N. 463 ORDINANZA (Atto di promovimento) 28 marzo 1998
N. 463 Ordinanza emessa il 28 marzo 1998 dal tribunale di Verbania nel procedimento penale a carico di Capra Luciano ed altri Processo penale - Dibattimento - Esame di persona imputata in procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere - Lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari - Preclusione per il giudice salvo l'accordo delle parti - Irragionevolezza posta la prevista utilizzabilita' di tali precedenti dichiarazioni nella diversa ipotesi in cui non sia possibile ottenere la presenza del dichiarante oppure procedere all'esame in altro modo - Diversita' di regime rispetto a quello delle dichiarazioni del testimone - Lesione del diritto di difesa - Violazione dei principi di indipendenza del giudice e di obbligatorieta' dell'azione penale. (C.P.P. 1998, art. 513, comma 2, modificato dalla legge 7 agosto 1997, n. 267, art. 1). (Cost., artt. 3, 24, 25, 101 e 112).(GU n.26 del 1-7-1998 )
IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale nei confronti di Capra Luciano, De Giorgis Alfonso e Antonioli Giuseppe, imputati dei reati di cui al decreto che dispone il giudizio sulla questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513, comma 2, c.p.p., nella formulazione risultante dalle modifiche operate con l'art. 1, legge 7 agosto 1997, n. 267, per violazione degli articoli 3, 24, 25, 101, 112 Cost., sollevata dal p.m. all'udienza del 12 febbraio 1998. Premessa Il presente procedimento costituisce uno stralcio di una piu' ampia indagine riguardante la gestione dell'ufficio del registro di Arona da parte dell'allora direttore dott. Mattarella Salvatore, sulla base di denunce presentate da alcuni contribuenti. Esso, in particolare, concerne due pratiche intestate alla Immobiliare Vevera s.a.s. di Capra Luciano C. relativa all'Invim straordinaria di cui al d.-l. 13 settembre 1991, convertito in legge n. 363/1991, che si assumono oggetto di un trattamento di favore ad opera del dirigente dell'Ufficio pubblico, in cambio della dazione gratuita di un'autovettura Audi 100 da parte dell'AutoArona S.r.l., il cui dominus era lo stesso Capra Luciano. Tale trattamento di favore sarebbe consistito nell'omettere la notifica dell'avviso di accertamento del valore immobiliare redatto dall'U.T.E. nel termine di legge, rendendo cosi' definitiva l'autoliquidazione effettuata dall'interessato, di importo notevolmente inferiore. Intimamente connessa a tale imputazione e' quella elevata nei confronti dell'Antonioli, legale rappresentante dell'AutoArona S.r.l., che secondo l'accusa avrebbe posto in essere una pluralita' di condotte finalizzate a fare apparire come regolare vendita la cessione dell'autovettura in oggetto al Mattarella, ed a corroborare sotto tale profilo la versione difensiva dei coimputati. Nel corso dell'istruzione dibattimentale e' stato sentito, ai sensi dell'art. 210 c.p.p., il coimputato Mattarella Salvatore, il cui esame era stato richiesto dal p.m. e che si e' avvalso della facolta' di non rispondere. Il p.m. ha allora chiesto l'acquisizione dei verbali delle dichiarazioni rese dal Mattarella (interrogatori innanzi al p.m. in data 13 maggio 1996, 21 maggio 1996, 17 giugno 1996, 30 ottobre 1996, interrogatorio innanzi al g.i.p. in data 12 giugno 1996): a fronte del rifiuto di tutte le altre parti, egli ha quindi sollevato formalmente l'eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 513, comma 2, del c.p.p., nella sua nuova formulazione, per contrasto con gli articoli 2, 3, 24, 25, 101 e 112 della Costituzione, in relazione alla mancata acquisizione dei verbali delle sopra citate dichiarazioni precedentemente rese dal coimputato Mattarella. Sulla rilevanza Dalla relazione introduttiva del p.m. e' emerso che il Mattarella fu piu' volte sentito anche in merito ai fatti oggi in esame, rendendo sia in ordine all'omessa notifica degli avvisi sia in ordine alla dazione della vettura dichiarazioni sulla base delle quali, unitamente ad altri elementi ritenuti di riscontro, e' stato richiesto ed ottenuto il rinvio a giudizio (anche) degli odierni imputati. Appare pertanto evidente la rilevanza nel presente processo della dedotta questione di legittimita' costituzionale in rapporto alle dichiarazioni rese nel corso delle indagini dal Mattarella, anche considerando che questi rappresenta il soggetto attivo del reato di corruzione ascritto agli odierni imputati Capra e De Giorgis, a sua volta presupposto di quello contestato all'Antonioli. Ed in effetti, al di la' del valore che tali mezzi di prova assumono nella prospettazione dell'accusa, rimane indiscutibile la rilevanza degli stessi ai fini dell'accertamento dei fatti e l'impossibilita', allo stato degli atti, di ritenerne la superfluita' ex artt. 190 e 495, c.p.p.; in tale ottica si ritiene infatti di dover circoscrivere la valutazione del requisito in esame, non potendosi in tale fase processuale anticipare la valutazione degli elementi di prova gia' acquisiti o acquisendi secondo una sorta di "prognosi probatoria", che appare in conflitto con la struttura del processo in quanto anticipatoria della decisione nel merito. Le dichiarazioni di cui il p.m. ha richiesto l'acquisizione, in applicazione dell'impugnata norma, non possono allo stato trovare ingresso nel dibattimento unicamente per effetto del dissenso espresso dalla difesa. Sulla non manifesta infondatezza Per quanto attiene alla valutazione di non manifesta infondatezza nei termini delineati dal p.m., vanno condivise e ribadite le valutazioni gia' espresse da altri giudici remittenti, ed in particolare dal tribunale di Milano e da questo stesso Tribunale di Verbania, che hanno sollevato identica questione con ordinanze datate rispettivamente 24 ottobre 1997, 17 dicembre 1997 e 17 febbraio 1998. Espressamente richiamando in particolare le considerazioni di cui all'ordinanza del tribunale di Verbania 17 febbraio 1998, ritiene infatti il Collegio che nella norma impugnata si appalesi un vizio di manifesta irragionevolezza rispetto ai principi costituzionali in materia di acquisizione e utilizzabilita' della prova, dalla stessa Corte costituzionale piu' volte ribaditi e sintetizzati nel "principio di conservazione della prova". Prima di esaminare i profili della manifesta illogicita' della norma in esame, appare necessario sgombrare il campo da alcune obiezioni mosse dalle difese Capra e De Giorgis, le quali hanno escluso dignita' costituzionale al principio di conservazione della prova, con cio' sostenendo la non riferibilita' ad esso di eventuali profili di illegittimita' delle norme ordinarie: la legittimita' dell'art. 513 c.p.p., nella parte qui in esame, non potrebbe avere come parametro di valutazione tale principio, che non troverebbe riconoscimento in nessuna norma della Costituzione, bensi' i valori realmente discendenti dalla Carta fondamentale. Di essi la norma impugnata sarebbe non solo pienamente rispettosa, ma anche manifestazione concreta, con particolare riguardo al principio del contraddittorio che troverebbe la sua fonte diretta nel diritto di difesa sancito dalI'art. 24 della Costituzione. Altro, e connesso, elemento di valutazione che dovrebbe portare al rigetto dell'eccezione di incostituzionalita' - sempre nell'ottica difensiva - e' quello per cui il presunto conflitto tra due contrapposti principi, quello del contraddittorio e quello della conservazione della prova, sarebbe in realta' inesistente in quanto il secondo non troverebbe alcuna dignita' dogmatica, non esistendo "prova" al di fuori di quella formatasi nel dibattimento. A fronte di tali considerazioni, la censura mossa ad un intervento legislativo - chiaramente affermativo del principio del contraddittorio - attraverso il richiamo al principio della conservazione della prova, si risolverebbe nell'imposizione di un criterio processuale contrastante con quello espressamente scelto dal legislatore e con il principio costituzionale ad esso sotteso, e quindi in una sostanziale violazione del principio di legalita' che deve informare l'attivita' giurisdizionale ed in un controllo "sostitutivo" della produzione legislativa. Gli assunti devono ritenersi infondati, non solo alla luce della giurisprudenza costituzionale - che rappresenta il diritto costituzionale vivente e quindi l'ineliminabile punto di riferimento sia del legislatore nella fase di produzione delle norme sia del giudice nella fase della loro interpretazione - ma anche della disciplina processuale vigente, che pacificamente non interpreta il principio del contraddittorio nelI'unico senso dell'oralita', come implicitamente ritengono invece le difese. Lo schema processuale complessivamente delineato dal legislatore si muove infatti su due fondamentali direttrici tra loro complementari: quello della formazione contestuale della prova e quello dell'attribuzione di valenza probatoria ad atti formatisi prima del dibattimento (mediante il meccanismo della lettura). Tale ultimo meccanismo, inoltre, e' stato espressamente contemplato per tutti i casi in cui, per caratteristiche insite nell'atto stesso (ad es. gli atti irripetibili o le rogatorie internazionali di cui all'art. 431 c.p.p., o i documenti di cui agli articoli 234 e ss. c.p.p.) o per fattori sopravvenuti (ad es. le ipotesi di cui agli artt. 512, 512-bis e lo stesso 513 nuova formulazione c.p.p.), risulti impossibile la formazione contestuale della prova. Tale constatazione evidenzia due corollari, entrambi rilevanti nella presente sede: il primo e' che per lo stesso legislatore il principio del contraddittorio non coincide con quello dell'oralita' (id est della formazione contestuale della prova), che ne costituisce invece solamente una possibile modulazione; l'altro e' che i meccanismi previsti dal legislatore per l'acquisizione della "prova" in dibattimento, proprio per la loro evidente complementarieta', manifestano il chiaro intento del legislatore di raggiungere attraverso le regole processuali il vero ed unico scopo, da sempre riconosciuto come principio cardine a livello costituzionale, dell'accertamento della verita'. Il principio del contraddittorio invocato dalle difese non puo', dunque, essere identificato nel principio dell'oralita', non solo in una attenta individuazione dei reali valori guida del processo penale vigente (che escludono di ipotizzare un loro stravolgimento nel caso in cui - attraverso il controllo costituzionale - tale principio sia messo in discussione) ma anche e ancor prima se inteso come espressione del diritto di difesa tutelato dall'art. 24 della Costituzione, che non ha come sua unica manifestazione l'oralita', ben potendo esprimersi anche in altre forme egualmente rispettose di tale valore e addirittura in un rito di natura inquisitoria. Deve dunque concludersi che la normativa ordinaria, nel campo che qui interessa, non puo' che essere vagliata con esclusivo riferimento al principio sopra richiamato dell'accertamento della verita', di cui, come piu' volte esplicitato anche dal giudice delle leggi, il principio di conservazione della prova e' al contempo espressione e garanzia, tanto piu' quando, come nel caso in esame, non ci si trovi di fronte alla contrapposizione di principi aventi anch'essi diretto rilievo costituzionale - tale non essendo, come visto, il principio di oralita'. Passando dunque all'analisi dei lamentati e ritenuti sussistenti profili di incostituzionalita, si osserva: dato di partenza e' che l'art. 513, comma 2, c.p.p., nella sua nuova formulazione viene pacificamente ad escludere dal novero delle prove acquisibili mediante lettura (e quindi utilizzabili ex artt. 191 e 526, c.p.p.) le dichiarazioni dei coindagati che si siano avvalsi della facolta' di non rispondere, con l'unica eccezione del meccanismo di consenso ivi previsto. Altro dato fattualmente incontrovertibile e' che l'esercizio della predetta facolta' da parte di soggetti che nel corso delle indagini della stessa non si erano avvalsi determina un caso di irripetibilita', oggettiva ed imprevedibile, dell'atto. Inevitabile appare dunque il richiamo a tutte le pronunce della Corte costituzionale che in relazione ad analoghi casi di irripetibilita' hanno affermato la legittimita' dell'acquisizione ed utilizzazione delle prove formatesi in sede di indagini preliminari, ancorandola al principio costituzionale della conservazione dei mezzi di prova. In particolare si richiamano: Sentenza Corte cost. n. 254 del 1992, in cui la Corte osservo' che il principio guida dell'oralita' deve essere contemperato con l'esigenza di evitare la perdita, ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che in tale sede sia irripetibile, rimarcando che gia' la legge delega ricomprendeva in tale categoria anche l'indisponibilita' dell'imputato all'esame. Sentenza n. 179/1994, relativa all'ipotesi, invero in tutto e per tutto analoga a quella che ci occupa, dell'esercizio della facolta' di astenersi dal deporre, riservata daIl'art. 199 c.p.p. ai prossimi congiunti dell'imputato, con cui la Corte ha confermato il proprio orientamento affermando "certamente fuor di dubbio che l'acquisizione della prova testimoniale legittimamente assunta non puo' essere condizionata dall'eventualita' di una successiva invalidazione da parte del teste, nel caso di un suo tardivo esercizio della facolta' di astensione: non esiste nell'ordinamento alcuna disposizione che autorizzi una interpretazione del genere". Nell'impostazione del Giudice delle leggi, dunque, in casi consimili, e sebbene in presenza dell'esercizio di un diritto, si determina una "oggettiva e non prevedibile" impossibilita' di ripetizione dell'atto dichiarativo. Le conclusioni a cui le citate sentenze sono pervenute (ossia la lettura, ex artt. 512 e 513, c.p.p., delle dichiarazioni in precedenza rese) si pongono in linea con quello che dev'essere senz'altro definito un caposaldo della elaborazione della giurisprudenza costituzionale dopo l'entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988, secondo il quale occorre "contemperare il rispetto del principio dell'oralita' coll'esigenza di evitare la perdita, ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede". Del resto, diversamente opinando, si giungerebbe alle conclusioni difensive sopra disattese secondo cui l'oralita' si atteggerebbe a principio fine a se stesso, al quale verrebbe addirittura sacrificato lo scopo essenziale del processo penale, che consiste nella ricerca della verita' e nella pronuncia di una giusta decisione (cfr. Sent. n. 255/92 Corte cost.: "il sistema accusatorio positivamente instaurato ha prescelto la dialettica del contraddittorio dibattimentale quale criterio rispondente all'esigenza di ricerca della verita'; ma accanto al principio dell'oralita' e' presente, nel nuovo sistema processuale, il principio della non dispersione degli elementi di prova non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili con il metodo orale..."). Del resto lo stesso legislatore ha mostrato di pienamente condividere l'elementare principio della non dispersione dei mezzi di prova, posto a base delle molte sentenze della Corte costituzionale, quando ha integrato il codice di rito prevedendo e rendendo possibile la lettura di atti formati nelle indagini preliminari, allorche' per qualsivoglia ragione l'atto non fosse ripetibile in dibattimento (v. art. 512-bis c.p.p.). La nuova formulazione dell'art. 513, comma 2, c.p.p. che, come sopra evidenziato, pone uno sbarramento all'acquisizione di atti formati in fase di indagini preliminari e successivamente divenuti irripetibili, introduce una evidente eccezione ai principi enucleati dalla Corte e precedentemente fatti propri dal legislatore, ed impone pertanto un'attenta verifica della ratio e della logica che giustifichino la diversita' di trattamento rispetto alle ipotesi consimili. Sicuramente non si tratta della tutela del diritto di difesa del coindagato: l'acquisizione di quanto dallo stesso precedentemente dichiarato non contravviene infatti al principio del nemo tenetur se detegere, che esplica i suoi effetti nel momento dell'esercizio della libera scelta di parlare o tacere ma non si estende certo alla libera disponibilita' del materiale gia' fornito al procedimento: tanto che l'ultima parola in merito all'acquisizione delle dichiarazioni precedentemente rese non spetta al dichiarante bensi' alle parti del processo a cui egli e' estraneo. Del resto, nessuna conseguenza deriva al coindagato dall'utilizzazione delle sue dichiarazioni nei confronti di terzi, mentre invece nel processo che lo riguarda direttamente le stesse sono comunque pienamente utilizzabili proprio ai sensi dell'art. 513, comma 1, c.p.p.: disciplina che risulterebbe palesemente illogica se la ratio della norma in esame fosse la tutela del coindagato. Va altresi' esclusa, quale ratio della norma, la tutela del diritto di difesa dell'imputato. A tal proposito va osservato che nella maggior parte dei casi l'esame del coindagato e' richiesto come prova d'accusa, e che pertanto il meccanismo previsto dall'art. 513, comma 2, c.p.p., viene di fatto a "compensare" la mancata possibilita' di controesaminare il dichiarante, con cio' adombrando, limitatamente a tale ipotesi, l'imprescindibilita' della formazione contestuale della prova. Tale principio, tuttavia, come gia' evidenziato, non trova nessun diretto addentellato nella nostra Costituzione ed in particolare nell'art. 24 Cost., essendo invece espressione della preferenza accordata dal legislatore ordinario al rito accusatorio ed al connesso principio di oralita', intesi come strumento piu' idoneo al raggiungimento dell'unico fine del processo penale, che e' e rimane l'accertamento della verita'. La strumentalita' del principio dell'oralita' rispetto al fine della ricerca della verita', a cui e' intimamente connesso il principio della conservazione della prova, si appalesa del resto evidente in tutte quelle altre ipotesi in cui la necessita' di acquisire l'atto irripetibile sacrifica il controeame e rispetto alle quali la norma in oggetto, come gia' rilevato, si pone in netta antitesi logica. L'antitesi e' tanto piu' evidente considerando che lo stesso legislatore del nuovo art. 513 c.p.p., da una parte ha ribadito il principio della "conservazione della prova" prevedendo l'utilizzabilita' tout court delle dichiarazioni rese in fase di indagini preliminari dal coindagato nei casi di cui al comma 2, secondo alinea e dall'altra lo ha disatteso prevedendo la necessita' dell'accordo delle parti qualora il coindagato si presenti in udienza e rifiuti di rispondere: con cio' applicando discipline opposte pur in presenza di un unico dato di fatto (mancata realizzazione della formazione contestuale della prova). Ulteriore profilo di irragionevolezza si ravvisa nel raffronto con la disciplina prevista dagli artt. 512 e 512-bis, c.p.p., riguardanti le dichiarazioni del testimone, rispetto alle quali nessun diritto al controesame puo' essere invocato per impedirne l'acquisizione in caso di irripetibilita'. La diversita' di disciplina rispetto a quella prevista per il testimone non puo' del resto trovare alcuna plausibile giustificazione nella diversa posizione processuale del dichiarante ex art. 210 c.p.p., che si riverbera nel loro diverso grado di attendibilita': tale ultimo elemento attiene infatti al momento non dell'acquisizione, ma della valutazione della prova, ed e' gia' stato risolto dal legislatore con l'attribuzione di diversa pregnanza probatoria alle due dichiarazioni. La pur sommaria analisi sin qui condotta in ordine alla modifica dell'art. 513 c.p.p., se da un lato non consente di individuare una logica e ragionevole eccezione al principio costituzionale della conservazione della prova, dall'altro e contestualmente evidenzia e mette a nudo il vero principio introdotto dalla riforma: quello della disponibilita' della prova in capo ad una parte processuale. Tale potere dispositivo, tuttavia, non solo non trova alcun riferimento nella Carta costituzionale, ma anzi si pone in contrasto con i principi del giusto processo, dell'obbligatorieta' dell'azione penale e della conseguente indisponibilita' della res iudicanda sanciti dagli artt. 101 e 112, Cost. Invero la Consulta ha piu' volte avuto modo di precisare come il potere di decisione del giudice del merito della causa non possa essere vincolato dall'esercizio meramente discrezionale di un potere delle parti, ed alle scelte di carattere processuale, in ipotesi anche immotivate, di costoro. E' evidente, infatti, come il precetto di cui all'art. 101, comma 2, della Costituzione, precluda una esasperata ed estremistica applicazione del principio dispositivo nel processo penale, in ragione dell'indisponibilita' degli interessi pubblici e delle posizioni soggettive che di questo costituiscono l'oggetto: la disponibilita' della prova renderebbe infatti disponibile, indirettamente, la stessa res iudicanda. Come gia' osservato e chiaramente affermato nella nota sentenza (sempre appartenente al genus delle interpretative di rigetto: Corte cost. n. 111/1993) relativa alla definizione del potere istruttorio suppletivo riservato al giudice dibattimentale dall'art. 507 c.p.p., nel nuovo codice di rito "il metodo dialogico di formazione della prova e' stato, invero, prescelto come metodo di conosceza dei fatti ritenuto maggiormente idoneo al loro per quanto piu' possibile pieno accertamento, e non come strumento per far programmaticamente prevalere una verita' formale risultante dal mero confronto dialettico fra le parti sulla verita' reale: altrimenti, ne sarebbe risultata tradita la funzione conoscitiva del processo, che discende dal principio di legalita' e da quel suo particolare aspetto costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale". Se e' vero che un pieno ed arbitrario potere dispositivo della prova nel processo e' negato alle parti, a maggior ragione ingiustificabile appare l'attribuzione al coindagato (estraneo al processo) della possibilita', di fatto, di innescare o meno il presupposto per l'esercizio del potere dispositivo della parte, possibilita' che astrattamente potrebbe anche dipendere non dall'espressione di un diritto del coindagato, ma dal suo mero arbitrio. Il riconoscimento del potere dispositivo ad una parte processuale pone ulteriori dubbi di costituzionalita' sotto altri profili. Far dipendere l'acquisizione dell'atto irripetibile dal "consenso delle parti" pare infatti irrazionale nel caso in cui gli imputati siano piu' di uno. Se per "consenso delle parti" si intende infatti - come pare preferibile - accordo tra tutti i soggetti processuali, laddove vi fosse anche un unico dissenso all'acquisizione si potrebbe verificare una ingiustificata e grave lesione del diritto di difesa dell'imputato che abbia invece interesse all'acquisizione delle dichiarazioni del coindagato; se invece per "consenso delle parti" si fa riferimento solo all'accordo tra p.m. e singolo imputato (a prescindere dalle determinazioni degli altri) si verrebbe a legittimare l'emanazione di sentenze necessariamente ed intrinsecamente contraddittorie rispetto all'accertamento del fatto, che verrebbe a diversamente configurarsi a seconda delle diverse posizioni processuali esaminate. Di conseguenza il processo verrebbe di fatto a perseguire non piu' la funzione di accertamento della verita', ma quella di regolamentazione delle diverse verita' processuali, con le conseguenze piu' volte censurate dalla Corte costituzionale.
P. Q. M. Visti gli artt. 134 Cost., 23 e ss. legge 11 marzo 1953, n. 87; Ritenuta rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 24, 25, 101 e 112 Cost., la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513, comma 2, c.p.p., come modificato dall'art. 1, legge 7 agosto 1997, n. 267; Dispone la trasmissione degli atti del procedimento alla Corte costituzionale; Manda alla cancelleria per la notificazione della presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei Ministri nonche' per la comunicazione ai Presidenti delle Camere del Parlamento della Repubblica; Sospende il dibattimento fino all'esito del giudizio incidentale di legittimita' costituzionale. Verbania, addi' 28 marzo 1998 Il presidente: Laub I giudici: Calzolari - Cantarini 98C0708