N. 465 ORDINANZA (Atto di promovimento) 2 aprile 1998
N. 465 Ordinanza emessa il 2 aprile 1998 dal tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di Citaristi Severino ed altri Tributi in genere - Nuove tariffe d'estimo delle unita' immobiliari - Determinazione delle tariffe d'estimo in base alla rendita catastale stabilita in via provvisoria e da adeguarsi, a partire dal 1 gennaio 1995, con efficacia retroattiva rispetto ai versamenti di imposta gia' effettuati - Violazione, a causa del carattere provvisorio dell'imposizione, del principio della capacita' contributiva e conseguente discriminazione delle posizioni dei contribuenti a seconda che il tributo risulti assolto su una rendita successivamente confermata ovvero su una rendita successivamente ridotta (nel qual caso per la parte di tributo non dovuta al contribuente, spetta bensi' il diritto al rimborso, ma senza corresponsione di interessi) - Determinazione del tributo senza contraddittorio, in contrasto con principio essenziale del diritto di difesa. (D.-L. 23 gennaio 1993, n. 16, art. 2, comma 1, convertito, con modificazioni, in legge 24 marzo 1993, n. 75). (Cost., artt. 3, 24 e 53).(GU n.26 del 1-7-1998 )
IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale n. 2388/96 nei confronti di Citaristi Severino, Frigerio Gianstefano, Omati Giampietro, Polverari Gianluigi, Simone Antonio e Tagliavini Nino, imputati di reati di cui al decreto che dispone il giudizio sulla questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p., nella formulazione risultante dalle modifiche operate con l'art. 1, legge 7 agosto 1997, n. 267, per violazione degli artt. 3, 24, 25, 101, 111 e 112 della Costituzione, sollevata dal pubblico ministero all'udienza del 16 febbraio 1998. O s s e r v a Gli odierni imputati sono stati rinviati a giudizio, insieme a Colombo Antonio, Del Monte Vittorio, Imovilli Stefano e Papi Enzo, per rispondere del reato di corruzione in relazione alla gara d'appalto dei lavori di costruzione dell'ospedale di Lecco, nonche' di altri reati connessi. All'udienza dell'11 aprile 1997 gli imputati Colombo Antonio, Del Monte Vittono, Imovilli Stefano e Papi Enzo hanno fatto richiesta di applicazione della pena. Il p.m. ha espresso il consenso, il tribunale ha disposto la separazione delle posizioni relative agli imputati anzidetti con formazione di separato fascicolo e ha pronunziato sentenza ex art. 444, comma 2, c.p.p., nei confronti di costoro. Il processo e', quindi, proseguito nei confronti di tutti gli altri imputati, che non hanno patteggiato. Dopo il rigetto dell'eccezione di nullita' del decreto, che dispone il giudizio, l'ammissione delle prove orali e documetali richieste dalle parti e l'assunzione di un teste all'udienza del 16 febbraio 1998, gli imputati in procedimento connesso che avevano patteggiato la pena, Colombo Antonio, Del Monte Vittorio, Imovilli Stefano e Papi Enzo, dei quali il tribunale ha ammesso l'esame, si sono avvalsi della facolta' di non rispondere. Il p.m. ha, quindi, chiesto l'acquisizione delle dichiarazioni dagli stessi rese nel corso delle indagini preliminari. Poiche' i difensori degli imputati non hanno prestato il loro consenso a tale acquisizione, il pubblico ministero ha chiesto al tribunale di dichiarare non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p. Sulla rilevanza Tenuto conto della indicazione delle fonti di prova contenuta nel decreto che dispone il giudizio, dei dati rappresentati dal pubblico ministero nel corso della relazione introduttiva nonche' delle richieste di prova dallo stesso formulate ai sensi dell'art. 493 c.p.p. (e accolte dal tribunale con l'ordinanza ex art. 495 c.p.p.) appare evidente la rilevanza della dedotta questione di legittimita' costituzionale nei limiti in cui viene riferita alla nuova formulazione del comma 2, dell'art. 513, c.p.p., trattandosi di processo nel quale l'impianto accusatorio poggia in larga parte sulle dichiarazioni di soggetti che si trovano nelle condizioni descritte dall'art. 210 c.p.p. Tali dichiarazioni, in applicazione della impugnata norma, non possono trovare ingresso nel dibattimento, stante l'esercizio, da parte dei dichiaranti, della facolta' di non rispondere, e l'assenza dell'accordo delle parti in ordine alla acquisizione dei verbali delle dichiarazioni rese dai medesimi nel corso delle indagini preliminari. Sulla non infondatezza E' avviso del collegio che la norma impugnata abbia sostanzialmente ripristinato quel vizio di manifesta irragionevolezza cui la stessa Corte costituzionale aveva posto rimedio con la sentenza n. 254 del 1992, attraverso la quale era stata dichiarata la illegittimita' costituzionale dell'art. 513, comma 2, c.p.p. nella formulazione in allora vigente "nella parte in cui non prevede che il giudice, sentite le parti, - dispone la lettura dei verbali delle dichiarazioni... rese dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p., qualora queste si avvalgano della facolta' di non rispondere". In quella occasione, la Corte osservo' che il principio guida dell'oralita' deve essere contemperato con l'esigenza di evitare la perdita ai fini della decisione di quanto acquisito prima del dibattimento e che in tale sede sia irripetibile, rimarcando che in tale categoria gia' la legge delega ricomprendeva anche l'indisponibilita' dell'imputato all'esame. E proseguendo nella strada di indicare principi costituzionali certi in materia di acquisizione e di utilizzabilita' della prova, la Corte, con una successiva sentenza (n. 255/92) ha attribuito esplicitamente rllievo costituzionale al "principio di conservazione della prova", osservando che "... il sistema accusatorio positivamente instaurato ha prescelto la dialettica del contraddittotto dibattimentale quale criterio rispondente all'esigenza di ricerca della verita'; ma accanto al principio della oralita' e' presente, nel nuovo sistema processuale, il principio della non dispersione degli elementi di prova non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili con il metodo orale ...". Ancora piu' di recente, avendo sempre presente il principio secondo il quale fine centrale del processo e' la ricerca della verita', la Corte con la sentenza n. 179 del 1994, relativamente alla ipotesi, invero in tutto e per tutto analoga a quella che ci occupa, dell'esercizio della facolta' di astenersi dal deporre, riservata dall'art. 199 c.p.p. ai prossimi congiunti dell'imputato, ha confermato il proprio orientamento. Muovendo da una fattispecie concreta in relazione alla quale il giudice a quo aveva sollevato la questione di costituzionalita' reputando non applicabile la disciplina prevista dall'art. 512 c.p.p. nel caso di prossimo congiunto che, dopo avere reso dichiarazioni in sede di indagini preliminari, si avvalga della citata facolta' solo in sede dibattimentale, la Corte ha dichiarato la questione non fondata, ricorrendo ad una pronuncia c.d. "interpretativa di rigetto" che ha concluso nel senso che la testimonianza cosi' acquisita e' legittimamente, e soprattutto, stabilmente acquisita "ed e' certamente fuor di dubbio che l'acquisizione della prova testimoniale legittimamente assunta non puo' essere condizionata dall'eventualita' di una successiva invalidazione da parte del teste, nel caso di un suo tardivo esercizio della facolta' di astensione: non esiste nell'ordinamento alcuna disposizione che autorizzi un'interpretazione del genere". Nell'impostazione del giudice delle leggi, dunque, in casi consimili, e sebbene in presenza dell'esercizio di un diritto, si determina una "oggettiva e non prevedibile" impossibilita' di ripetizione dell'atto dichiarativo. La conclusione cui la citata sentenza perviene (ossia la lettura, ex art. 512 c.p.p., delle dichiarazioni in precedenza rese) si pone in linea con quello che deve essere senz'altro definito caposaldo della elaborazione della giurisprudenza costituzionale dopo l'entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988, secondo il quale occorre "contemperare il rispetto del principio dell'oralita' con l'esigenza dl evitare la perdita, ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede". Del resto, diversamente opinando, l'oralita' si atteggerebbe a principio fine a se stesso, al quale verrebbe sacrificato lo scopo essenziale del processo penale, che - come il Collegio non reputa possa revocarsi in dubbio - consiste nella ricerca della verita' e nella pronuncia di una giusta decisione. Per un elementare principio di civilta' giuridica, affermato dalla Corte costituzionale e divenuto patrimonio comune, l'impossibilita' di consentire la dispersione della prova ha imposto al legislatore di prevedere e rendere possibile la lettura di atti formati nelle indagini preliminari, allorche' per qualsivoglia ragione (che puo' consistere anche nel puro arbitrio del soggetto) l'atto non sia ripetibile in dibattimento. E cosi', di fronte al testimone che opponga un irremovibile rifiuto di testimoniare, nell'alternativa tra il disperdere la prova e non fare giustizia (id est: ricercare la verita' e pervenire a una sentenza giusta) e valorizzare invece gli atti formati anteriormente, il legislatore ha operato questa seconda scelta, consentendo la lettura e quindi l'utilizzazione delle dichiarazioni rese. Orbene, anche nel caso delle persone indicate nell'art. 210 c.p.p. si e' in presenza di soggetti che nella fase delle indagini preliminari non si sono avvalse della facolta' di non rispondere e che hanno esercitato tale diritto in dibattimento rendendo l'atto "oggettivamente e imprevedibilmente" irripetibile. La ragione ideologica allegata a giustificazione della espunzione, dal novero degli atti utilizzabili in giudizio, del materiale probatorio dichiarativo proveniente dall'imputato nel medesimo procedimento ovvero in procedimento connesso, una volta che questi si sia avvalso della facolta' di non rispondere o che, piu' semplicemente, non abbia inteso presenziare al processo a suo carico, e' individuata nella necessita' di garantire il principio fondamentale della raccolta della prova nel contraddittorio delle parti: pertanto, laddove cio' non sia possibile si procede drasticamente alla neutralizzazione, mediante la sanzione di inutilizzabilita', del materiale probatorio raccolto unilateralmente. In realta', neppure con la nuova disciplina dell'art. 513 c.p.p. si e' adottata un sistema processuale di tipo puramente accusatorio, perche' continua a rimanere vigente la disciplina della acquisizione delle dichiarazioni testimoniali rese nella fase delle indagini preliminari mediante l'impiego nei confronti del teste reticente o che semplicemente rende dichiarazioni difformi del meccanismo processuale della contestazione previsto dall'art. 500 c.p.p. Anzi la dichiarazione di natura testimoniale che viene acquisita al fascicolo del dibattimento ed utilizzata quale prova nelle forme stabilite dai commi 4 e 5, dell'art. 500, c.p.p. e' stata resa in forma ancora piu' "inquisitoria", rispetto alla dichiarazione dell'imputato; per quest'ultima infatti una osservanza minimale delle forme "accusatorie" e' assicurata dalla presenza del difensore al compimento dell'atto, indispensabile per l'interrogatorio di polizia (art. 350, comma 3, c.p.p.) e per l'interrogatorio di convalida del g.i.p. (art. 391), facoltativa per l'interrogatorio del p.m. (art. 364) e per l'interrogatorio "di garanzia" del g.i.p. ex art. 294 c.p.p.; al contrario, le dichiarazioni rese dalle persone informate sui fatti alla polizia giudiziaria e al p.m. sono raccolte in forma rigorosamente inquisitoria e, tuttavia, sono pienamente utilizzabili in dibattimento, vuoi nella forma della acquisizione per contestazione ex art. 500, comma 24-bis, c.p.p., in caso di teste presente ma renitente o reticente, vuoi nella forma della acquisizione integrale del verbale delle dichiarazioni rese nelle indagini preliminari ex art. 512 c.p.p., in caso di impossibilita' sopravvenuta per irreperibilita' del teste. Sarebbe stato molto piu' coerente con il proclamato intendimento di garantire il contraddittorio, la previsione dell'obbligo giuridico di sottoporsi ad esame a carico dell'imputato che, nella fase delle indagini preliminari, abbia liberamente rinunziato alla facolta' di non rispondere, scegliendo di rendere dichiarazioni confessorie e di effettuare chiamate in correita'. Solo in tal modo il principio del contraddittorio nella formazione della prova al dibattimento avrebbe trovato piena attuazione e si sarebbe evitata quell'assoluta irragionevolezza nella disparita' di trattamento tra le dichiarazioni rese dall'imputato di reato connesso nella fase delle indagini preliminari, le quali possono essere utilizzate tout court, qualora non sia possibile ottenere la presenza in dibattimento o non sia possibile escuterlo a domicilio o con altra specifica modalita' (art. 513, comma 2, prima parte), e viceversa possono essere utilizzate, solo con l'accordo delle parti, qualora l'imputato connesso, presentatosi all'udienza, si rifiuti di rispondere (art. 513, comma 2, seconda parte). Le due ipotesi disciplinate dal legislatore del 1997 in realta' non meritano una diversa disciplina, poiche' in entrambi i casi l'atto e' irripetibile oggettivamente e imprevedibilmente e tanto basta perche', in armonia ai principi costituzionali fissati in materia dalla Corte (sent. 254/92; 255/92; 179/94), il giudice se ne possa avvalere liberamente, al fine di adempiere il precetto costituzionale racchiuso all'art. 101, comma 2, della Costituzione pervenendo a una sentenza giusta. La norma impugnata appare altresi' in evidente contrasto con il disposto dell'art. 101, comma secondo, e 112 della Costituzione: nella giurisprudenza costituzionale ormai consolidata, infatti, i due canoni finiscono per confondersi l'uno nell'altro, laddove portano ad affermare l'inesistenza di un pieno potere dispositivo delle parti in ordine alla prova. Invero, la Consulta ha piu' volte avuto modo di precisare come il potere di decisione del giudice del merito della causa non possa essere vincolato dall'esercizio meramente discrezionale di un potere delle parti e dalle scelte di carattere processuale, in ipotesi anche immotivate, di costoro. E' evidente, infatti, come il precetto di cui all'art. 101, comma 2, della Costituzione precluda una esasperata ed estremistica applicazione del principio dispositivo del processo penale, in ragione della indisponibilita' degli interessi pubblici e delle posizioni soggettive che di questo costituiscono l'oggetto; la disponibilita' della prova renderebbe disponibile, indirettamente, la stessa res iudicanda. Come chiaramente affermato nella nota sentenza (sempre appartenente al genus delle interpretative di rigetto: Corte costituzionale n. 111/1993) relativa alla definizione del potere istruttorio suppletivo riservato al giudice dibattimentale dall'art. 507 c.p.p., nel nuovo codice di rito "il metodo dialogico di formazione della prova e' stato, invero, prescelto come metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente idoneo al loro per quanto piu' possibile pieno accertamento, e non come strumento per far programmaticamente prevalere una verita' formale risultante dal mero confronto dialettico tra le parti sulla verita' reale: ne sarebbe risultata tradita la funzione conoscitiva del processo, che discende dal principio di legalita' e da quel suo particolare aspetto costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale". Se e' vero che un potere dispositivo della prova nel processo e' negato alle parti, a maggior ragione cio' deve valere per chi, come le persone di cui all'art. 210 c.p.p., e' per definizione estraneo al processo nell'ambito del quale sia chiamato a rendere dichiarazioni. La norma impugnata, al contrario, consente di sottarre una prova al vaglio dibattimentale, a seguito di un atto meramente discrezionale - e dunque potenzialmente immotivato e capriccioso - compiuto da un soggetto che neppure riveste la qualita' di parte del procedimento, come avviene nel caso in cui la persona esaminata ex art. 210 c.p.p. si avvalga della facolta' di non rispondere. A cio' il legislatore del 1997 ha ritenuto di dover aggiungere un ulteriore sbarramento all'ingresso della fonte di prova, riservando (nel caso in cui il dichiarante, in sede dibattimetale, si sia avvalso della facolta' di non rispondere) la possibilita' di acquisire le precedenti dichiarazioni all'accordo (rectius, al gradimento) delle parti. A tal proposito non sembra superfluo sottolineare che il potere concesso alle parti e' cosi' ampio - si parla infatti di accordo "delle parti" e non gia' delle parti "interessate" - che ciascuna puo' opporsi all'utilizzo di prove irrilevanti rispetto alla sua posizione - ma rilevanti rispetto a posizioni diverse - senz'altro scopo che il porre un impedimento al regolare esercizio della giurisdizione. Ma la situazione si aggrava proprio quando la parte - in particolare l'imputato - si oppone alla lettura di dichiarazioni irripetibili rese direttamente a suo carico. In tal caso infatti - posto che tali dichiarazioni non sono considerate ontologicamente inaffidabili dal legislatore che, altrimenti, non ne avrebbe consentito la documentazione e l'utilizzo nella fase di indagini preliminari e addirittura a fini cautelari - il meccanismo normativo risulta semplicemente paradossale. I veti incrociati di soggetti privati - quali sono gli imputati e gli imputati in procedimento connesso - possono precludere l'esercizio stesso della giurisdizione e prima ancora quello dell'azione penale: ora considerato che i soggetti predetti agiscono, chiaramente, per far valere interessi privati e sinanco meramente egoistici, l'ostacolo frapposto all'esercizio della giurisdizione non puo' non essere ritenuto irrazionale. La scelta del legislatore, alla stregua della norma della cui legittimita' in questa sede il collegio dubita, condiziona l'esercizio della giurisdizione, incidendo in misura determinante sulla liberta' del giudice, nel significato che tale concetto ha assunto nella giurisprudenza costituzionale. Conseguenze che non vengono scongiurate dalla previsione del meccanismo dell'incidente probatorio - benche', in virtu' del disposto dell'art. 4, legge 267/1997, lo stesso sia esperibile indipendentemente dalla sussistenza dei requisiti previsti in via generale, dall'art. 392 c.p.p. - poiche' in tale sede resta comunque ferma la facolta' di non rendere dichiarazioni: e' evidente, percio', come l'adozione di tale meccanismo, lungi dal poter essere considerata alla stregua di "valvola di sicurezza" del sistema, si riduca alla mera anticipazione dei tempi di assunzione di quella prova, senza tuttavia garantirne l'effettiva acquisizione al processo. In conclusione, l'avere riservato alla insindacabile scelta del soggetto di rendere o meno dichiarazioni e alla volonta' delle parti processuali di consentire alla lettura di dichiarazioni in precedenza rese ha finito per rimettere nella totale disponibilita' delle parti l'ingresso di una prova nel dibattimento e, in definitiva, a condizionare l'esercizio stesso dell'azione penale. Che e' quanto accaduto nell'odierna udienza quando tutti i difensori, preso atto del rifiuto dei dichiaranti di sottoporsi all'esame, non hanno consentito alla lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni gia' rese. Si puo' dunque concludere, con le parole della stessa Corte costituzionale, che "ad un ordinamento costituzionale che sancisce il principio di obbligatorieta' dell'azione penale, ma e' prima di tutto improntato alla tutela dei diritti inviolabili dell'uomo ed al principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione" (cfr. Corte costituzionale n. 241/1994; nello stesso senso, gia' Corte costituzionale n. 111/1993).
P. Q. M. Visti gli artt. 134 della Costituzione, 23 e segg., legge 11 marzo 1953, n. 87; Ritenuta rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 25, 101, comma secondo, 112 della Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513, comma 2, c.p.p., come modificato dall'art. 1, legge 7 agosto 1997, n. 267; Dispone la trasmissione degli atti del procedimento alla Corte costituzionale; Manda alla cancelleria per la notificazione della presente ordinanza agli imputati contumaci, al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonche' per la comunicazione ai Presidenti delle Camere del Parlamento della Repubblica. Sospende il dibattimento fino all'esito del giudizio incidentale di legittimita' costituzionale. Milano, addi' 2 aprile 1998 Il presidente: Castellano 98C0710