N. 341 SENTENZA 14 - 24 luglio 1998

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Giudizio  di  legittimita'  costituzionale   in   via   incidentale.
 Processo  civile  -  Nullita'  della  sentenza  di  primo  grado  per
 pretermissione di litis consorti necessari - Esclusione  dell'obbligo
 di  astensione  del giudice che abbia conosciuto della causa in altra
 fase dello stesso processo - Riferimento alla sentenza della Corte n.
 326 del 1997 - Coerenza della scelta legislativa nel caso  di  rinvio
 cosiddetto restitutorio (o improprio) - Non fondatezza.
 
 (C.P.C., art. 51, n. 4).
 
 (Cost., artt. 3 e 24).
 
(GU n.35 del 2-9-1998 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
  Presidente: prof. Giuliano VASSALLI;
  Giudici: prof.  Francesco  GUIZZI,  prof.  Cesare  MIRABELLI,  prof.
 Fernando  SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott.
 Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo  ZAGREBELSKY,  prof.  Valerio  ONIDA,
 prof.  Carlo  MEZZANOTTE,  avv.  Fernanda  CONTRI,  prof. Guido NEPPI
 MODONA, prof.  Piero Alberto CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
 ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 51,  numero  4,
 codice di procedura civile, promosso con ordinanza emessa il 2 luglio
 1997  dal  Tribunale  di Taranto nel procedimento civile vertente tra
 Porfido Vita e Moschetti Girolama ed altri, iscritta al  n.  808  del
 registro  ordinanze  1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
 Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 1997.
   Visti l'atto di costituzione di Moschetti Girolama, nonche'  l'atto
 di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
   Udito  nell'udienza pubblica del 30 giugno 1998 il giudice relatore
 Cesare Ruperto;
   Uditi l'avv. Attilio Sebastio per Moschetti Girolama  e  l'Avvocato
 dello  Stato  Luigi  Mazzella  per  il  Presidente  del Consiglio dei
 Ministri.
                           Ritenuto in fatto
   1. - In sede di riassunzione  di  un  giudizio  civile  davanti  al
 Tribunale  di  Taranto,  a  seguito  di dichiarazione, da parte della
 competente Corte d'appello, della nullita' della  sentenza  di  primo
 grado  per pretermissione di litisconsorti necessari, detto Tribunale
 - rilevato che la causa era stata assegnata alla  stessa  sezione  ed
 allo  stesso  estensore  dell'impugnata  sentenza,  e che erano state
 rigettate sia l'istanza di ricusazione proposta  dalla  difesa  della
 parte  gia'  dichiarata soccombente, sia l'istanza di astensione "per
 gravi  ragioni  di  convenienza"  avanzata  dall'istruttore  -,   con
 ordinanza  emessa  il 2 luglio 1997 ha sollevato, in riferimento agli
 artt.  3  e  24  della  Costituzione,   questione   di   legittimita'
 costituzionale  dell'art. 51, numero 4, cod. proc. civ., "nella parte
 in cui limita l'obbligo di  astenersi  (e  quindi  la  proponibilita'
 della  ricusazione,  ai sensi del successivo art. 52 cod. proc. civ.)
 al caso in cui il magistrato abbia  conosciuto  la  causa  "in  altro
 grado  del  processo",  con  preclusione  della  sua  efficacia nella
 diversa ipotesi di pregressa conoscenza da parte dello stesso giudice
 in "altra fase del processo"".
   Secondo  il  rimettente,  la  denunciata  norma  pone   in   essere
 un'irragionevole  disparita'  di trattamento rispetto alle ipotesi di
 cui all'art. 383, primo  comma,  cod.  proc.  civ.  (che  prevede  il
 rinvio,  dopo la cassazione, ad altro giudice di pari grado) e di cui
 allo stesso art. 51, numero 4, cod. proc. civ.  (che  fa  obbligo  di
 astenersi   al   magistrato  che  abbia  dato  consiglio  o  prestato
 patrocinio  nella  causa,  o  deposto  come  testimone  o  ne   abbia
 conosciuto come magistrato in altro grado del processo): ipotesi alle
 quali e' sottesa l'identica esigenza di precludere al giudice, che si
 sia  gia'  pronunciato  sul  merito  della controversia, di conoscere
 nuovamente  la  stessa  causa,  rinnovando  logicamente   la   stessa
 pronuncia.
   Il  rimettente  osserva  in proposito che, se costituisce avvertita
 necessita' del legislatore di non coinvolgere piu' volte  il  giudice
 nella  valutazione della medesima causa, e' evidente che tale bisogno
 ricorre anche allorche' il giudizio  o  la  valutazione  siano  stati
 espressi in altra fase del medesimo processo.
   Ritiene,  inoltre, che l'esclusione dell'obbligo di astensione, nel
 caso di pregressa cognizione della causa in altra fase, determina una
 lesione del diritto di difesa della parte,  atteso  che  -  incidendo
 sulla  stessa imparzialita' e terzieta' del giudice, in ragione della
 cosiddetta   forza   di   "prevenzione"   (definita    dalla    Corte
 costituzionale,  nella  sentenza  n.  432  del  1995, quale "naturale
 tendenza a mantenere un giudizio gia' espresso  od  un  atteggiamento
 gia' assunto in altri momenti decisionali dello stesso procedimento")
 -  potrebbero  rivelarsi  in  concreto  ininfluenti  nuovi  argomenti
 difensivi e  nuovi  mezzi  di  prova  a  fronte  di  un  orientamento
 decisionale del giudice, ormai
  determinato.
   2.  -  Nel  presente  giudizio  e'  intervenuto  il  Presidente del
 Consiglio  dei  Ministri,  rappresentato  e  difeso   dall'Avvocatura
 generale  dello  Stato, concludendo per l'inammissibilita' ovvero per
 l'infondatezza delle sollevate  questioni.
   Rileva l'Avvocatura che, dalle sentenze rese dalla Corte in tema di
 incompatibilita' nel processo penale, sarebbero estrapolabili  questi
 principi  guida:  1)  la  necessita' di evitare che condizionamenti o
 apparenze di condizionamenti derivanti da  precedenti  valutazioni  -
 compiute   nell'a'mbito   del   medesimo   procedimento   -   possano
 pregiudicare o far apparire pregiudicato il giudizio; 2) la peculiare
 rilevanza da darsi all'intervenuta valutazione  degli  atti  ai  fini
 della  decisione,  la  quale:  a)  deve  ricadere  sulla medesima res
 judicanda; b) non deve essere formale ma di contenuto; c)  dev'essere
 espressa in una fase diversa del processo.
   3.  -  Si  e'  costituita  anche  la  parte  privata, convenuta nel
 giudizio a quo, concludendo in via principale per  il  rigetto  della
 sollevata questione.
   Essa  osserva che la denunciata norma, parlando solo di un grado di
 processo che sia nuovo rispetto a  quello  celebrato  -  non  essendo
 possibile   ermeneuticamente  che  con  la  locuzione  "altro  grado"
 s'intenda esclusivamente "grado di impugnazione"  -  gia'  impone  al
 giudice  che  abbia  giudicato  (e  perfino al giudice che abbia solo
 "conosciuto" contenutisticamente della questione)  di  astenersi  dal
 conoscerne ancora, indipendentemente dalla "numerazione" del grado di
 processo  nel  quale  la  conoscenza della questione sia intervenuta,
 purche' si tratti, in effetti, di un grado di processo  celebrato  in
 precedenza e conclusosi con sentenza.
   Secondo la parte, dunque, la ratio sistematica sottesa alla norma -
 che   trova   particolari   applicazioni  anche  negli  artt.  383  e
 669-terdecies cod. proc. civ. - e' quella di escludere che un giudice
 possa essere due volte giudice nella medesima  causa,  non  assumendo
 importanza dirimente la successione dei gradi di impugnazione, bensi'
 l'alterita'  del grado del processo che si celebra, rispetto a quelli
 gia' celebrati.
   Subordinatamente,    qualora    non    potesse    seguirsi     tale
 interpretazione,   la  deducente  conclude  per  la  declaratoria  di
 illegittimita'  costituzionale  della  norma  censurata,   la   quale
 verrebbe in contrasto, innanzitutto, con il principio di uguaglianza,
 per  disparita'  di  trattamento  -  oltre che rispetto alle analoghe
 situazioni disciplinate dai richiamati artt. 383 e 669-terdecies cod.
 proc. civ. - nel suo stesso a'mbito applicativo, poiche',  mentre  ai
 cittadini la cui causa sia stata decisa validamente in primo grado e'
 assicurata,  da quel momento, la diversita' del giudice, al cittadino
 che vedesse la sua causa decisa invalidamente in primo grado  sarebbe
 invece  riservato il contrario, permettendosi al giudice di reiterare
 la sua sentenza.
   Rileva, poi, come  questa  Corte  (di  cui  vengono  richiamate  le
 sentenze n. 131 del 1996 e n. 432 del 1995) abbia enucleato una serie
 di  imprescindibili  criteri,  cosi' riassumibili: a) il principio di
 imparzialita' del giudice  non  e'  altro  che  un  aspetto  di  quel
 carattere  di  terzieta'  che  connota  nell'essenziale  la  funzione
 giurisprudenziale;  b)  il  valore  totalizzante  del  principio   di
 terzieta' consente di ritenere incostituzionali tutte le norme che, a
 fronte  di  tale  principio,  si rivelino lacunose, ancorche' dettate
 proprio in vista dell'attuazione del criterio  di  terzieta';  c)  il
 giusto   processo   e  l'imparzialita'  del  giudice  possono  essere
 compromessi  dalla  cosiddetta  "forza  di  prevenzione",  tanto piu'
 quando un giudice emani un provvedimento che importi una  valutazione
 della questione giurisdizionale, poi ancora sottopostagli.
   In una successiva memoria la parte insiste per l'accoglimento della
 gia'   rassegnata  conclusione  principale,  sottolineando  come  sia
 giurisprudenza consolidata della Corte (da ultimo  riaffermata  nella
 sentenza  n.   363 del 1997, riguardante l'ipotesi di rinvio al primo
 giudice effettuato dalla Corte di appello nel giudizio penale) quella
 secondo cui, in caso  di  possibili  diverse  interpretazioni,  debba
 essere preferita quella conforme ai princi'pi  costituzionali.
                         Considerato in diritto
   1.  -  Il Tribunale di Taranto - nel corso di un giudizio assegnato
 alla stessa sezione ed allo stesso relatore, in sede di  riassunzione
 per  intervenuta dichiarazione, da parte della Corte d'appello, della
 nullita'  della  sentenza  di  primo  grado  per  pretermissione   di
 litisconsorti  necessari  -  dubita della legittimita' costituzionale
 dell'art. 51, numero 4, cod. proc. civ., "nella parte in cui  esclude
 l'obbligo  di astensione del giudice che abbia conosciuto della causa
 in altra fase dello stesso processo".
   A parere  del  rimettente,  la  norma  viola:  a)  l'art.  3  della
 Costituzione,  per  irragionevole  disparita' di trattamento rispetto
 alle ipotesi di cui allo stesso art. 51, numero 4, e di cui  all'art.
 383,  primo  comma,  cod.  proc.  civ.,  nelle quali e' individuabile
 l'identica ratio, che e' quella di precludere al giudice, il quale si
 sia gia' pronunciato sul  merito  della  controversia,  di  conoscere
 nuovamente  la  stessa causa; b) l'art. 24 della Costituzione, per il
 vulnus arrecato  alla  imparzialita'-terzieta'  del  giudice,  minata
 dalla   "forza  di  prevenzione,  cioe'  dalla  naturale  tendenza  a
 mantenere un giudizio gia' espresso od un atteggiamento gia'  assunto
 in  altri  momenti  decisionali  dello  stesso procedimento" (secondo
 quanto affermato nella sentenza n.  432 del 1995 di questa Corte).
   2. - La questione non e' fondata.
   2.1. - Questa Corte, dopo aver affermato in piu' occasioni  che  il
 principio  di  imparzialita'-terzieta'  della  giurisdizione ha pieno
 valore costituzionale con riferimento a tutti i tipi di processo,  ha
 chiarito  che,  tuttavia,  esso  puo'  e  deve  trovare attuazione in
 relazione specifica a ciascuno di questi (sentenza n. 326 del 1997).
   Ha inoltre  rilevato  che  le  situazioni  pregiudicanti  descritte
 dall'art.    34  cod.  proc.  pen.  sono "tipicamente individuate dal
 legislatore  in  base  alla  presunzione  che  siano   di   per   se'
 incompatibili  con  l'esercizio di ulteriori funzioni giurisdizionali
 nel medesimo procedimento, a prescindere dalle modalita' con  cui  la
 funzione  e'  stata  svolta,  ovvero dal concreto contenuto dell'atto
 preso in considerazione" (sentenza n.  351  del  1997;  v.  anche  le
 sentenze nn. 306, 307 e 308 del 1997). Ed ha, comunque, precisato che
 la  trasferibilita'  dei  princi'pi enunciati in tema di art. 34 cod.
 proc. pen. (anche dalla decisione n. 432  del  1995,  richiamata  dal
 rimettente)  al  processo  civile  non puo' non risentire della netta
 distinzione tra questo ed il processo penale, che  e'  essenzialmente
 finalizzato  all'obbligatorio  accertamento  del fatto-reato ascritto
 all'imputato, nel  cui  a'mbito  la  presunzione  di  un'apprezzabile
 influenza sul meccanismo psicologico che presiede alla formazione del
 convincimento  del  giudice  non  subisce  di  regola  la  mediazione
 dell'impulso  delle  parti,  operante  invece  nel  processo  civile,
 normalmente   informato   al   principio   dispositivo,   svolgentesi
 attraverso il contraddittorio, su un piano di  "parita'  delle  armi"
 (v.,  oltre  alla  gia' citata sentenza n. 326 del 1997, la n. 51 del
 1998).
   Esigenza imprescindibile in ogni caso, pertanto, rimane solo quella
 di evitare che lo stesso  giudice  sia  costretto,  nel  decidere,  a
 ripercorrere  l'identico  itinerario logico precedentemente segui'to;
 sicche', condizione necessaria per dover ritenere un'incompatibilita'
 endoprocessuale e' la preesistenza di valutazioni  che  cadano  sulla
 stessa res iudicanda (cfr. sentenza n. 131 del 1996).
   2.2.  -  Tanto  premesso,  va  osservato  che  nel  caso  di rinvio
 cosiddetto restitutorio (o improprio)  -  com'e'  quello  di  specie,
 contemplato  nell'art.  354 cod. proc. civ. la rimessione della causa
 da  parte  della   Corte   di   appello   consegue   all'accertamento
 dell'inefficace  esercizio  del potere giurisdizionale nel precedente
 giudizio   in   ragione   dell'inosservanza   del    principio    del
 contraddittorio, che comporta la rimozione della pronunciata sentenza
 per  nullita'  ab  initio  della trattazione del processo. E dunque -
 secondo quanto hanno affermato anche le Sezioni unite della Corte  di
 cassazione (nella sentenza 19 dicembre 1991, n. 13714) - si determina
 un  "reinizio  dello  stesso grado di giudizio nullamente svoltosi in
 precedenza, non di una fase configurabile come complementare a quella
 del processo di impugnazione".
   La restituzione della causa nella situazione in cui si  trovava  al
 momento   del   verificarsi   dell'accertata   nullita'  fa  si'  che
 l'evoluzione processuale sia destinata, di norma,  a  svilupparsi  in
 una trattazione del tutto distinta, rispetto a quella precedentemente
 tenuta  in  violazione  del  diritto  di partecipazione di una o piu'
 parti, il cui apporto puo' fare  assumere  al  processo  una  diversa
 configurazione  anche sotto il profilo oggettivo, oltre che imprimere
 al medesimo un diverso  impulso  sotto  il  profilo  istruttorio.  La
 stessa  legittimazione  dei  nuovi  soggetti  a  proporre eccezioni e
 domande riconvenzionali (le quali tutte  concorrono  con  la  domanda
 principale  a  formare  l'oggetto del giudizio) comporta, di massima,
 che in sede di rinvio il processo non sia  comunque  da  considerarsi
 imperniato ancora sull'originario thema decidendum.
   Mancando  in  linea  di  principio  la  sovrapposizione  del  nuovo
 giudizio a quello, viziato, precedentemente svolto, viene allora meno
 il paventato pericolo di prevenzione del giudice, insorgente  proprio
 e  solo  dalla  sovrapponibilita'  di  due  cognizioni della medesima
 ampiezza.  Pertanto  appare  coerente,   sotto   il   profilo   della
 imparzialita'  e  terzieta' del giudice, la scelta legislativa di non
 vietare la cognizione  e  la  decisione  della  causa  da  parte  del
 medesimo giudice.
   Il  che,  beninteso,  non  esclude  -  viceversa  valorizzandone la
 generale portata deontologica - il  dovere  del  singolo  giudice  di
 avvalersi dello strumento previsto nel capoverso dello stesso art. 51
 cod.  proc. civ., allorquando ravvisi la sussistenza di gravi ragioni
 d'astensione  (cfr. sentenza n. 326 del 1997) in quanto si sia venuta
 nel concreto a  profilare  proprio  quella  sovrapposizione  dei  due
 giudizi, teste' esclusa in via generale.
   2.3.  -  Le  considerazioni  sopra svolte onde dissipare i dubbi di
 violazione  dell'art.  24   della   Costituzione   e   di   manifesta
 irragionevolezza,   prospettati   dal  rimettente,  contribuiscono  a
 rendere  evidente  che  la  denunciata  norma  non  lede  neanche  il
 principio di eguaglianza per disparita' di trattamento.
   In  proposito  occorre  aggiungere soltanto che le norme richiamate
 dal giudice a quo quali tertia comparationis disciplinano fattispecie
 palesemente diverse. Quella di cui al primo comma dell'art. 383  cod.
 proc.  civ.,  infatti,  riguarda la contrapposta categoria del rinvio
 (cosiddetto proprio) con funzione prosecutoria del  giudizio  davanti
 ad  "altro  giudice  di  grado  pari  a  quello che ha pronunciato la
 sentenza cassata" (tanto che lo stesso  articolo,  nel  terzo  comma,
 dispone  in  piena  conformita'  all'art.  354, per il caso di rinvio
 cosiddetto improprio); mentre la norma di cui all'art. 51, numero  4,
 si riferisce ad ipotesi eterogenee, tenute distinte dal legislatore a
 riprova   della   loro   disomogeneita'  eppero'  non  comparabilita'
 reciproca.
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara non fondata la questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art. 51, numero 4, del codice di procedura civile, sollevata, in
 riferimento  agli  artt.  3 e 24 della Costituzione, dal tribunale di
 Taranto, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
   Cosi' deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 14 luglio 1998.
                        Il Presidente: Vassalli
                         Il redattore: Ruperto
                       Il cancelliere: Fruscella
   Depositata in cancelleria il 24 luglio 1998.
                       Il cancelliere: Fruscella
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