N. 552 ORDINANZA (Atto di promovimento) 7 maggio 1998
N. 552 Ordinanza emessa il 7 maggio 1998 dal tribunale di Udine atti relativi a Zerbin Marco ed altre Stato civile - Obbligo di dichiarazione di nascita all'ufficiale di stato civile nei dieci giorni successivi a detto evento - Inottemperanza - Sanzione pecuniaria - Lamentata attribuzione di' competenza al tribunale civile per l'applicazione di tale sanzione per una infrazione asseritamente avente natura di illecito amministrativo - Disparita' di trattamento rispetto alla prevista competenza della p.a. per l'applicazione di sanzioni per comportamenti di pari o maggiore gravita' - Violazione del principio di buon andamento della p.a. (R.D. 9 luglio 1939, n. 1238, artt. 196, commi secondo e terzo,198, 199, 200, 201, 202 e 203). (Cost., artt. 3 e 97).(GU n.34 del 26-8-1998 )
IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza a scioglimento della riserva formulata all'udienza del 27 febbraio 1998, nella quale si trattava la causa n. 5/97 reg. s.c., promossa, ex art. 196 del r.d. n. 1238 del 1939, dal pubblico ministero presso questo tribunale; Contro Zerbin Marco, residente in Aquileia (Udine), via Di Vittorio, 14; Da Canal Meri, residente nello stesso luogo; Tomasin Tadiana, domiciliata presso l'ospedale civile di Palmanova (Udine), difesa dall'avv. Caruso del Foro di Udine; incolpati dell'infrazione di cui all'art. 67 del r.d. n. 1238 del 1939, per non aver denunciato entro il termine di legge, all'ufficiale di stato civile competente, la nascita di un bambino. O s s e r v a I predetti signori sono ritenuti responsabili dell'infrazione prevista dall'art. 67 del r.d. n. 1238 del 1939, in quanto (i primi due quali genitori naturali e la terza quale ostetrica che ha assistito al parto), pur essendovi tenuti "indistintamente" (art. 70 del r.d. citato, modificato dall'art. 2, comma 1, della legge n. 127/1997), non avrebbero denunciato entro il termine prescritto dalla legge la nascita del piccolo Alberto. Il p.m., su rapporto fattone dall'ufficiale di stato civile, promuoveva l'azione punitiva ex art. 196, comma 2, del r.d. n. 1238 del 1939, spettando la competenza per l'irrogazione della sanzione al tribunale civile. All'esito dell'udienza in camera di consiglio, sentiti personalmente gli incolpati ed il p.m., questo Tribunale si riservava ogni decisione. Il collegio, nell'accingersi alla soluzione della questione, melius re perpensa, ritiene necessario sollevare d'ufficio questione di legittimita' costituzionale delle seguenti norme del r.d. n. 1238 del 1939, che devono essere applicate nel corso della presente procedura: articoli 196, commi 2 e 3; 198; 199; 200; 201; 202; 203. In primo luogo deve essere chiarito che la presente questione di costituzionalita' e' effettivamente sollevata nel corso di un giudizio vero e proprio. Le norme, della cui legittimita' costituzionale si dubita, attribuiscono infatti al tribunale ordinario il compito di conoscere e punire le infrazioni alle norme sull'ordinamento dello stato civile, condannando i trasgressori al pagamento di somme di danaro a favore dello Stato. Trattasi quindi di materia su cui esiste giurisdizione piena in capo all'autorita' giudiziaria ordinaria, che procede, su iniziativa del p.m., nelle forme del rito in camera di consiglio, e che decide sull'azione punitiva con sentenza, ovvero col tipico provvedimento giurisdizionale. Sulla sussistenza, nella fattispecie, di un giudizio pendente davanti ad una autorita' giudiziaria non sono consentiti dubbi. Come gia' riferito, questo collegio ritiene non manifestamente infondata la questione circa la legittimita' costituzionale delle norme sopra indicate. Cio', innanzitutto, per violazione dell'art. 3 della Costituzione. La giurisprudenza costituzionale ha ormai chiarito come l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge debba essere intesa come inammissibilita' di trattamenti difformi per situazioni concrete simili tra loro e, per converso, possibilita' ed, anzi, necessita' di discipline difformi per casi tra loro diversi. Con il che si afferma la necessita' che il principio di ragionevolezza presieda all'attivita' di tutti i poteri dello Stato, ivi compreso il legislativo, il quale pertanto puo' introdurre differenze di trattamento giuridico tra i soggetti dell'ordinamento, ma solamente esistendo validi motivi giustificativi. La normativa impugnata, invece, appare carente sotto questo profilo. Essa attribuisce giurisdizione al tribunale ordinario per punire infrazioni pacificamente considerate come illeciti amministrativi, aventi come conseguenza sanzionatoria il solo obbligo di pagamento di una somma di denaro (peraltro assai modesta) in favore dello Stato. Giova ricordare che, nell'ambito dell'illecito amministrativo, e' intervenuta la legge n. 689/1981, che si occupa esplicitamente della disciplina generale dell'istituto, ivi comprese le modalita' di accertamento e repressione, e che ne attribuisce normalmente la competenza agli organi della p.a., con la sola eccezione dei casi in cui l'illecito si trovi in connessione oggettiva con fatto di reato. La considerazione che precede induce il dubbio che l'attribuzione all'A.G.O. della competenza a reprimere le infrazioni di cui e' causa confligga con quel principio di ragionevolezza sopra richiamato. Non si vede infatti quale stringente ragione imponga di attivare necessariamente un organo giurisdizionale per la punizione di infrazioni che, pure sanzionate per superiori esigenze di interesse pubblico (quale quello alla corretta e pronta rilevazione dello stato civile della popolazione), in realta' rivestono una limitata rilevanza e sono foriere di scarso allarme sociale. Per di piu', nulla differenzia dette infrazioni da quelle normalmente accertate e punite dagli organi della p.a., che, anzi, spesso sono chiamati a sanzionare comportamenti ben piu' gravi di quello oggi considerato. Si pensi alle competenze sanzionatorie della p.a. in materia di trattamento dei rifiuti, di protezione ambientale, di tutela delle acque e dei suoli, di circolazione stradale, di pubblica sicurezza. Per quanto sopra esposto pare difficile reperire la razionalita' della deroga imposta, dalle norme impugnate, ai principi informatori della disciplina dell'accertamento e della repressione degli illeciti amministrativi, normalmente di competenza di organi della p.a. A questa considerazione si potrebbe opporre che, lungi dall'essere discriminatorie, le norme impugnate appaiono molto garantiste nei confronti degli incolpati, i quali sono giudicati con le garanzie e le forme tipiche della giurisdizione. Viceversa, si deve rispondere che, se solo si valutasse come avviene in concreto l'applicazione delle norme de quibus, apparirebbe evidente, per i soggetti incolpati, la particolare vessatorieta' del procedimento sanzionatorio attivato. Si immagini con quale stato d'animo un privato vive una formale intimazione a comparire dinanzi al tribunale, per difendersi dall'accusa di aver commesso un'infrazione individuata con oscuri richiami ad un regio decreto, rivoltagli dal Presidente in persona, e, per giunta, con l'avvertimento che, nell'occasione, egli potra' farsi assistere da un avvocato di sua fiducia. Il procedimento cosi' delineato richiama alla mente il modus procedendi di un'autorita' giudiziaria penale, e, sotto questo profilo, esso e' sicuramente idoneo a garantire la terzieta' e l'indipendenza del giudicante. Tuttavia, esso e' anche irrazionale e discriminatorio rispetto alla condizione giuridica di coloro che sono incolpati di aver commesso altre violazioni di legge, punite con sanzione amministrativa ma rimesse alla potesta' punitiva della p.a. Se non altro, questi ultimi soggetti, quando ricevono formale notificazione dell'accertamento di infrazione, non sono indotti a gravarsi necessariamente delle spese di assistenza tecnica nel procedimento. Il tutto nonostane siano chiamati a rispondere delle mancanze (anche gravi) dinanzi ad una semplice autorita' amministrativa, non imparziale, che procede in modo da garantire l'audizione degli interessati solo eventualmente (art. 18 legge n. 689/1981). Non si comprende, insomma, quale sia la ratio sottesa al differente trattamento cui soggiacciono i privati nelle diverse fattispecie indicate. Ma le disposizioni de quibus paiono anche contrastare con la necessita' che le leggi assicurino il buon andamento della p.a. (art. 97 Cost.). Detto canone costituzionale consiste (secondo le norme introdotte dal legislatore ordinario, nonche' secondo la giurisprudenza amministrativa) nella necessita' di organizzare l'attivita' pubblica in modo efficiente ed economico, compatibilmente con la natura degli interessi regolati (art. 1, legge n. 241/1990); nell'obbligo per il legislatore e per i titolari di potere regolamentare di non introdurre procedimenti amministrativi inutili rispetto alla funzione prevista dalla Costituzione e' dalla legge attribuitiva di competenza; nell'obbligo per la p.a. di non aggravare detti procedimenti senza motivo. Nel caso concreto non pare sia rispettata la prescrizione costituzionale: l'A.G.O., infatti, viene attivata dall'ufficiale di stato civile (organo amministrativo), che deve obbligatoriamente fare rapporto al p.m. in ogni caso di dichiarazioni tardive di nascita; questi, a sua volta, deve promuovere l'azione punitiva ed attivare il tribunale civile; quest'ultimo, poi, svolge un'attivita' sostanzialmente amministrativa (accertamento e repressione di illeciti amministrativi) con le forme del procedimento giurisdizionale in camera di consiglio. Il cerchio si chiude, infine, mediante il provvedimento (sentenza di rettificazione) con cui si attribuisce efficacia all'atto di nascita', tardivamente formato, e solo dopo il quale l'ufficiale di stato civile puo' validamente rilasciare estratti e certificati. L'accavallarsi di funzioni e competenze eterogenee in capo al tribunale fa si' che non si possa considerare rispettato, nella fattispecie, la prescrizione costituzionale circa il buon andamento dei pubblici uffici. Infine, la questione riguardante la rilevanza del dubbio di costituzionalita' sollevato dal collegio. Effettivamente le norme denunciate costituiscono il presupposto del potere-dovere del giudice di decidere la causa, o meglio rappresentato il meccanismo effettivo grazie al quale l'ordinamento attribuisce giurisdizione al tribunale nel caso concreto. Percio' questo giudizio non puo' essere definito indipendentemente dalla risoluzione della qui sollevata questione di legittimita' costituzionale. Ma c'e' di piu': qualora la questione di costituzionalita' fosse ritenuta fondata, l'intero procedimento fin quei svoltosi verrebbe meno, poiche' l'autorita' giudiziaria adita non avrebbe piu' giurisdizione in questa materia, la quale rientrerebbe nell'ambito dei poteri della p.a. Pertanto, risulta assolutamente inscindibile il nesso fra la decisione della causa a quo e la risoluzione del dubbio di legittimita' costituzionale sopra evidenziato.
P. Q. M. Visto l'art. 23, comma 3, della legge n. 87/1953; Ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, solleva d'ufficio questione di legittimita' costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, delle seguenti norme del r.d. n. 1238 del 1939: articoli 196, commi 2 e 3; 198; 199; 200; 201; 202; 203; Sospende il giudizio in corso; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina alla cancelleria di notificare la presente ordinanza alle parti in causa, al p.m., al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonche' ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Cosi' deciso in Udine, il 7 maggio 1998. Il presidente: Cola 98C0862