizio di poteri-doveri tra i quali vi  e'  appunto  quello  di
 valutare  secondo  il  "suo  prudente  apprezzamento"  e  non in base
 all'apprezzamento di altri.
   Ecco  quindi  che si pone la questione di legittimita' costituzione
 dell'art. 51, comma 2, c.p.c.:
     a) nella parte in cui prevede che dei  sentimenti  che  albergano
 nell'animo  dell'uomo-giudice possa conoscere "secondo verita'" anche
 altri, oltre il giudice stesso;
     b) nella parte in cui, non riponendo fiducia nel giudice, prevede
 l'"istanza" e il conseguente procedimento;
     c)  nella  parte  in  cui  statuisce,  implicitamente,   che   il
 provvedimento   di   diniego   dell'autorizzazione  ad  astenersi  e'
 strumento  idoneo  per  vincere  e   scongiurare   il   pericolo   di
 imparzialita'  del  giudice  il  quale,  pertanto, pur sfiduciato nel
 giudizio deve provvedere alla definizione del giudizio.
   Riguardo a tale ultimo punto, infatti, non si puo'  ragionevolmente
 ritenere  che  la  buona  volonta'  e  la  buona  fede del giudice, e
 l'istanza  ne  e'  la  prova,  oppure  il  provvedimento  di  diniego
 dell'autorizzazione  ad  astenersi, possano essere idonei ed efficaci
 mezzi per  ridare  al  giudice  l'imparzialita'  ovvero  per  vincere
 effettivamente  la  forza della "prevenzione" o di opposti sentimenti
 che a volte ben si celano in  altri  stati  d'animo  e,  quindi,  per
 vincere  i  pericoli  che  possono  insidiare  i complessi meccanismi
 psicologici che presiedono alla formazione del  suo  convincimento  e
 che  ne  influenzano  seriamente  la  "genuita'",  la "serenita'", la
 "correttezza".
   In conclusione, i principi  costituzionali  del  "giusto  processo"
 desumibili dall'art. 24 in combinazione con quello di cui all'art.  3
 della  Costituzione,  visto  piu'  come  parametro  cui agganciare la
 valutazione della razionalita' interna che  non  come  parametro  cui
 ancorare  la  valutazione  della  ragionevolezza esterna delle scelte
 legislative, risultano gravemente lesi  dalle  norme  sopra  indicate
 perche'   queste  non  tutelano  affatto  l'"essere  imparziale"  del
 giudice.
   5. - Per quanto risulta a questo g.d.p., il tema dell'imparzialita'
 del giudice e' stato esaminato solo e soprattutto  sotto  il  profilo
 della  sussistenza  o meno dell'obbligo ovvero del dovere del giudice
 di astenersi.
   Ultimamente alcuni giudici, pare proprio per  osservare  il  dovere
 morale   di      essere   imparziali,   hanno  richiesto  alla  Corte
 costituzionale  sentenze  c.d.  additive  in  relazione  a  casi  non
 espressamente   indicati  tra  quelli  che  comportano  l'obbligo  di
 astensione.
    E la Corte il piu' delle volte non ha  percorso  tale  strada  non
 solo  per  motivi  riguardanti  il  profilo dell'ammissibilita' delle
 questioni,  atteso  la  sussistenza  del  potere  discrezionale   del
 legislatore   circa  le  possibili,  tante  e  diverse  soluzioni  da
 adottare, ma anche per motivi, si puo' dire,  concernenti  il  merito
 avendo riscontrato che per le fattispecie sottoposte al suo esame non
 sussisteva,  in astratto, il pericolo, fondato sull'id quod plerumque
 accidit, che il giudice potesse essere non imparziale.
   Tuttavia  la  Corte  ha  avvertito  la  fondatezza  delle  esigenze
 concrete  degli  istanti  e  ha  indicato  come rimedio, come estremo
 presidio, lo strumento dell'astensione c.d. facoltativa (sent. n. 326
 del 1997).
   C'e'  da  chiedersi  perche'  mai  i giudici non abbiano utilizzato
 l'istituto dell'astensione facoltativa.  Non  sarebbe  manifestamente
 infondato  rispondere  che  tale  istituto,  cosi'  come  attualmente
 disciplinato, non tutela affatto l'imparzialita' del giudice.
   Non e' stata, invece,  sollevata  la  questione  sotto  il  diverso
 profilo  riguardante  la  rivendicazione del "diritto" del giudice di
 "essere" e di "apparire" imparziale,  che  e'  l'altra  faccia  della
 stessa medaglia.
   Ed  infatti  si  ritiene  che  la medaglia dell'imparzialita' abbia
 queste due facce:
     la prima  riguarda  sia  l'obbligo  del  giudice  (di  pace)  di'
 astenersi  nei  casi  da  1  a 5 del comma 1, dell'art. 51, c.p.c. (e
 dell'art.  10 della legge n. 374/91) e sia il dovere del giudice, "in
 ogni altro caso", di richiedere l'autorizzazione ad astenersi;
     la seconda riguarda il diritto dell'uomo-giudice di "essere" e di
 "apparire" imparziale. Al riguardo si osserva quanto segue.  L'art. 2
 della Costituzione afferma solennemente che la Repubblica riconosce e
 garantisce i diritti inviolabili  dell'uomo,  sia  come  singolo  sia
 nelle  formazioni  sociali  ove si svolge la sua personalita'.  Tra i
 diritti inviolabili dell'uomo, per quanto qui rileva,  e'  ricompreso
 quello connaturato di "essere", di "sentirsi" "uomo-giusto". E tra i.
 diritti inviolabili dell'uomo-giudice, e' ricompreso anche il diritto
 di  astenersi,  quale  concreta  espressione  del diritto non solo di
 "essere", ma anche di "apparire" giudice imparziale, e  cio'  non  in
 base  a  una  concezione  dualistica  dell'uomo,  ma  perche' "l'uomo
 interno ed esterno" e' pur sempre "tutto l'uomo".
   Pertanto, "essere" e "apparire"  imparziale  e'  nel  contempo  sia
 diritto   inviolabile  della  personalita'  dell'uomo-giudice  e  sia
 requisito imprescindibile e inderogabile  del  "giusto  processo".  E
 cio'  vale  anche  per  il  giudice  di  pace  soprattutto  sotto  il
 particolare profilo che tale giudice esercita non  solo  la  funzione
 giuridizionale  ma  anche  la funzione conciliativa in materia civile
 fuori dall'esercizio della  giurisdizione  (art.  1  della  legge  n.
 374/1991;  art.  322, c.p.c.).   Ne consegue che anche in relazione a
 tale ultima peculiare funzione la  sua  personalita'  deve  risultare
 "agli occhi del mondo" necessariamente limpida.
   Orbene,  le  norme  di legge sopra indicate e denunciate violano in
 modo grave, non  prevedendone  l'esercizio,  il  diritto  inviolabile
 dell'uomo-giudice,  peraltro  all'evidenza  indisponibile,  di essere
 imparziale, riconosciuto  direttamente  dagli  artt.  2  e  24  della
 Costituzione
   Con   riferimento  anche  ai  principi  di  cui  all'art.  3  della
 Costituizone, vi e' poi, un altro  profilo  della  questione  che  si
 accenna  appena  proprio  perche'  si e' ben consapevoli che comporta
 l'evidenziazione di un paradosso giuridico.
   In materia di obiezione di coscienza, per l'art. 1 della  legge  12
 ottobre  1993,  n. 413, e' sufficiente la mera dichiarazione di voler
 obiettare e non e' prevista alcuna  valutazione  della  fondatezza  e
 della  sincerita' dei motivi addotti. L'art. 2 ne prevede gli effetti
 esonerativi ed in base al successivo art. 4 si statuisce che  nessuno
 puo'  subire  conseguenze  sfavorevoli per aver dato voce alle intime
 esigenze del "suo essere" e del "suo sentire".
   Anche l'art. 9 della legge 22 maggio 1978, n. 194 richiede la  sola
 dichiarazione  del  soggetto  che  rivendica il diritto di obiezione,
 salvo poi gli effetti di comportamenti concludenti di segno opposto.
   Persino   riguardo   al   servizio  militare,  la  societa'  civile
 attualmente sta interessando il Parlamento, riferiscono le  cronache,
 perche' l'obiezione di coscienza sia riconosciuta dalla legge come un
 diritto soggettivo sulla base della sola dichiarazione del cittadino,
 e non come una concessione dello Stato.
   Infatti  e' all'esame del Parlamento la proposta di legge, in corso
 di definitiva approvazione, in base alla quale, non sussistendo cause
 ostative di natura oggettiva, e'  sufficiente  la  dichiarazione  del
 cittadino  contenente  l'espressa  menzione  dei  motivi  riguardanti
 l'obiezione di coscienza.
   Viceversa, per il cittadino-giudice,  non  e'  sufficiente  la  sua
 dichiarazione  per  il  riconoscimento  del  diritto di astenersi per
 difetto o pericolo di imparzialita'.
   Ritiene  questo   g.d.p.   che   sia   del   tutto   evidente   una
 ingiustificata, irragionevole disparita' di trattamento tra cittadini
 per  l'esercizio  e  per  la  difesa  del  diritto  alla  liberta' di
 coscienza, vale a dire, riguardo alla presente questione, del diritto
 alla liberta' come realizzazione della giustizia  nell'uguaglianza  e
 nell'imparzialita'.
   Il    paradosso  e'  che il bene dell'imparzialita' del giudice nel
 processo e' riconosciuto e tutelato direttamente  dalla  Costituzione
 mentre  per i casi di obiezione di coscienza problemi possono esserci
 circa un loro possibile contrasto con i principi costituzionali.
   Concludendo, il diritto del giudice di astenersi sotto  il  duplice
 profilo  di  "essere"  e  di  "apparire"  imparziale, e' riconosciuto
 direttamente dalla Costituzione e il legislatore ordinario  non  puo'
 non tenerne conto senza violare in modo grave i principi solennemente
 affermati  dal  combinato  disposto  degli  artt.  2,  3  e  24 della
 Costituzione.
   Peraltro,  ammesso  pure  che  sussista  in  astratto   un   potere
 discrezionale del legislatore riguardo a modo di regolare l'esercizio
 di    tale    diritto,   anche   la   soluzione   concernente   detta
 regolamentazione  e'  "a  rime  obbligate"  dovendo  il   legislatore
 osservare  i  principi  di  cui  all'art.    3  della Costituzione in
 relazione a quanto gia' legiferato in materia di diritto di obiezione
 di coscienza.
   Da ultimo si osserva che in caso di diniego dell'autorizzazione  ad
 astenersi, il giudice istante deve osservare due doveri, uno morale e
 l'altro  giuridico,  di segni del tutto opposti sicche' l'adempimento
 di uno comporta l'inadempimento dell'altro.
   Ora, la norma che pone tale dilemma,  non  solo  non  sussistendone
 affatto  la necessita', ma anzi dovendo essa stessa difendere il bene
 giuridico dell'imparzialita' del giudice che e' anche uno dei  valori
 essenziali  e  primari  della legge morale dell'uomo per l'uomo e del
 codice etico della Magistratura (art.  9),  viola  in  modo  evidente
 ancora gli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione.
   6.  -  La  previsione  legislativa  di  un provvedimento di diniego
 dell'autorizzazione di astensione anche nel caso in  cui  il  giudice
 istante  dichiara il difetto o il pericolo di imparzialita', non solo
 configura una ulteriore  causa  idonea  a  compromettere  il  "giusto
 processo"  per il contrasto di detto provvedimento con la forza della
 c.d.  "prevenzione"  della  quale  innanzi  si  e'  detto,  ma  viola
 gravemente anche l'art. 101 della Costituzione.
   Il  dovere  di  astensione  del  giudice  nasce  e vive momento per
 momento (art. 78, comma 2, del disp. att. tras.  c.p.c.)  nell'ambito
 dell'esercizio della funzione giurisdizionale e non fuori. E tuttavia
 il  menzionato  provvedimento  di  diniego,  pur  non  avendo  natura
 giurisdizionale ma natura meramente  amministrativa,  come  e'  stato
 ritenuto  dalla  Corte  costituzionale  (ord.  n.  35/1998), in forza
 dell'art. 51, comma 2,  c.p.c.,  non  solo  interferisce  nell'ambito
 dell'esercizio   della  funzione  giurisdizionale  perche'  valuta  e
 statuisce circa la sussistenza di  uno  dei  presupposti  processuali
 fondamentali  del  "giusto  processo"  gia' oggetto di valutazione da
 parte del giudice istante, ma si pone in una posizione di  prevalenza
 sulle determinazioni giurisdizionali gia' adottate per mezzo dei suoi
 effetti ordinatori nei confronti del giudice.
   Si  rivendica,  quindi,  che  "i  giudici  sono  soggetti solo alla
 legge".  Essi devono godere di una assoluta  autonomia  di  giudizio,
 senza  che  il loro convincimento possa essere influenzato o, peggio,
 determinato da altro  se  non  dalla  loro  coscienza  e  dalla  loro
 professionalita'.
   Il  fine  della  norma dell'art. 101 della Costituzione, che di per
 se' non tollera disposizioni lesive della  funzione  giurisdizionale,
 integrata  con  quella  contenuta  dall'art. 107, comma 3, seconda la
 quale "i magistrati si distinguono fra loro soltanto  per  diversita'
 di   funzioni",  e'  proprio  quello  (come  ha  precisato  la  Corte
 costituzionale nella sentenza n. 86 del 1982) di sottrarre i  giudici
 a  rapporti  di  tipo  gerarchico,  da superiore ad inferiore, che ne
 intaccherebbero l'autonomia. Ne risulta  altresi'  violato  l'art.  3
 della  Costituzione  segnatamente  con il generale canone di coerenza
 dell'ordinamento giuridico cui deve uniformarsi  pure  la  disciplina
 degli  istituti  processuali  e,  quindi, dell'astensione. Quindi, si
 deduce  che  gli  artt.  3,  101,  comma  2,  107,  comma  3,   della
 Costituzione risultano violati dalle norma in questione.
   7.  -  Il procedimento relativo all'istanza di astensione anche nel
 caso,  come  precisato,  che  si  concluda  con  il   diniego   della
 autorizzazione  e'  un  procedimento  interno  di carattere puramente
 amministrativo (Ord. n. 35 del 1988 della Corte costituzionai'e).
   Le parti lo ignorano ed ignorano anche  che  il  giudice  si  possa
 trovare  in  una situazione di pregiudizievole "sofferenza" in quanto
 pur avendo denunciato il pericolo dell'imparzialita' deve  provvedere
 alla definizione del giudizio.
   Esse  non hanno alcuna possibilita' di esperire una immediata utile
 azione che, comportando la sospensione  del  processo,  scongiuri  un
 ritenuto concreto pericolo di sentenza ingiusta. Infatti le parti non
 possono   proporre  la  ricusazione  del  giudice,  che  e'  prevista
 dall'art. 52 c.p.c., solo nei casi in cui gli  e'  fatto  obbligo  di
 astenersi,  e  non  invece  "in  ogni altro caso" di cui all'art. 51,
 comma 2, c.p.c.
   Eppure anche nel processo civile "la difesa e' diritto  inviolabile
 in ogni stato e grado del procedimento" e l'imparzialita' del giudice
 deve sempre e comunque essere assicurata.
   Nel   suddetto  processo,  poi,  vale  in  modo  essenziale  e  con
 assicurazione di totale trasparenza la  dialettica  dei  contrapposti
 interessi  la  quale  di norma si svolge attraverso il contradditorio
 fra le parti proprio esercitando il diritto di azione e di difesa  su
 un piano di "parita' delle armi", in una continua funzione propulsiva
 e   di   controllo  che  condiziona  il  proseguimento  e  la  stessa
 conclusione del processo.
   Orbene,  non  si capisce quale sia il fondamento che giustifichi in
 modo ragionevole e razionale la mancanza di trasparenza e  la  totale
 lesione del diritto di difesa soprattutto nel caso, che e' il nostro,
 in  cui  il  giudice  di pace, dovendo decidere il merito della causa
 secondo  equita',   pronunzia   sentenza   inappellabile   ai   sensi
 dell'ultimo comma dell'art. 339, c.p.c.
   Si   ritiene   quindi   che,   riguardo   all'ipotesi   di  diniego
 dell'autorizzazione  di  astensione  per  difetto   o   pericolo   di
 imparzialita'  e  in base al vigente assetto normativo, risultino del
 tutto violati sia il diritto di azione e sia  il  diritto  di  difesa
 dichiarati  inviolabili dall'art.   24, comma 2, della Costituzione e
 che il combinato disposto dell'art.   10  della  legge  n.  374/1991,
 dell'art.  51,  comma  2,  e  dell'art.  52 c.p.c., risulti del tutto
 irrazionale attribuendo il potere di ricusazione del  giudice  per  i
 casi  di presunta parzialita' ex lege e non attribuendolo nel caso di
 dichiarato concreto ed effettivo pericolo di parzialita'.
   8. - Concludendo, si ritiene da un lato che gli  aspetti  specifici
 sin  qui evidenziati riguardanti gli istituti dell'astensione e della
 ricusazione  del  giudice  siano  largamente   giustificativi   della
 presente ordinanza che si sostanzia in una valutazione che esclude la
 manifesta  infondatezza  della  questione che si solleva, peraltro in
 modo gradato in relazioni alle emergenze di volta in volta  prese  in
 esame,  e  da  un  altro  lato  che  le esigenze di tutela del valore
 dell'imparzialita' postulino un intervento della Corte costituzionale
 sulla disciplina di tali istituti, al fine di garantire  comunque  la
 tutela  del  giusto  processo  (e  del  diritto  di  difesa che ne e'
 componente essenziale) proprio nell'ottica conclusiva della  sentenza
 n. 308 del 1997 della stessa Corte.
                                P. Q. M.
   Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
   Solleva  d'ufficio  la  questione  di  legittimita' costituzionale,
 ritenuta e dichiarata rilevante e non  manifestamente  infondata,  in
 riferimento  agli  artt. 2, 3, 24, secondo comma, 101, secondo comma,
 107, terzo comma, della Costituzione, in modo cosi' gradato:
     dell'art. 10 della legge 21 novembre 1991,  n.  374,  soprattutto
 riguardo alla decisione secondo equita' di cui all'art. 113, comma 2,
 c.p.c.:
      a)  nella  parte  in cui, prescrivendo che il giudice di pace e'
 tenuto all'osservanza dei doveri previsti per i magistrati  ordinari,
 e  quindi  all'osservanza  dei  doveri  di  cui all'art. 51, comma 2,
 c.p.c., prevede e attribuisce  al  capo  dell'ufficio  il  potere  di
 emettere provvedimento di rigetto della richiesta dell'autorizzazione
 di  astensione anche nel caso in cui la grave ragione di convenienza,
 valutata sussistente dal giudice istante, riguarda il  difetto  o  il
 pericolo di imparzialita';
      b)  nella parte in cui non prevede il (riconosciuto) diritto del
 giudice di pace di astenersi (per obbedire alla coscienza)  nel  caso
 in  cui  questi  valuta  sussistente  il  difetto  o  il  pericolo di
 imparzialita';
     degli artt. 51, comma 2, c.p.c., e 78 disp. att.  trans.  c.p.c.,
 cui  fa implicito rinvio il citato art. 10, soprattutto riguardo alla
 decisione secondo equita' di cui all'art. 113, comma 2. c.p.c.:
      a)  nella  parte  in  cui  prevedono  e  attribuiscono  al  capo
 dell'ufficio il potere di emettere  provvedimento  di  rigetto  della
 richiesta  dell'autorizzazione di astensione anche nel caso in cui la
 grave  ragione  di  convenienza,  valutata  sussistente  dal  giudice
 istante, riguarda il difetto o il pericolo di imparzialita';
      b)  nella  parte  in cui non prevedono il (riconosciuto) diritto
 del giudice di astenersi (per obbedire alla coscienza)  nel  caso  in
 cui   questi   valuta   sussistente  il  difetto  o  il  pericolo  di
 imparzialita';
     dell'art. 52, c.p.c., soprattutto riguardo alla decisione secondo
 equita' di cui all'art. 113, comma 2, c.p.c., nella parte in cui  non
 prevede  che  ciascuna  delle  parti,  alle  quali  e'  notificato il
 provvedimento di diniego dell'autorizzazione  di  astensione  di  cui
 all'art.  51, comma 2, c.p.c. riguardo all'istanza del giudice che ha
 valutato sussistente il difetto o il pericolo di imparzialita',  puo'
 proporre  ricusazione  del  giudice  mediante  ricorso,  contenente i
 motivi specifici e i mezzi di prova, depositato  in  cancelleria  due
 giorni dopo la notifica;
   Dispone    l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
 costituzionale e sospende il giudizio in corso;
   Ordina che, a cura della cancelleria,  la  presente  ordinanza  sia
 notificata  al Presidente del Consiglio dei Ministri ed alle parti in
 causa, e comunicata ai Presidenti della Camera  dei  deputati  e  del
 Senato della Repubblica.
   Cosi' deciso in Imola, addi' 20 aprile 1998.
                    Il giudice di pace: Persichella
 98C0635