N. 461 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 aprile 1998

                                N.  461
 Ordinanza emessa il 22 aprile 1998 dal tribunale per i  minorenni  di
 Roma nel procedimento penale a carico di F. S. ed altri
 Processo  penale  -  Dibattimento  -  Esame  di  persona  imputata in
    procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere
    - Lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese  nel  corso
    delle  indagini  preliminari  -  Preclusione  per il giudice salvo
    l'accordo  delle  parti  -  Irragionevolezza  posta  la   prevista
    utilizzabilita'  di  tali  precedenti  dichiarazioni nella diversa
    ipotesi  in  cui  non  sia  possibile  ottenere  la  presenza  del
    dichiarante  oppure procedere all'esame in altro modo - Violazione
    dei principi di indipendenza  del  giudice  e  di  obbligatorieta'
    dell'azione penale.
 (C.P.P.  1998,  art.  513,  comma  2, modificato dalla legge 7 agosto
    1997, n. 267, art. 1).
 (Cost., artt. 3, 25, 101, secondo comma, e 112).
(GU n.26 del 1-7-1998 )
                     IL TRIBUNALE PER I MINORENNI
   Ha pronunciato e pubblicato mediante lettura  della  ordinanza  nel
 procedimento  penale  n.  241/1997  r.g. nei confronti di 1) F.S.; 2)
 S.M.; 3) Q.S.;
   Imputati del delitto p. e p. dagli articoli  110  e  575  del  c.p.
 perche',  in  concorso  tra  loro e con il maggiorenne Misceo Nicola,
 essendo il F esecutore materiale e il Q, lo S e il Misceo attivamente
 presenti sul luogo dell'agguato, cagionavano la  morte  di  Del  Bene
 Maurizio,  esplodendogli  contro, da brevissima distanza un colpo con
 un fucile da caccia  modificato  ("a  canne  mozze")  e  caricato  "a
 pallettoni" che lo attingeva alla regione parasternale sinistra;
   In Torvajanica di Pomezia all'alba del 14 luglio 1996;
   Il  F  inoltre:  b)  del delitto p. e p. dagli articoli 61 n. 2, 81
 c.p.v. del c.p. e 10, 12, 14, legge 14 ottobre 1974, n. 497  perche',
 con piu' azioni esecutive del medesimo disegno criminoso e al fine di
 eseguire  il  reato  di  omicidio al capo a), illegalmente deteneva e
 portava in luogo pubblico un fucile da caccia  modificato  ("a  canne
 mozze") caricato a pallettoni (arma comune da sparo);
   In Torvajanica di Pomezia il 14 luglio 1996;
   Ordinanza  sulla questione di legittimita' costituzionale dell'art.
 513 del c.p.p., nella formulazione risultante dalle modifiche operate
 con l'art. 1, legge 7 agosto  1997,  n.  267,  per  violazione  degli
 articoli  2,  3,  24, 25, 101 e 112 della Costituzione, sollevata dal
 pubblico ministero all'udienza del 22 ottobre 1997, ribadita dopo  la
 replica dei difensori degli imputati all'udienza del 22 aprile 1998.
                             O s s e r v a
   Premessa.
   Il  22 ottobre 1997 il tribunale, sentite le richieste delle parti,
 emetteva ordinanza di ammissione delle prove, tra  le  quali  l'esame
 del  coimputato maggiorenne Misceo Nicola, a carico del quale risulta
 pendente procedimento  in  fase  dibattimentale  davanti  alla  Corte
 d'assise  di  Roma;  nel corso della stessa udienza si presentava per
 l'esame il coimputato maggiorenne, che in quella sede  dichiarava  di
 avvalersi  della  facolta'  di  non rispondere; veniva di conseguenza
 richiesta dal pubblico ministero l'acquisizione  delle  dichiarazioni
 dallo  stesso  in  precedenza  rese, in virtu' del disposto dell'art.
 513, comma 2, del c.p.p.
   Poiche'   nessuna   delle   parti   private    prestava    consenso
 all'acquisizione dei verbali delle dichiarazioni rese nel corso delle
 indagini   preliminari   del   coimputato  maggiorenne,  il  pubblico
 ministero   chiedeva   a   questo   tribunale   di   dichiarare   non
 manifestamente  infondata la questione di legittimita' costituzionale
 della  nuova  formulazione  dell'art.     513  del  c.p.p.,   con   i
 provvedimenti di conseguenza.
   Le  parti  interloquivano  nel merito dell'eccezione ed il pubblico
 ministero ribadiva la sollevata eccezione all'udienza del  22  aprile
 1998.
 Sulla rilevanza
   Tenuto  conto  della indicazione delle fonti di prova contenuta nel
 decreto che dispone il giudizio, dei dati rappresentati dal  pubblico
 ministero  nel  corso  della  relazione  introduttiva  nonche'  delle
 richieste di prova dallo stesso formulate ai sensi dell'art. 493  del
 c.p.p.    (e sostanzialmente accolte dal tribunale con l'ordinanza ex
 art.   495 del c.p.p.) appare evidente  la  rilevanza  della  dedotta
 questione  di  legittimita'  costituzionale  nei  limiti in cui viene
 riferita alla nuova formulazione del  comma  2,  dell'art.  513,  del
 c.p.p.,  trattandosi  di  processo  nel  quale l'impianto accusatorio
 poggia in larga parte sulle dichiarazioni di soggetti che si  trovano
 nelle condizioni descritte dall'art. 210 del c.p.p.
   Tali  dichiarazioni,  in  applicazione,  della impugnata norma, non
 possono trovare ingresso nel  dibattimento,  stante  l'esercizio,  da
 parte  del dichiarante, della facolta' di non rispondere, e l'assenza
 dell'accordo delle parti in  ordine  alla  acquisizione  dei  verbali
 delle  dichiarazioni  rese  dal  medesimo  nel  corso  delle indagini
 preliminari.
   Invero, come evidenziato dal  pubblico  ministero  nell'esposizione
 introduttiva  ex  art.  493  del c.p.p., il predetto Misceo Nicola ha
 reso ampie ammissioni  dell'addebito  e  ha  chiamato  in  correita',
 delineando  i  rispettivi  ruoli,  i  tre  odierni  imputati,  e cio'
 ripetutamente e in varie fasi delle indagini  preliminari  collegate,
 sia  in  interrogatorio  reso  al  p.m., sia in un confronto con il F
 davanti al p.m. ed al p.m.m., alla presenza dei rispettivi difensori.
   In base alla nuova formulazione dell'art. 513 del c.p.p.  e'  stato
 impossibile  utilizzare ed inserire nel fascicolo del dibattimento le
 dichiarazioni precedentemente rese dal Misceo.
 Sulla non manifesta infondatezza
   Ritiene il collegio che la norma  impugnata  abbia  sostanzialmente
 ripristinato  quel  vizio di manifesta irragionevolezza cui la stessa
 Corte costituzionale aveva posto rimedio con la sentenza n.  254  del
 1992,  attraverso  la  quale  era  stata dichiarata la illegittimita'
 costituzionale  dell'art. 513, comma 2, del c.p.p. nella formulazione
 allora vigente "nella parte  in  cui  non  prevede  che  il  giudice,
 sentite  le parti, dispone la lettura dei verbali delle dichiarazioni
 ...  rese dalle persone indicate nell'art. 210  del  c.p.p.,  qualora
 queste si avvalgano della facolta' di non rispondere".
   In  quella  occasione,  la  Corte  osservo'  che il principio guida
 dell'oralita' deve essere contemperato con l'esigenza di  evitare  la
 perdita  ai  fini  della  decisione  di  quanto  acquisito  prima del
 dibattimento e che in tale sede sia irripetibile, rimarcando  che  in
 tale   categoria   gia'   la   legge   delega   ricomprendeva   anche
 l'indisponibilita' dell'imputato all'esame.
   Inoltre, in materia di  acquisizione  e  di  utilizzabilita'  della
 prova,  la Corte, con una successiva sentenza (n. 255/1992) attribui'
 esplicitamente rilievo costituzionale al "principio di  conservazione
 della   prova",   osservando   che   "...   il   sistema  accusatorio
 positivamente   instaurato   ha   prescelto   la    dialettica    del
 contraddittorio    dibattimentale    quale    criterio    rispondente
 all'esigenza di ricerca della verita'; ma accanto al principio  della
 oralita'  e'  presente,  nel  nuovo sistema processuale, il principio
 della non dispersione degli elementi di prova  non  compiutamente  (o
 non genuinamente) acquisibili con il metodo orale...".
   Ancora  piu' di recente, e tenendo presente il principio secondo il
 quale fine centrale del processo e'  la  ricerca  della  verita',  la
 Corte  con  la  sentenza  n. 179 del 1994, relativamente alla ipotesi
 dell'esercizio della facolta' di  astenersi  dal  deporre,  riservata
 dall'art.  199  del  c.p.p.  ai  prossimi congiunti dell'imputato, ha
 confermato il proprio orientamento.
   Muovendo da una fattispecie concreta in  relazione  alla  quale  il
 giudice  a  quo  aveva  sollevato  la  questione di costituzionalita'
 reputando non applicabile la disciplina prevista  dall'art.  512  del
 c.p.p.   nel   caso  di  prossimo  congiunto  che,  dopo  avere  reso
 dichiarazioni in sede  di  indagini  preliminari,  si  avvalga  della
 citata  facolta'  solo in sede dibattimentale, la Corte dichiarava la
 questione   non   fondata,   ricorrendo   ad   una   pronuncia   c.d.
 "interpretativa   di  rigetto"  che  concludeva  nel  senso  che  "la
 testimonianza  cosi'  acquisita  e'  legittimamente,  e  soprattutto,
 stabilmente   acquisita"   ed  "e'  certamente  fuor  di  dubbio  che
 l'acquisizione della prova testimoniale  legittimamente  assunta  non
 puo'   essere   condizionata   dall'eventualita'  di  una  successiva
 invalidazione da  parte  del  teste,  nel  caso  di  un  suo  tardivo
 esercizio  della  facolta' di astensione: non esiste nell'ordinamento
 alcuna disposizione che autorizzi un'interpretazione del genere".
   Per il giudice delle leggi, dunque, in casi consimili, e sebbene in
 presenza dell'esercizio di un diritto, si determina una "oggettiva  e
 non    prevedibile"    impossibilita'    di   ripetizione   dell'atto
 dichiarativo.  La conclusione cui la citata sentenza perviene  (ossia
 la lettura, ex art. 512 del c.p.p., delle dichiarazioni in precedenza
 rese) si pone in linea con quello che deve essere senz'altro definito
 un  caposaldo  della elaborazione della giurisprudenza costituzionale
 dopo l'entrata in vigore del codice di  procedura  penale  del  1988,
 secondo  il  quale  occorre  "contemperare  il rispetto del principio
 dell'oralita' con l'esigenza di evitare la  perdita,  ai  fini  della
 decisione,  di  quanto  acquisito  prima  del  dibattimento e che sia
 irripetibile in tale sede".
   D'altronde,   con   una   interpetrazione   diversa,  il  principio
 dell'oralita' diventerebbe un principio fine a se  stesso,  al  quale
 verrebbe  sacrificato  lo scopo essenziale del processo penale, che -
 come e' opinione del collegio - consiste nella ricerca della  verita'
 e  nella  pronuncia  di  una  giusta  decisione.  Per  un  elementare
 principio   di   civilta'   giuridica,    affermato    dalla    Corte
 costituzionale,  l'impossibilita'  di consentire la dispersione della
 prova ha imposto al legislatore di prevedere e rendere  possibile  la
 lettura  di  atti  formati  nelle indagini preliminari, allorche' per
 qualsivoglia ragione (che puo' consistere anche nel puro arbitrio del
 soggetto) l'atto non sia ripetibile in dibattimento.
   E cosi', di fronte al testimone che opponga un irremovibile rifiuto
 di testimoniare, nell'alternativa tra il disperdere la  prova  e  non
 fare  giustizia  e valorizzare invece gli atti formati anteriormente,
 il legislatore ha  operato  questa  seconda  scelta,  consentendo  la
 lettura e quindi l'utilizzazione delle dichiarazioni rese.
   Orbene, anche nel caso delle persone indicate nell'articolo 210 del
 c.p.p.  si  e'  in presenza di soggetti che nella fase delle indagini
 preliminari non si sono avvalse della facolta' di  non  rispondere  e
 che  hanno  esercitato  tale  diritto in dibattimento rendendo l'atto
 "oggettivamente e imprevedibilmente" irripetibile.
   Non risponde a logica che le dichiarazioni rese in fase di indagini
 preliminari possano essere utilizzate  tout  court  qualora  non  sia
 possibile  ottenere  la  presenza della persona in dibattimento o non
 sia possibile escuterlo a domicilio o con altra  specifica  modalita'
 (art.  513,  comma  2,  prima parte) e invece occorra l'accordo delle
 parti qualora  la  persona  si  presenti  in  udienza  e  rifiuti  di
 rispondere (art. 513, comma 2, seconda parte).
   In   entrambi  i  casi  l'atto  e'  irripetibile  oggettivamente  e
 imprevedibilmente e tanto  basta  perche'  in  armonia  ai  princi'pi
 costituzionali  fissati  in  materia  dalla  Corte  (sent.  254/1992;
 255/1992; 179/1994), il giudice se ne possa avvalere  liberamente  al
 fine  di adempiere il precetto costituzionale racchiuso all'art. 101,
 comma 2 della Costituzione "i giudici  sono  soggetti  soltanto  alla
 legge" allo scopo di addivenire ad una sentenza giusta.
   La  norma  impugnata  appare  altresi' in contrasto con il disposto
 dell'art. 101, secondo comma, e 112 della Costituzione.
   Invero, la Consulta ha piu' volte avuto modo di precisare  come  il
 potere  di  decisione  del  giudice  del merito della causa non possa
 essere vincolato dall'esercizio meramente discrezionale di un  potere
 delle parti e dalle scelte di carattere processuale, in ipotesi anche
 immotivate, di costoro. E' evidente, infatti, come il precetto di cui
 all'art.   101,   secondo  comma,  della  Costituzione  precluda  una
 esasperata ed estremistica applicazione del principio dispositivo del
 processo penale, in ragione della  indisponibilita'  degli  interessi
 pubblici  e  delle  posizioni  soggettive che di questo costituiscono
 l'oggetto; la  disponibilita'  della  prova  renderebbe  disponibile,
 indirettamente,  la  stessa res iudicanda. Come chiaramente affermato
 nella   nota   sentenza   (sempre   appartenente   al   genus   delle
 interpretative di rigetto: Corte costituzionale n. 111/1993) relativa
 alla  definizione  del  potere  istruttorio  suppletivo  riservato al
 giudice dibattimentale dall'art. 507 del c.p.p., nel nuovo codice  di
 rito "il metodo dialogico di formazione della prova e' stato, invero,
 prescelto  come  metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente
 idoneo al loro per quanto piu' possibile pieno  accertamento,  e  non
 come  strumento  per  far  programmaticamente  prevalere  una verita'
 formale risultante dal mero confronto dialettico tra le  parti  sulla
 verita'  reale:  altrimenti, ne sarebbe risultata tradita la funzione
 conoscitiva del processo, che discende dal principio di  legalita'  e
 da   quel   suo  particolare  aspetto  costituito  dal  principio  di
 obbligatorieta' dell'azione penale".    Se  e'  vero  che  un  potere
 dispositivo  della  prova nel processo e negato alle parti, a maggior
 ragione cio' deve valere per chi, come le persone di cui all'art. 210
 del c.p.p., e' per definizione estraneo al processo  nell'ambito  del
 quale  sia  chiamato a rendere dichiarazioni.  La norma impugnata, al
 contrario, consente di sottrarre una prova al vaglio  dibattimentale,
 a seguito di un atto meramente discrezionale, compiuto da un soggetto
 che  neppure  riveste  la  qualita'  di  parte del procedimento, come
 avviene nel caso in cui la persona esaminata ex art. 210  del  c.p.p.
 si  avvalga  della facolta' di non rispondere.  A cio' il legislatore
 del 1997 ha ritenuto di dover  aggiungere  un  ulteriore  sbarramento
 all'ingresso  della  fonte  di  prova, riservando (nel caso in cui il
 dichiarante, in sede dibattimentale, si sia avvalso della facolta' di
 non  rispondere)  la  possibilita'   di   acquisire   le   precedenti
 dichiarazioni all'accordo (rectius, al gradimento) delle parti.
   Nel  caso  di specie, risulta che, all'udienza del 20 ottobre 1997,
 Misceo Nicola - coimputato maggiorenne - senza alcun valido motivo si
 e' avvalso della facolta' di non rispondere.
   Tale scelta, alla stregua della norma  della  cui  legittimita'  in
 questa   sede   il  collegio  dubita,  condiziona  l'esercizio  della
 giurisdizione, incidendo in misura determinante  sulla  liberta'  del
 giudice,   nel   significato  che  tale  concetto  ha  assunto  nella
 giurisprudenza costituzionale.
   Il tribunale remittente si e', quindi, trovato  di  fronte  ad  una
 situazione  in  cui l'assunzione della prova e' stata inibita proprio
 dalla scelta arbitraria del Misceo.
   L'avere riservato alla insindacabile scelta del soggetto di rendere
 o meno dichiarazioni e  alla  volonta'  delle  parti  processuali  di
 consentire  alla  lettura  di  dichiarazioni  in  precedenza rese, ha
 finito  per  rimettere  nella  totale  disponibilita'   delle   parti
 l'ingresso  di  una  prova  nel  dibattimento  e,  in  definitiva,  a
 condizionare l'esercizio stesso dell'azione penale.  Cio'  e'  quello
 che  e'  accaduto  all'udienza  del  20  ottobre  1997 quando tutti i
 difensori, preso atto  del  rifiuto  del  dichiarante  di  sottoporsi
 all'esame,  non hanno consentito la lettura dei verbali contenenti le
 dichiarazioni gia' rese.
   Si puo'  dunque  concludere,  con  le  parole  della  stessa  Corte
 costituzionale, che "ad un ordinamento costituzionale che sancisce il
 principio di obbligatorieta' dell'azione penale, ma e' prima di tutto
 improntato  alla  tutela  dei  diritti  inviolabili  dell'uomo  ed al
 principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, non sono
 consone norme di  metodologia  processuale  che  ostacolino  in  modo
 irragionevole   il   processo   di  accertamento  del  fatto  storico
 necessario  per  pervenire  ad  una  giusta  decisione"  (cfr.  Corte
 costituzionale   n.   241/1994;   nello   stesso  senso,  gia'  Corte
 costituzionale n. 111/1993).
                               P. Q. M.
   Visti  gli articoli 134 della Costituzione, 23 e seguenti, legge 11
 marzo 1953, n. 87, ritenuta rilevante e non manifestamente infondata,
 in relazione agli articoli 3, 25 e  101,  secondo  comma,  112  della
 Costituzione,  la  questione di legittimita' costituzionale dell'art.
 513, comma 2, del c.p.p., come modificato dall'art. 1, legge 7 agosto
 1997, n. 267;
   Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
   Manda  alla  cancelleria  per  la  notificazione   della   presente
 ordinanza  al  Presidente  del  Consiglio dei Ministri nonche' per la
 comunicazione  ai  Presidenti  delle  Camere  del  Parlamento   della
 Repubblica;
   Sospende il dibattimento fino all'esito del giudizio incidentale di
 legittimita' costituzionale;
   Dispone  la  trasmissione  degli  atti  del  procedimento  e  della
 presente ordinanza alla Corte costituzionale;
   Cosi' deciso nella Camera di Consiglio in data 22 aprile 1998.
                       Il presidente: Bonadonna
                                       Il giudice estensore: Rivellese
 98C0706